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mercoledì 11 luglio 2012
QUELL'INFANTE "in interiore homine" di Piera Mattei
Franco Ferrarotti – L'anno della quota 90 – Empiria 2012
Quanta affettuosa ironia, nelle pagine in cui Franco Ferrarotti rivive e naturalmente reinventa la sua primissima infanzia! Nato, il piccolo menagramo, nell'anno della "Quota novanta", tempi di finanziari disastri, molto simili ai nostri giorni.
L'autore gode nel rientrare in quel museo della sua mente, in quel luogo che non c'è più, che è la grande casa contadina in cui è nato e nell'altra simile casa dei bisnonni, creature ruvide e taciturne, che lo ospiterà nei primi anni di vita.
Entra in quella casa tutto solo, indisturbato ormai, con il suo occhio penetrante, con lo sguardo di un individuo adulto che ha fatto dell'intelligenza e della fantasia, dell'inesauribile gioco intellettuale, la sua principale passione. E quel suo godimento, quella passione, riesce a comunicarla al lettore.
Siamo trascinati a seguirlo nella creazione di un mito, che certamente ha corrispondenze con la realtà, ma diventa mito nel momento in cui è cantato sulla pagina, con accensione che non esiterei a riconoscere come poetica. Dunque, c'è un tema centrale nel racconto di questa infanzia, la storia di una piccola creatura malata, nel gergo veterinario si chiamerebbe lo scarto della cucciolata, che quasi abbandonato dai genitori disperati di ricuperarlo, cresce, più che accudito e educato, appena sorvegliato da questi antenati, antichi ormai, nodosi e soprattutto silenziosissimi, imparando liberamente a usare le sue corde vocali, emettendo suoni anche stranissimi o "ineducati", utilizzando come vuole i propri sensi per capire lo spazio, gli oggetti intorno. Ma l'amore, per quanto inespresso, certo non gli è mancato. Credo ci sia una grandissima forza nel breve capitoletto in cui l'autore racconta dei due lenti abbracci rituali di Ursula, la bisnonna, al mattino e alla sera prima di coricarlo. C'è un grande affetto contenuto che forse l'ha davvero nutrito, in quel nome appena sussurrato "Francu, Francu".
Nel libro questo tema centrale del bambino che cresce solitario, libero e forse (ma non lo sa) felice, tende a mutarsi in basso continuo, sul cui sottofondo s'innestano temi dalle variazioni infinite, sempre sapienti – le famose ferrarottiane digressioni. Dentro quelle, quasi dentro un coloratissimo caleidoscopio, ci trascina la mente, tendenzialmente sempre squadernata su una personale originalissima enciclopedia, del nostro autore.
Dunque questo infante–Franco–Ferrarotti (Francu) si affaccia alla coscienza del nostro autore. "Sclama" è vero, ma avrà le sue ragioni. Profondamente è amabile, curioso, ed è bello seguirlo, osservarlo non visti mentre solitario si aggira, a livello del suolo, si ferma, testa, assaggia, senza essere ostacolato da bruschi divieti. È il caso o una catena di concause che sta creando la creatura che per sempre abiterà, protetta e compresa, "in interiore homine", dentro l'adulto che inesorabilmente diventerà.
Sempre li reinventiamo, e li amiamo così come li abbiamo ricreati, come fossero altro da noi, questi "noi stessi-altri", noi come eravamo quando ancora non eravamo, quando eravamo diversi, non più ovuli, embrioni, già creature che abitano lo spazio esterno ma senza ancora conoscere, muovendosi per imparare a muoversi. Si affacciano da soli, ci costringono a ripercorrere le tappe essenziali della nostra storia personale, a osservarli con curiosa affettuosità, sempre scoprendo qualcosa di nuovo, che conoscevamo perfettamente, nei dettagli, come impresso su una pellicola, e insieme ignoravamo.
Ascoltando il professor Ferrarotti parlare con sorridente ironia e divertito distacco – con amore – del piccolo Franco, ci pare di capire che si senta un po' come il padre di quell'infante (qui in senso etimologico), che lui é stato. Ci viene da pensare che quello, il bambino libero per mancanza di cure, con i suoi lenti personali ritmi di apprendimento, lui e non altri, potrebbe essere "il figlio diletto" nel quale l'adulto carico di cultura e esperienza che è diventato, si riconosce e si "compiace".
Di seguito riportiamo alcuni passi dei capitoli II e VI del libro:
Franco Ferrarotti da "L'anno della quota 90"
II
Il Po mi ha cantato la ninna nanna
Sono dunque nato nel Comune di Palazzolo Vercellese. La partita sembra chiusa; sarebbe bello, ma non è così. È ben vero, infatti, che sono stato registrato negli uffici anagrafici del piccolo comune di Palazzolo in provincia di Vercelli, l’antica Vercellae, Vercellarum, illustrata dal Sant’Andrea, splendida basilica che mira all’impossibile congiunzione dello stile gotico con quello romanico. Ma io sono nato, a voler essere precisi, non dico pedanti, a Palazzolo, ma non proprio in Palazzolo, bensì piuttosto fuori mano, a una certa distanza dal paese, in una località sita fra il paese e il Po, nella cascina chiamata «La Fornace», luogo, come si può facilmente arguire dal nome, di grandi ardori. Purtroppo, pare che non esista più, forse autoconsunta. «Deve esserci nato un menagramo», avrebbe mormorato o mugugnato il padre al mio apparire. Correva infatti l’anno 1926, il tragico anno della Quota Novanta. Sta a vedere – soggiungeva a denti stretti il genitore – che, se andiamo avanti così, costui è piovuto giù non dalle nuvole. Ci è arrivato addosso dall’inferno. E invece no, dirà la comare, anche lui è uscito da un ventre di donna, attraverso quel meato uterino che conosciamo tutti così bene; è nato ed è stato partorito come tutti gli altri. Del resto, quell’uscita non proprio trionfale e, anzi, alquanto tribolata, la ricordo molto bene, acido lisergico adjuvante. Sono nato, in effetti, in Piemonte, nel territorio di Palazzolo Vercellese, in località detta «La Fornace».
Ma dove, precisamente, sono venuto al mondo? In ospedale? In clinica? Non mi si faccia ridere. All’epoca si veniva al mondo nel letto grande dei genitori, nel lettone a due piazze, senza tante storie, nel luogo stesso in cui si era stati concepiti. La Nena Linda, levatrice di generazioni, provvedeva alla bisogna; acqua bollente, asciugamani grandi, appena usciti dal bucato, eccetera. A che ora? Di giorno o di notte? Mia madre sosteneva, con la sua famosa cocciutaggine, alle tre del pomeriggio, del venerdì santo, mentre si sentivano i «botti», cioè i rintocchi che accompagnavano la morte del Salvatore.
Ma il luogo dove io sono nato, ormai quasi un secolo fa, non c’è più. Sono venuto, letteralmente, dal nulla. Il posto se l’è portato via il Po, in una notte di tuoni e fulmini. E di malumore. Amare un fiume, come io ho sempre amato il Po, il suo quieto scorrere, ma anche le sue notti agitate, sembra incongruo. Amarlo, ma anche temerne gli umori; spiarne i cambiamenti improvvisi, i sussulti, i temuti, pericolosi, spesso fatali «mulinelli», sfiora il masochismo.
Non funzionavo. A sei mesi, e ancor prima, mi davano per spacciato. Nel mezzo della crisi determinata dalla sciagurata «Quota Novanta», nella famiglia allargata, ero diventato un peso insopportabile. Piangevo e mi lamentavo, «sclamavo» giorno e notte, per settimane. Si decise di mandarmi a Robella, dai bisnonni Ursula e Battista. L’aria era buona, migliore di quella di Palazzolo. Non ci voleva molto. Quella plaga al di sotto del livello del Po ne costituiva l’isola di sfogo. Robella era meno umida, la sua aria di ostinata «ribelle», o «rubella», era purificata dal bosco.
[...]
Ho sempre amato il Po. Compagno fedele. Musica dell’infanzia. Ma, come forse in tutti i grandi amori, c’è sempre la percezione di una minaccia, l’imprevedibilità dei comportamenti, la capricciosità delle reazioni. In un grande amore non c’è mai nulla di scontato, nulla che possa venir considerato garantito o gratuito. Passione e rottura sono presenti sempre. La qualità dell’onda è mutevole. Cambia il vento e la superficie liquida s’increspa. Cresce il livello e la carezza che lambisce si trasforma in uno schiaffo limaccioso che flagella. La minaccia del fiume, le alluvioni notturne. Esondazioni e inondazioni. La notte della grande fuga verso le colline. Ma non sempre ci sono colline a portata di mano. La pianura è piatta. L’acqua preferisce la posizione orizzontale. Si riposa. Riflette, calma, il cielo.
[...]
VI
Vantaggi della taciturnità e del ritardo mentale
I bisnonni ti vogliono bene, ma non ti parlano. Credono, con qualche buona ragione, che sia tempo buttato. Ma così consentono al bambino di parlare la sua lingua incomprensibile, inventata lì per lì, fatta di interiezioni e brevi esclamazioni, a seconda dei casi, e delle imprevedibili espressioni, scarsamente articolate, di sorpresa, dolore, disappunto, spavento, allegria. Non c’è conversazione. Non c’è scambio linguistico. Il mondo adulto, con la sua grammatica e la sua sintassi, è meravigliosamente lontano, assente. L’ordine del discorso ha da venire, se mai verrà. Ci sono i suoni, i rutti, le raucedini, le pernacchiette, i piccoli gridi di sorpresa.
Nel bambino non c’è la volontà del sapere. C’è solo il gusto, la curiosità del non ancora saputo. Mio Dio! Il bambino non sa niente. Tocca tutto. Vede con le falangi. È immerso nella obnubilata incoscienza del minerale. Non sa che si sta preparando il suo destino. Chi mai potrà raccontare le lunghe grigie giornate invernali della primissima infanzia, deliziosamente fredde, congelate nell’intemporale immobilità di una contemplazione assorta e stupefatta?
Michel Foucault è presuntuoso. L’ordine del discorso nasce dalle macerie. È un atto di censura. D’accordo. Solo l’infante può superare indenne l’interdetto. Il suo balbettio è così creativo, inedito, originale che gli adulti, monopolisti del potere, non sono in grado di capirlo. Ci sono più fonemi nella gola e nelle corde vocali del bambino di quanti si sogna nei trattati dei fonologi. Nelle buone famiglie, specie in quelle in cui trionfano le buone maniere e la mezza cultura, al bambino si proibiscono per tempo certi gesti e certi suoni. Vige la censura della parola «brutta» anche se naturale, primordiale, a suo modo autenticamente selvaggia, ma che non va detta in compagnia.
Nel silenzio ampio e nella sconfinata solitudine del mondo contadino di una volta, il bambino si esercitava, naturalmente, senza proporselo, a imitare i suoni che avvertiva, animati e inanimati. Ma nessuno, per me, era lì ad impedirmi di emettere anche suoni «osceni», rutti, scorregge. Un fonologo di straordinaria acutezza ha formulato in proposito la domanda fondamentale: «Qual’è mai la relazione tra le esclamazioni, sia infantili che adulte, e le lingue in cui sono pronunciate?» In un certo senso le interiezioni sembrano rappresentare una dimensione comune a ogni lingua in quanto tale, poiché sarebbe difficile, se non impossibile, immaginare una forma di linguaggio che ne fosse priva. D’altra parte, le esclamazioni denotano necessariamente un’eccedenza nella fonologia di una lingua singola, poiché sono composte di suoni specifici per definizione non contenuti altrimenti nella lingua. Gli «elementi fonologici distintivi anomali» sono, in breve, contemporaneamente inclusi in una lingua e da essa esclusi; più precisamente, sembrano inclusi in una lingua proprio in quanto sono esclusi da essa. Equivalenti fonetici di quelle entità paradossali che la logica degli insiemi ha bandito dalla propria disciplina all’atto stesso della sua fondazione, i rumori delle esclamazioni costituiscono gli «elementi» interni a ogni lingua che appartengono e non appartengono all’insieme dei suoi suoni. Sono i membri sgraditi ma inalienabili di ogni sistema fonologico, dei quali nessuna lingua può fare a meno ma che nessuna riconoscerà come propri.
Che tali elementi fonetici siano meno «anomali» di quanto potrebbero sembrare, lo suggerisce nientemeno che un pensatore e creatore di lingua quale Dante, affermando – nel suo incompiuto trattato sulla lingua, il De vulgari eloquentia – che, dalla Caduta di Adamo in poi, il discorso umano è sempre iniziato con un’esclamazione disperata: “Heu!”. (Quindi con un’espressione la cui forma scritta contiene almeno una lettera rappresentante un suono che doveva essere assente dal latino medievale noto a Dante: la consonante aspirata pura h). Il suggerimento del poeta è degno di essere preso in seria considerazione. Cosa può significare che la forma primitiva del linguaggio umano non sia un’asserzione, una domanda, una nominazione, ma un’esclamazione? Presa troppo alla lettera, l’osservazione di Dante rischia di essere fraintesa, poiché non definisce tanto le condizioni empiriche del discorso, quanto quelle strutturali che consentono la definizione del linguaggio in quanto tale. Queste condizioni sono quelle dell’interiezione: appena è possibile un’esclamazione, suggerisce il poeta-filosofo, può esserci una lingua, ma non prima; una lingua in cui non si potesse gridare non sarebbe affatto una lingua umana. Forse perchè l’intensità del linguaggio non è mai maggiore che nell’interiezione, nell’onomatopea, e nell’imitazione umana di ciò che non è umano. Mai una lingua è più “se stessa” che quando sembra abbandonare il territorio del suo suono e del suo senso, assumendo la forma fonica di quanto non ha – o non può avere – un linguaggio proprio: versi animali, rumori naturali o meccanici. È qui che una lingua, gesticolando oltre se stessa in un discorso che non può dirsi tale, si apre alla non-lingua che la precede e la segue. È qui, nell’emissione di quegli strani suoni che i parlanti si ritenevano incapaci di produrre, che una lingua si manifesta come una “esclamazione” nel senso letterale del termine: un “chiamar-fuori” (ex-clamare, Aus-ruf), oltre o prima di sé, nei suoni del linguaggio inumano che essa non può né completamente ricordare né del tutto dimenticare» .
Che fortuna non avere troppo solerti genitori, governanti o balie, più o meno asciutte, che per tutto il giorno ti dicano ciò che si può dire, e come vada detto, ciò che non si può dire nella maggioranza dei casi e ancora ciò che non va neppure pensato. Ma esiste forse una gioia più grande, per la curiosità dell’infante, che giocare, rimescolandone gli elementi costitutivi, con le proprie scorie liquide e solide, e con la dolce, melmosa tenerezza del fango e della polvere?
[...]
Ho cominciato a parlare tardi, e solo con difficoltà e rari squarci vocali. E ho cominciato anche più tardi a camminare eretto. Ho sempre, istintivamente, preferito le quattro zampe, vicino a terra, più comode, certamente più sicure, meno esposte al rischio di perdite di equilibrio, di sbandamenti e di cadute, talvolta, rovinose. Ho cominciato a parlare alquanto scioltamente solo verso i quattro anni. Ma da sempre, fra me e me, continuavo a borbottare: un insistente balbettio, con suoni strani, con molte ü e ö, che più tardi mi avrebbero aiutato in modo decisivo nella pronuncia del francese e del tedesco. Creatività inconsapevole del balbettio infantile, così spesso e stupidamente censurato, con le migliori intenzioni, dal mondo adulto e dalle scienze pedagogiche.
È il mondo della taciturnità. La bisnonna Ursula ti abbraccia, senza stringere, tutte le mattine. E poi, la sera, prima di andare a letto. Detto più precisamente, prima di infilarsi fra le lenzuola, scivolare nella busta. Ma senza dire parola. Al più, borbottando, sussurrando il mio nome, che è un breve, misero bisillabo: «Francu, Francu». Le parole sono surrogate dal linguaggio del corpo. Gli occhi. Gli abbracci. Le mani ossute e nodose che ti accarezzano come se ti spazzolassero.
Il bambino parla con gli insetti, con gli animali, con se stesso animale fra gli animali di mezza taglia. Se nessuno ti regge, e tu non stai dritto sulle gambe tenere, non cammini, che fai? Ti limiti a gattonare, riduci i rischi. Errando a quattro zampe, si stabiliscono amicizie, legami piuttosto profondi con gli insetti, piccoli animali, rapidi e furtivi. Si sa che questo accade ai detenuti per lunghi periodi con uccelli attirati alle inferriate, vermi, topolini.
[...]
La vita dell’infante trascorre, l’inverno, fra la cucina e la stalla, luoghi caldi di un caldo naturale, accoglienti, in cui si mangia, ci si riempie e ci si libera, si evacua. Ma la cucina non è il miserabile cucinino degli appartamenti di oggi. È uno stanzone immenso, un vasto antro degno di Polifemo, una sorta di tempio, e la stalla, d’altro canto, è il rifugio nelle brumose serate invernali, dove si raccoglie la convivialità e si celebra la fratellanza fra animali umani e non umani, si raccontano storie antiche e si lega così il passato al presente, si preannuncia e si pregusta l’avvenire. Cucina e stalla, dunque, cibo e calore umano, convivenza e processi fisiologici.
Nell’era del «precotto», la cucina è stata dapprima ridotta a sgabuzzino per riporvi scope, piumini e arnesi vari, e quindi degradata ad «angolo-cottura». Le cucine di una volta erano tutt’altra cosa. La mia cucina del «castello» di Robella era un salone immenso, con volta a cattedrale e un camino sempre acceso, che occupava, praticamente, tutta una parete e mestoli e casseruole di varie dimensioni, padelle di rame lucido e trecce di aglio e cipolle, salami, interi prosciutti impiccati, per così dire, allegramente appesi, impudicamente pendenti dall’alto soffitto, affumicato e variamente istoriato, tanto da far pensare ad una sorta di laica, godereccia Cappella sistina. La cucina era il cuore della casa, il luogo deputato alla preparazione, laboriosa e odorosa, del cibo ma anche alla sua tranquilla, protratta consumazione, debitamente aiutata da libagioni generose, risate omeriche, rutti, fiati posteriori. Forse non poteva neppure immaginare quanta ragione avesse il filosofo Ludwig Feuerbach quando affermava, con teutonica burbanzosità, che «Mensch ist was er isst» (l’uomo è ciò che mangia).
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