Padre: l'identità lontana – nota di lettura di Piera Mattei
Il libro ha un esordio quasi teatrale. Siamo in un interno –
allestita una cerimonia del caffè – possiamo immaginare ospiti al di fuori della
cerchia familiare: il regista immobile ma che controlla l'intera scena dalla
sua lente è l'autore bambino. La bevanda viene versata dal padre, con gioviale
noncuranza per la mano che ha un dito ferito. Il dito – lui non se n'è accorto, il bambino sì
–s'immerge nel liquido bollente, la sensazione è schermata inizialmente dalla
pesante fasciatura. Il figlio vede e tace, è in attesa sospensione di cosa
accadrà. Tace forse per timidezza di fronte agli ospiti forse per innocente
malvagità infantile. Ed ecco succede: la reazione plateale, il grido,
scompiglio, oggetti che cadono a terra e vanno in frantumi.
Le cortine si sono alzate sul carattere principale del
racconto in uno dei suoi accessi di temperamento, qui di fatto giustificato da
un improvviso acuto dolore. Si aprono anche sul suo assorto osservatore e
comprimario, che necessariamente varierà, nei vari episodi, d'età, e quindi
d'atteggiamento – non più lo sguardo rivolto in alto, ma allo stesso livello – rimanendo
l'altro sostanzialmente identico a se stesso: nella sua fisicità
meticolosamente descritta, più simile a un' idea, a un mito antico. In questo
senso ha una forte valenza metaforica, che indica anche una scelta o necessità
metodologica, il paragrafo che si riferisce alla nudità di Noè nella Bibbia e
al bisogno, nella malattia, d'infrangere il tabù dello sguardo sul sesso del
padre. Mai, nessuna inversione dei ruoli, come nelle commedie familiari al
cinema o alla TV – siamo piuttosto nel tono epico – nessun pietoso
libertinismo, rincorsa del figlio, lui sempre simile a un vero Classico, Giove,
Saturno. Un padre iroso, ma solo contro "gli altri" e gli oggetti che
gli resistono, se il figlio può, scorrendo i fotogrammi della memoria,
ricordare solo uno schiaffo, una reazione incontrollabile di riappropriazione,
dopo che il figlio, timoroso d'averla combinata grossa, era sparito. Il figlio,
a parte l'aspetto fisico che sempre più si plasma su quello dell'antenato, rimane
soprattutto sguardo, con quanto di spietato lo sguardo comporta. Si specchia
anche, guarda la sua immagine riflessa e scopre non solo l'identica forma di
calvizie, ma anche una parte di quella eredità terribile, il cedere all'ira,
che scorre nelle sue vene con le eliche del DNA. Come sempre va a cercare il
nome scientifico per quella disposizione genetica alla furia contro gli oggetti
che oppongono resistenza. Clastomani: la
nostra è una famiglia di clastomani, ovvero di creature sofferenti, offese
dalla vita, dagli oggetti medesimi. Trovato il nome esatto per il disturbo
ci si può placare, osservarlo e illudersi così, tramite la sua definizione, come
fanno medici e scienziati, di cominciare a dominarlo.
Come sempre in Valerio Magrelli ci troviamo di fronte a una
scrittura che fa scaturire l'invenzione poetica solo dalla verità più nuda. Il tono
conosce quella che ho altrove chiamato "la sottolineatura dell'ironia e
talvolta dell'amara comicità inerente ai fatti e aderente ai corpi". Altro
paragrafo che illustra questo concetto e insieme sembra negarlo: quello che si
riferisce al rapporto del padre col mare. Dichiaratamente comico, con quel
riferimento a Jacques Tati. Ma poi ne risulta un'immagine poetica, nei luminosi
colori del pigmento: i capelli, rossi e
ondulati come quelli di un fiammante
David Niven [...] Candido, secco, leggero, trasparente, un ossicino di
seppia sospinto dalla corrente. Brezza.Teme il sole. Chiaro di pelle.
Ritornando al paragrafo iniziale, individuiamo una seconda funzione
di quella scena. Avevamo infatti dimenticato il terzo protagonista, quel caffè
elemento necessario a dipanare sul filo
di sostanze materiche il discorso sulla morte. Il Tempo e l'agguato
della fine sono infatti la cupola di quel teatro dove ogni gesto per quanto
sdegnoso, potente o prepotente, per quanto talvolta amoroso, diventa minuscolo
gesto, anzi inutile gesticolazione.
L'incontro con corpi decomposti dalla morte e la necessità (così
vuole non la sorte, ma il tiro a sorte) di doversene occupare, suggerisce allo
sguardo e alla mente l'analogia nel colore e nella consistenza con i fondi del
caffè. Un racconto che annulla il macabro, esponendo ogni frammento e dettaglio
di realtà alla stessa luce diurna. La similitudine materica, col tramite di Jean
Cocteau, trapassa quindi dal caffè al tabacco, il tono diventa affettuoso, divertito.
Siamo in presenza di un padre, che non avendo mai fumato in obbedienza
all'imperativo della madre, diventa fumatore solo alla morte di lei, in età
molto avanzata. Di nuovo costretto alla rinuncia, ridotto alla razione
quotidiana di una sola sigaretta, si regala un puro piacere concedendosene una
sola, sì, come il medico ordina, ma lunga, la più lunga mai vista, d'una marca che
chissà dove è riuscito a trovare.
Torno, per additare un metodo di scrittura, a quella
improvvisa esplosione di grida e oggetti rotti del paragrafo d'inizio, parabola
di un carattere iroso: Non so da dove
venga quel senso di pienezza che nasce rispondendo a un'aggressione. Deve avere
a che fare con le endorfine, una reazione chimica elementare, tribale,
testicolare. Nell'improvviso vuoto lasciato dal flusso adrenalinico, si leva
una luce radiante, la piccola atomica degli umiliati e offesi. Ulisse con i
Proci, o Sandokan, Mandrake, erano pallide prefigurazioni di quanto poteva mio
padre. Non so come sia arrivato sano e salvo fino a ottantatre anni. Certo è
che non lo vidi mai tollerare un affronto. Era il suo lato splendido e
insensato, fantastico, brutale e leggendario.
Questo inizio del paragrafo nove in modo esemplare riassume
il modo di sentire, ripensare e scrivere questi ricordi. All'inizio
l'interpretazione scientifica del fenomeno (deve
avere a che fare con le endorfine), quindi la sua fulminante metafora
poetica (si leva una luce radiante, la
piccola atomica degli umiliati e offesi), di seguito il riferimento ai
classici o al mondo del cinema e della musica (Ulisse con i Proci, Sandokan, Mandrake) infine rapito, affascinato,
ma anche atterrito il sentimento del figlio (era il suo lato splendido e insensato, fantastico, brutale e
leggendario).
Abbiamo detto già che sulla scena ci sono sempre loro due, il
padre sotto lo sguardo del figlio: con la
morte è stata la nostra coppia a scomparire.
Come in una enciclopedia duale si svolgono i temi della
complicità e della somiglianza: il calcio, i nei, la musica, la religione e le
bestemmie, l'architettura, le automobili, i disegni, di cui alcuni di Giacinto Magrelli, il padre
protagonista, all'interno del volume e anche in copertina. Tanti ricordi, tanti
dettagli, che rivelano uno sguardo rivolto a lui, come se tutti gli altri non
esistessero. Una madre pure dovrebbe esserci. E mamma? s'intitola con inflessione infantile, ma dando per
scontato che con lei non è stata
la stessa avventura, il paragrafo 72. Lei ormai, incapace più di farlo
soffrire, ridotta a un oggettino (sembra
uno scupidù). No, nella vita domestica del giovane Magrelli, su quel palco,
non c'è nessun altro, o se c'è rimane ostile dietro le quinte, e non conta.
Meglio andare a cercare i parenti lontani, gli antenati, nel paese di pietra
vulcanica, Pofi, in Ciociaria.
Questa ricerca, questo riandare ai ricordi e dissodarli,
portarli in pieno sole, è quanto può definirsi geologia di un padre, come si trattasse di un fossile da riportare
alla luce, come riconoscendo una somiglianza assoluta dalla quale ci separano tempi
preistorici.
Se l'osservazione, la denominazione scientifica di quanto ci
riguarda, è l'imprescindibile, la tenerezza che è in quello sguardo deve
risultare impercettibile. Così il ricordo preciso di un abbraccio, di apicale dolcezza è subito scomposto
nella sua valenza semantica, perché il sentimentalismo non lo contamini.
Il ricordo continua a zigzagare dall'infanzia dell'autore
alla vecchiaia e malattia del genitore, sempre con sguardo così asciutto da
sembrare crudele, indice che punta sulla realtà, sul decadimento e la morte
progressiva. Un temperamento, quello di Valerio Magrelli, in cui la verità
sembra non poter essere appannabile. Necessario lasciarla esposta senza veli.
Devo dire che, per quanto mi sia stato doloroso, mai prima della lettura di questo libro avevo compreso con tanta esattezza cosa
fosse la malattia di Parkinson. Il suo presentarsi con un colpo preciso e
inesorabile: Avere un corpo immacolato, ma
col sistema elettrico fuori gioco. Tanta fatica per tenersi in forma e poi ti
si fulmina la centralina.
Aggiunge l'autore: Se
mi accanisco sulla ricostruzione della sua decostruzione non è, ritengo per morbosità.
Questo bisturi che incide sui sintomi del male ha forse anche un altro significato oltre a
quello che l'autore fornisce (avvicinarmi
alla persona). Individuo in tutto il progetto letterario di Magrelli una
componente etica, filosofica, alla maniera dei filosofi antichi. Lucrezio
anzitutto: mostrare la morte nel suo aspetto naturale, per separarla dal
ribrezzo e dalla paura. Dignitas, il
diritto di lasciare la vita prima che tutta l'umanità si sia consumata: "perché
cerchi ancora di continuare ciò che presto avrà dolorosa fine e ingrato totale
tramonto (De rerum natura,libro III, 941- 42)". Sul modo con cui il libro
è nato, di nuovo sul nome da dare stavolta alla sua modalità di scrittura (intratestualità), l'autore ci fornisce
una nota precisa e sintetica. Scienza, poesia, disegni note e citazioni, tutti
materiali che ruotano intorno al mito del padre, per liberarsene infine, per
liberarlo, dargli pace, come con un antico rito sepolcrale.
Foto1: Roma, Cappella Sistina –Michelangelo, L'ebrezza di Noè
Foto 2: Trieste, Piazza Hortis, dettaglio del murale dedicato a Italo Svevo (Piera Mattei)