mercoledì 20 marzo 2013

Valerio Magrelli – Geologia di un padre – Einaudi, 2013



Padre: l'identità lontana – nota di lettura di Piera Mattei


Il libro ha un esordio quasi teatrale. Siamo in un interno – allestita una cerimonia del caffè – possiamo immaginare ospiti al di fuori della cerchia familiare: il regista immobile ma che controlla l'intera scena dalla sua lente è l'autore bambino. La bevanda viene versata dal padre, con gioviale noncuranza per la mano che ha un dito ferito. Il dito  – lui non se n'è accorto, il bambino sì –s'immerge nel liquido bollente, la sensazione è schermata inizialmente dalla pesante fasciatura. Il figlio vede e tace, è in attesa sospensione di cosa accadrà. Tace forse per timidezza di fronte agli ospiti forse per innocente malvagità infantile. Ed ecco succede: la reazione plateale, il grido, scompiglio, oggetti che cadono a terra e vanno in frantumi.

Le cortine si sono alzate sul carattere principale del racconto in uno dei suoi accessi di temperamento, qui di fatto giustificato da un improvviso acuto dolore. Si aprono anche sul suo assorto osservatore e comprimario, che necessariamente varierà, nei vari episodi, d'età, e quindi d'atteggiamento – non più lo sguardo rivolto in alto, ma allo stesso livello – rimanendo l'altro sostanzialmente identico a se stesso: nella sua fisicità meticolosamente descritta, più simile a un' idea, a un mito antico. In questo senso ha una forte valenza metaforica, che indica anche una scelta o necessità metodologica, il paragrafo che si riferisce alla nudità di Noè nella Bibbia e al bisogno, nella malattia, d'infrangere il tabù dello sguardo sul sesso del padre. Mai, nessuna inversione dei ruoli, come nelle commedie familiari al cinema o alla TV – siamo piuttosto nel tono epico – nessun pietoso libertinismo, rincorsa del figlio, lui sempre simile a un vero Classico, Giove, Saturno. Un padre iroso, ma solo contro "gli altri" e gli oggetti che gli resistono, se il figlio può, scorrendo i fotogrammi della memoria, ricordare solo uno schiaffo, una reazione incontrollabile di riappropriazione, dopo che il figlio, timoroso d'averla combinata grossa, era sparito. Il figlio, a parte l'aspetto fisico che sempre più si plasma su quello dell'antenato, rimane soprattutto sguardo, con quanto di spietato lo sguardo comporta. Si specchia anche, guarda la sua immagine riflessa e scopre non solo l'identica forma di calvizie, ma anche una parte di quella eredità terribile, il cedere all'ira, che scorre nelle sue vene con le eliche del DNA. Come sempre va a cercare il nome scientifico per quella disposizione genetica alla furia contro gli oggetti che oppongono resistenza. Clastomani: la nostra è una famiglia di clastomani, ovvero di creature sofferenti, offese dalla vita, dagli oggetti medesimi. Trovato il nome esatto per il disturbo ci si può placare, osservarlo e illudersi così, tramite la sua definizione, come fanno medici e scienziati, di cominciare a dominarlo.

Come sempre in Valerio Magrelli ci troviamo di fronte a una scrittura che fa scaturire l'invenzione poetica solo dalla verità più nuda. Il tono conosce quella che ho altrove chiamato "la sottolineatura dell'ironia e talvolta dell'amara comicità inerente ai fatti e aderente ai corpi". Altro paragrafo che illustra questo concetto e insieme sembra negarlo: quello che si riferisce al rapporto del padre col mare. Dichiaratamente comico, con quel riferimento a Jacques Tati. Ma poi ne risulta un'immagine poetica, nei luminosi colori del pigmento: i capelli, rossi e ondulati come quelli di un fiammante  David Niven [...] Candido, secco, leggero, trasparente, un ossicino di seppia sospinto dalla corrente. Brezza.Teme il sole. Chiaro di pelle.

Ritornando al paragrafo iniziale, individuiamo una seconda funzione di quella scena. Avevamo infatti dimenticato il terzo protagonista, quel caffè elemento necessario a dipanare sul filo  di sostanze materiche il discorso sulla morte. Il Tempo e l'agguato della fine sono infatti la cupola di quel teatro dove ogni gesto per quanto sdegnoso, potente o prepotente, per quanto talvolta amoroso, diventa minuscolo gesto, anzi inutile gesticolazione.
L'incontro con corpi decomposti dalla morte e la necessità (così vuole non la sorte, ma il tiro a sorte) di doversene occupare, suggerisce allo sguardo e alla mente l'analogia nel colore e nella consistenza con i fondi del caffè. Un racconto che annulla il macabro, esponendo ogni frammento e dettaglio di realtà alla stessa luce diurna. La similitudine materica, col tramite di Jean Cocteau, trapassa quindi dal caffè al tabacco, il tono diventa affettuoso, divertito. Siamo in presenza di un padre, che non avendo mai fumato in obbedienza all'imperativo della madre, diventa fumatore solo alla morte di lei, in età molto avanzata. Di nuovo costretto alla rinuncia, ridotto alla razione quotidiana di una sola sigaretta, si regala un puro piacere concedendosene una sola, sì, come il medico ordina, ma lunga, la più lunga mai vista, d'una marca che chissà dove è riuscito a trovare.

Torno, per additare un metodo di scrittura, a quella improvvisa esplosione di grida e oggetti rotti del paragrafo d'inizio, parabola di un carattere iroso: Non so da dove venga quel senso di pienezza che nasce rispondendo a un'aggressione. Deve avere a che fare con le endorfine, una reazione chimica elementare, tribale, testicolare. Nell'improvviso vuoto lasciato dal flusso adrenalinico, si leva una luce radiante, la piccola atomica degli umiliati e offesi. Ulisse con i Proci, o Sandokan, Mandrake, erano pallide prefigurazioni di quanto poteva mio padre. Non so come sia arrivato sano e salvo fino a ottantatre anni. Certo è che non lo vidi mai tollerare un affronto. Era il suo lato splendido e insensato, fantastico, brutale e leggendario.
Questo inizio del paragrafo nove in modo esemplare riassume il modo di sentire, ripensare e scrivere questi ricordi. All'inizio l'interpretazione scientifica del fenomeno (deve avere a che fare con le endorfine), quindi la sua fulminante metafora poetica (si leva una luce radiante, la piccola atomica degli umiliati e offesi), di seguito il riferimento ai classici o al mondo del cinema e della musica (Ulisse con i Proci, Sandokan, Mandrake) infine rapito, affascinato, ma anche atterrito il sentimento del figlio (era il suo lato splendido e insensato, fantastico, brutale e leggendario).

Abbiamo detto già che sulla scena ci sono sempre loro due, il padre sotto lo sguardo del figlio: con la morte è stata la nostra coppia a scomparire.
Come in una enciclopedia duale si svolgono i temi della complicità e della somiglianza: il calcio, i nei, la musica, la religione e le bestemmie, l'architettura, le automobili, i disegni, di cui alcuni  di Giacinto Magrelli, il padre protagonista, all'interno del volume e anche in copertina. Tanti ricordi, tanti dettagli, che rivelano uno sguardo rivolto a lui, come se tutti gli altri non esistessero. Una madre pure dovrebbe esserci. E mamma? s'intitola con inflessione infantile, ma dando per scontato  che con lei non è stata la stessa avventura, il paragrafo 72. Lei ormai, incapace più di farlo soffrire, ridotta a un oggettino (sembra uno scupidù). No, nella vita domestica del giovane Magrelli, su quel palco, non c'è nessun altro, o se c'è rimane ostile dietro le quinte, e non conta. Meglio andare a cercare i parenti lontani, gli antenati, nel paese di pietra vulcanica, Pofi, in Ciociaria.
Questa ricerca, questo riandare ai ricordi e dissodarli, portarli in pieno sole, è quanto può definirsi geologia di un padre, come si trattasse di un fossile da riportare alla luce, come riconoscendo una somiglianza assoluta dalla quale ci separano tempi preistorici.

Se l'osservazione, la denominazione scientifica di quanto ci riguarda, è l'imprescindibile, la tenerezza che è in quello sguardo deve risultare impercettibile. Così il ricordo preciso di un abbraccio, di apicale dolcezza è subito scomposto nella sua valenza semantica, perché il sentimentalismo non lo contamini.
Il ricordo continua a zigzagare dall'infanzia dell'autore alla vecchiaia e malattia del genitore, sempre con sguardo così asciutto da sembrare crudele, indice che punta sulla realtà, sul decadimento e la morte progressiva. Un temperamento, quello di Valerio Magrelli, in cui la verità sembra non poter essere appannabile. Necessario lasciarla esposta senza veli. Devo dire che, per quanto mi sia stato doloroso,  mai prima della lettura di questo libro  avevo compreso con tanta esattezza cosa fosse la malattia di Parkinson. Il suo presentarsi con un colpo preciso e inesorabile: Avere un corpo immacolato, ma col sistema elettrico fuori gioco. Tanta fatica per tenersi in forma e poi ti si fulmina la centralina.

Aggiunge l'autore: Se mi accanisco sulla ricostruzione della sua decostruzione non è, ritengo per morbosità. Questo bisturi che incide sui  sintomi del male ha forse anche un altro significato oltre a quello che l'autore fornisce (avvicinarmi alla persona). Individuo in tutto il progetto letterario di Magrelli una componente etica, filosofica, alla maniera dei filosofi antichi. Lucrezio anzitutto: mostrare la morte nel suo aspetto naturale, per separarla dal ribrezzo e dalla paura. Dignitas, il diritto di lasciare la vita prima che tutta l'umanità si sia consumata: "perché cerchi ancora di continuare ciò che presto avrà dolorosa fine e ingrato totale tramonto (De rerum natura,libro III, 941- 42)". Sul modo con cui il libro è nato, di nuovo sul nome da dare stavolta alla sua modalità di scrittura (intratestualità), l'autore ci fornisce una nota precisa e sintetica. Scienza, poesia, disegni note e citazioni, tutti materiali che ruotano intorno al mito del padre, per liberarsene infine, per liberarlo, dargli pace, come con un antico rito sepolcrale.
Foto1: Roma, Cappella Sistina –Michelangelo, L'ebrezza di Noè
Foto 2: Trieste, Piazza Hortis, dettaglio del murale dedicato a Italo Svevo (Piera Mattei)

Marco Ercolani – Si minore – Premio Letterario Ulteriora Mirari – Edizioni Smacher 2012





Una roccia a forma di nave – nota di lettura di Piera Mattei

Poesie in Si minore, scritte sulla tonalità dell'Incompiuta di Schubert, poesie di tonalità romantica? A ben considerare non sarebbe la caratteristica precipua di questo libro di Marco Ercolani, dato che tutta la produzione di questo scrittore, ossessionata dal buio, dalla follia, dalla morte è, nel senso più autentico del termine, romantica. Non sentimentale tuttavia – mai – né popolare, anzi costruita su una scrittura e a una lettura insieme marginale e elitaria.

Pratica romantica è anche la rilettura-attualizzazione dei classici e qui l'ultima sezione che porta in esergo alcuni versi tratti dall'Odissea, costruisce le sue poesie con riflessi dell'immagine originalissima dell'episodio citato. Occorre accennarne, perché, per quanto di mirabile forza, il racconto, tutto fondato su una sola "pietrificante" immagine, rimane tronco, senza reali conseguenze sugli sviluppi successivi e sul destino dell'eroe protagonista. Siamo dunque nella parte centrale del poema. I Feaci hanno deposto, con dovizia  di doni, Odisseo addormentato sul suolo della sua Itaca. Il loro gesto, di grande umanità e generosità, provoca le ire di Poseidone, che vede minacciato il suo potere di far naufragare gli umani o sospingerli erranti nel regno che gli appartiene. Il dio del mare vorrebbe punire i Feaci distruggendo la loro nave e ricoprire la loro bella città con un monte. Zeus, con  finezza crudele, rivede il progetto, nello stesso tempo lasciando ai Feaci la possibilità di pentirsi della loro generosità e convertirsi all'indifferenza verso i naufraghi che il mare getta sulle loro rive. Così stabilisce, con i versi, appunto, riportati nell'esergo: "quella nave subito diventi roccia a forma di nave, in vista della costa! E siano presi dal sacro stupore tutti quanti gli uomini. E poi una montagna enorme li travolga essi e la loro città".
Gli dei ottengono quanto volevano: i Feaci terrorizzati dalla punizione che ha reso la loro nave immobile e di pietra, per scongiurare che il malefizio si compia nella sua interezza, faranno a Poseidone l'offerta di dodici tori, con la promessa che smetteranno infine "di accompagnare i mortali".

Gli dei ci puniscono della nostra generosità. Chi si muove e attraversa gli oceani per riportare alla sua terra un naufrago (per quanto re della sua isola) rischia di restare radicato alle profondità marine, su una nave di pietra, "in vista della costa". Può essere questo il senso nascosto nelle poesie dell'ultima sezione del libro? Non è da escludere, per quanto il poeta sembri soprattutto affascinato da quella maligna magia in sé, incantato anche lui, nell'idea di una solida immobilità: Noi, grande pietra nera / a forma di nave / ancorata nell'acqua  / niente sangue nessuno / dice nulla / alberi immobili / svettano sul ponte
Letto dunque nella prospettiva offerta dall'ultima sezione, il libro rende anzitutto l'idea di un mare a sua volta colpito da immobilità su cui come relitti nuotano sogni, frammenti d'esperienze al confine col sonno. E di nuovo torna l'acqua: Vortice / nelle vie inondate, incubo sordo / cose familiari come estranee macerie / nell'acqua nera, cofani, vetri / scarpe. Qui l'incubo si è fatto cronaca, anzi viceversa: l'alluvione prospetta allo sguardo un incubo reale, con oggetti che la furia dell'acqua toglie al loro significato familiare, per ridurli in macerie, come avviene anche – sempre, e spesso molto prima che alle cose – per gli esseri viventi. Anche la terra compare, terra di laguna, la laguna di Grado, Aquileia, mentre l'autore trascrive il suo sguardo su una bellezza disegnata anche dalla storia. La preferenza per l'acqua tuttavia è fin troppo evidente e apertamente dichiarata: Ma preferisco altre visioni: / un continente d'acqua, senza figure, / che comprenda le nostre vite terrene / in una navigazione lentissima.

Abbiamo detto dell'acqua, del mare. La raccolta comprende però anche poesie strettamente liriche, poesie che raccontano l'amore, e  – grata sorpresa in una produzione che conoscevamo soprattutto legata allo scavo e al rovello psichico e intellettuale – sensuali, con sottolineata rivincita del tatto sugli altri sensi. Le labbra, le mani, la pelle diventano protagoniste: Pelle contro pelle, / ombra contro ombra, / con l'impulso di rinascere ancora, / furiosi e muti. Il ritmo, in queste poesie, si fa altra volta morbido e il racconto del dolore o dell'amore diventa discorso triste, sì, ma piano, quasi una confessione totalmente accessibile: Anni / che non arriva il silenzio / e il ritratto di te / si moltiplica // anni che appena respiro / mi disinganna l'aria / e devo smettere con il fiato / tenermi la testa stretta tra le mani

nella Foto: Trieste, Molo san Giusto (Piera Mattei)