giovedì 28 febbraio 2013

L'oralità del racconto in Lucetta Frisa di Piera Mattei


Lucetta Frisa – La torre della luna nera – puntoacapo 2012



È come se la scrittura di Lucetta Frisa non intendesse veramente separarsi dall'oralità: si rivolge di preferenza a un tu o a un voi, sempre per raccontare direttamente, talvolta scegliendo programmaticamente il tono della conferenza, già caro anche a Kafka, e qui non a caso lo citiamo perché è il tono e la finzione che Lucetta Frisa sceglie per "Kafka è morto a 67 anni". Talvolta sembra di ascoltare una voce fuori scena, presente, lì, dove il racconto ha luogo. È la voce di persona attenta non solo a muovere intorno lo sguardo ma anche a valutare gli umori interni ai personaggi.

Due tuttavia sono gli stili di quella voce: il primo è quello della favola, narrata come il genere richiede, a forti tinte, con vocabolario coloritissimo. Si aprono così ai nostri occhi luoghi di sfarzo estremo o di estrema miseria, alle nostre narici si sprigionano, aromi di delizie ma anche afrori corporei. Protagonisti sono principi, principesse, grandissimi artisti, guitti e ladri di creatività. Lucetta "inventa" come locandiera la poeta scozzese del quindicesimo secolo Gweful, nota per alcuni canti dove misticismo e schietta licenziosità si alternano o addirittura si mescolano. Inoltre in questi racconti l'autrice trova il modo di esprimere il suo pensiero in senso lato politico circa la libertà dell'espressione femminile: che sia fuga dalla prigione o fuga dagli schemi "convenienti", convenzionali o obbligati, in cui la prepotenza maschile la tiene rinchiusa da millenni ("La torre della luna nera"), che sia altrove progetto di esercitare la forza del carattere e della mente nel governo di uno stato che un matrimonio senza amore apre per Isabella come sola prospettiva a cui aderire ("Ritratto d'Isabella d'Este"). Sotto la trama del racconto, della favola, troviamo altrove altro messaggio: quasi inaspettata all'interno di un pensiero che sul filo di una filastrocca ripercorre le cadute e i dolori di una vita, l'attuazione sul corpo di una vecchia madre ormai incosciente di una pietosa ma nondimeno straziante eutanasia.

Sopratutto nei racconti-fiabe di questo primo stile le citazioni e i riferimenti al mondo artistico cadono a cascata, come se irrompessero da un'antologia mnemonica sempre aperta, dove il rischio però è l'ingorgo e la sovrapposizione dei ricordi. E può accadere che nel contesto di un discorso che vuole essere profondo e assennato, cada fuori proposito la citazione di versi di Dante assimilati nel patrimonio genetico, equivoco certamente attribuibile a lei, la giovanissima protagonista-voce parlante Maria Dolores Cardillo de Cordoba del racconto "Un perro".

Nell'altro stile, quello che incontra incondizionatamente la nostra predilezione, si riconosce, con la sensazione quasi fisica della piena libertà di cui gode e di cui ci fa godere, la voce stessa dell'autrice, la sua personalità ricca di umori e di humour, di ironia e autoironia. Sono racconti al presente, anche se la mente irrequietamente segue suoi percorsi e logiche legati a quel presente con fili sottilissimi. Un racconto, in questo genere perfetto è "Errori di abbigliamento". Qui la voce narrante trapassa, con ossimorica ma reale leggerezza profonda, dall'osservazione di una quadro a uno strano incubo d'inadeguatezza, per collocarsi all'interno dei pensieri che l'attraversano durante un viaggio. E poi ancora si alternano ricordi familiari a osservazioni sulle abitudini stesse del compagno, mai tuttavia dimenticando quel filo rosso, di calzature in armonia o in contrasto con quanto il resto del corpo sente o intende esprimere.

Corrisponde a questo stile – stile che chiamerei del presente e reale, in contrapposizione con l'altro del passato e della favola – anche il racconto in cui una protagonista visita città, musei, e intanto a sé stessa commenta la sua scomoda posizione nel mondo in un contesto  troppo "civile", soprattutto troppo giovane, e, in ogni ambito, tutto ordinato e efficiente. È "A Amsterdam non si vedono vecchi", dove via via che il racconto procede il tono progressivamente si fa più aspro e l'autoironia trapassa nell'autolesionismo. Non a caso il racconto termina con la protagonista che, essendosi adeguata all'invito al suicidio che l'ambiente indirettamente rivolge a chi non si trovi nel periodo della vita in cui giovinezza e bellezza sorridono, si fa saltare in aria. Finale che nella sua inattesa  sproporzione, ridimensiona la tristezza mortale della protagonista, in un'esplosione, certo, ma che voglio interpretare come di una risata finalmente liberatoria con cui tornare alla piena avvertita consapevolezza del diritto di esistere, con libertà e persino con divertimento.

Foto: Uno sguardo sul Bosforo dalla terrazza del Grand Hotel Beyazid, Istanbul 2012 – di Piera Mattei








mercoledì 20 febbraio 2013

Amelia Rosselli di "Diario Ottuso" nel mese di febbraio




Amo il mese di febbraio. In anni già lontani al mese di febbraio ho dedicato una poesia, quasi fosse una persona di cui si conoscono pregi e difetti. É il mese in cui le giornate decisamente fanno spazio alla luce e, nel freddo ancora pungente, si gonfiano le prime gemme dei fiori.

È il mese in cui ho visto la luce, è il mese in cui anime grandi hanno lasciato la luce, per sempre. Il 17 si commemora il rogo di Giordano Bruno, ma, più sommessamente, l'11 è la data in cui due poetesse, Sylvia Plath prima e Amelia Rosselli poi hanno volontariamente deciso di terminare la loro vita.

Allora prima che questo mese finisca voglio dedicare ad Amelia, che viveva a Roma e abitava a Roma, non lontano da dove io abito, un ricordo, una lettura affettuosa del suo geniale libretto di prose "Diario ottuso".
Il saggio nella sua interezza dovrebbe uscire nei prossimi mesi sulla rivista "pagine". Questa è solo un'anticipazione, un omaggio ad Amelia e insieme un omaggio al mese più breve, più freddo e forse più terso dell'anno.


Amelia Rosselli di "Diario Ottuso": riuscire a dire per uscire dall'in-fanzia?
di Piera Mattei



Vagava, imbarazzata, con i piedi affondati nel fango bisognoso delle sue scarpe umidissime.
E così fu luce esatta: si convinse d'aver trovato la sua dimensione vitale: il non sapere, il non vedere, il non capire.

Sono queste le note finali di "Diario Ottuso".
Nell'ultima frase la voce che parla in terza persona esprime la completa accettazione della sua "ottusità", della sua "dimensione vitale" realizzata al negativo. Una certezza che giunge non attraverso una deduzione logica, ma immediatamente, come per una folgorazione razionale: e così fu luce esatta.
Tuttavia è sulla penultima proposizione che eravamo rimasti sorpresi e catturati. È prosa? Formalmente sì, ma racconta in modo estraneo alla prosa, perché non ci permette di riallacciarci a un discorso precedente e di predisporci a un discorso successivo e conseguente. Semplicemente c'inchioda a cercare di capire. Come il verbo vagava si allaccia all'aggettivo imbarazzata, come al complemento con i piedi affondati nel fango? Quell'aggettivo, in sé, dovrebbe riferirsi piuttosto a uno stato di confusione, d'indecisione e d'immobilità. Il complemento, con i piedi  affondati nel fango, sembra rendere ancora meno possibile quel vagare. Ma ecco che repentinamente il protagonista diventa proprio quel fango: bisognoso, lui, delle sue scarpe umidissime. E tutto sembra chiarirsi, ché infatti il disagio nasce dalla imperiosità di quel fango, dei suoi bisogni, che non si sa bene se esaudire. Il fango non sarà banalmente la causa  dell'umidità delle sue scarpe, ma invece desidera, ha bisogno di quelle scarpe in quanto terribilmente umide. In quanto, perciò, simili?
Direi che qui Amelia Rosselli proietta sulla reciproca attrazione tra le sue calzature e quel fango vischioso, invischiante, la sua ricerca del simile, disperata, perché mai appagata, mentre tuttavia la speranza non s'attenua.

"Diario Ottuso", questo libretto di poco più di trenta pagine, uscito nel luglio 1990, mette insieme tutte le prose prodotte dal 1954 al 1968: quindi ben quattordici anni separano i primi dagli ultimi esperimenti.
L'autrice proprio così li chiama: "Esperimenti narrativi", e della tecnica, non vorremmo dire della maniera, sperimentale c'è la sottolineatura del mezzo e del luogo scelti per quell'esperimento. Una nota sincera fino all'ingenuità, precisa come per un vero esperimento scientifico, preziosa, sui diversi, ma  sostanzialmente affini, modi di questa scrittura. Ecco cosa scrive della prosa più lontana nel tempo, quella a cui, appunto, attribuisce il titolo di "Prime prose italiane":
Lo scritto è breve, in qualche modo ispirato; ed è ispirato appunto dal Tevere, presso il quale vivevo. In parte è stato scritto fuori casa, camminando, e dunque scritto a mano; oppure erano appunti che prendevo mentalmente e poi trascrivevo quello scrivere mentale una volta a casa. Credo poi d'essere riuscita, tanto tempo fa nel 1954, d'evitare (come fosse la peste) la tipica scrittura detta "prosa poetica", accettatissima in quel periodo. Il testo vorrebbe avere la morbidezza delle poesie di Scipione, e così eviterebbe il drammatico Campana.

Con grande sintesi e grazia Rosselli riesce a metterci davanti i luoghi, i modi, gli strumenti della sua scrittura e, ancora più succintamente, riesce a riferirci le intenzioni, cioè i modelli che ha inteso imitare, le presenze forse troppo attraenti che ha cercato di evitare.
Nettamente allora: non si tratta di prosa poetica, da cui dice di rifuggire come la peste, ma di poesia tout court, poesia scritta senza gli a capo.
In proposito scrive  nella prefazione Alfonso Berardinelli:
Non credo che sia facile distinguere le prose di Amelia Rosselli dalle sue poesie [...] Anche quanto c'è in queste prose di descrittivo e di narrativo è altrettanto presente nelle raccolte di poesia.[...] Al posto del verso tipograficamente visibile, qui abbiamo la frase libera. Al posto della strofa, i blocchi dei paragrafi.

Non è possibile parlare di queste prose senza ripercorrerle a piccoli passi, cercando d'individuare il significato poetico di slittamenti semantici, di originalità ortografiche. Si sentono allora vibrare nelle parole due componenti essenziali: la paura e l'ironia. Soprattutto però quella che indicherei come sensibilità "infantile" nel doppio significato del termine. Infantile in quanto giunta alla lingua italiana in certo modo da straniera, da apprendista e principiante, profondamente contaminata dell'anima di altre lingue. Si trova in questa dimensione a maneggiare l'italiano come uno strumento da osservare curiosamente, e da smontare e rimontare a piacere, proprio come fanno i bambini nella fase dell'apprendimento linguistico, ricchissimo di scoperte e invenzioni.
Infantile è anche la sensibilità che tale lingua presuppone: vi sono dominanti la paura dell'ignoto e del "cattivo" e la sorpresa purissima verso il bello, aggettivo questo usato talvolta anche al superlativo ("cameriere bellissimo"), con una sorta  di naïvité che certo una poesia tradizionale escluderebbe. Le prose più antiche, quelle del primo insediamento a Roma, aggiungono a questo sguardo caratterialmente infantile, la sensibilità di chi da poco ha deciso che quello sarà il suo mondo, con un'accentuazione degli elementi di attrazione e repulsione, che progressivamente si sposteranno dalla città di Roma come entità estetica-antropomorfizzata, alla società civile e politica, minacciosa nel suo insieme, anche a causa delle ferite non additate ma inguaribili di una tragica orfanità.
La seconda parte del saggio verrà postata nei mesi successivi

sabato 9 febbraio 2013

da Pechino 3 – PIL e felicità, di Claudio Marcelli









Quest’anno il Prodotto Interno Lordo della Cina crescerà molto meno dell’8 %, un valore sensibilmente più basso rispetto a qualche anno fa quando questo paese cresceva ben oltre il 10%.  Questo valore rimane comunque enorme se confrontato con quello di molti stati Europei che non crescono per nulla e se si eccettua la Germania il cui PIL è comunque in diminuzione, ma soprattutto se si tiene conto che la Cina è ormai la seconda economia del mondo.
Negli ultimi tempi, soprattutto ora che in molti paesi occidentali si comincia a capire che il mito della crescita senza limiti non è possibile, ci si domanda cosa significhi realmente il PIL, se esiste una reale correlazione tra PIL e benessere o, magari, come misurare lo stato reale di benessere di un paese. In Europa, la Grecia sta vivendo momenti drammatici e, camminando per le strade di Atene come mi è capitato qualche mese fa, si percepisce chiaramente la crisi economica e umana di questo Paese. Guardando i volti delle persone non mi è mai capitato di vedere qualcuno sorridere, tanti negozi sono chiusi, altri praticamente vuoti, la gente è triste e spesso appare disperata. Non c’è veramente alcun bisogno di leggere statistiche per capire il dramma che stanno vivendo i greci afflitti come sono dal virus della “tristezza”. Basta camminare per le strade di Atene per esserne contagiati.
Camminare oggi per le strade di Pechino, di Shanghai, di Hefei e di tante altre località della Cina offre immagini diverse. La gente ride, si incontra riempie qualsiasi tipo di locale, canta. Il karaoke anche qui è ormai un must. Si percepisce un’atmosfera diversa. Visitare il 798, il quartiere artistico di Pechino trasmette immagini e sensazioni di una società giovane che cammina, direi quasi “corre” verso il futuro.  Potrei dire senza enfasi che camminando per le strade cinesi oggi è normale incontrare persone felici. Ma sono veramente felici e che significa essere felici in una società in crescita come quella cinese?
Se penso a quello che ci propinano i media quotidianamente, soprattutto attraverso la televisione, la felicità è certamente possedere qualcosa che si desidera, soprattutto beni di consumo e di lusso. Se pensiamo a questo, oggi i Cinesi sono certamente tra gli uomini e le donne più “felici”. Il loro mercato cresce ogni giorno di più in un parossistico carosello che arricchisce tanti cinesi e molti occidentali e, allo stesso tempo, muove la loro economia. Ma la felicità è sicuramente anche quello che non si possiede e si cerca o si aspira in maniera sicuramente più etica. Anche in questo i cinesi sono ricchi e si vede e si sente parlando con i giovani, scoprendo i loro sogni e le loro aspirazioni: non solo status symbol, ma valori come cultura, famiglia e stabilità sociale, un viaggio alla ricerca della felicità che i loro genitori e i loro nonni non hanno mai avuto e che molti cinesi hanno oggi la possibilità forse di raggiungere.
La felicità è un valore sociale da riaffermare proprio adesso che quasi tutti i sistemi occidentali mostrano debolezze sistemiche e tagliano spesso diritti sociali conquistati in molti decenni e affermati nella Costituzioni di quasi tutti gli stati democratici. La felicità è addirittura, come tutti sanno, un obiettivo dichiarato nella Costituzione americana.
Ma allora se la felicità è veramente un principio riconosciuto come si può misurare quella di un popolo o di una nazione? Qualche anno fa uno statistico italiano: Corrado Gini ha introdotto un coefficiente numerico compreso tra zero e uno, in grado di misurare la diseguaglianza di una distribuzione come il reddito o la ricchezza. Più il valore del coefficiente di Gini è basso, più la distribuzione che si considera si può considerare omogenea. Lo zero corrisponde a una pura equidistribuzione, ad esempio una nazione ideale in cui tutti percepiscano lo stesso reddito, mentre se questo valore cresce la distribuzione diventa sempre più disomogenea.
Certamente una nazione dove esistono grandi diseguaglianze, e la Cina ha al suo interno enormi disparità sociali ed economiche, non può essere considerata o proposta a modello della felicità. Tuttavia, per la prima volta, quest’anno la Cina ha pubblicato il coefficiente di Gini della sua distribuzione del reddito (0.474 nel 2012 contro 0.491 nel 2008) e quello dei dieci anni precedenti. In questo momento non credo sia veramente importante capire se questo valore sia “esatto” (altre stime anche interne alla Cina lo danno molto vicino a 0.6) o circa grande come quello degli Stati Uniti o di altri paesi. Per una nazione come la Cina in cui Deng Xiaoping aveva dichiarato molte volte che “alcune persone potevano essere autorizzate a diventare ricche prima di altre” è un importante passo in avanti che non solo riconosce e misura la disuguaglianza, ma implicitamente pone tra gli obiettivi del paese anche quella di ridurla. È l’indicazione che in questo paese ancora in grande (forse troppo grande) crescita è importante governare lo sviluppo. Una crescita senza controllo è, infatti, pericolosa non solo per l’ambiente, ma soprattutto per il futuro benessere sociale.  Migliorare e mantenere un sistema sociale equo è una condizione essenziale per costruire il progresso di un popolo e di una nazione. Questo non è solo il grande problema della Cina, ma anche delle nazioni occidentali i cui economisti e banchieri propongono ormai solo tagli ai salari, alle pensioni e ai diritti sociali fondamentali come scuola, educazione e sanità. Con queste scelte non andremo sicuramente lontano e il virus della “tristezza” greca si estenderà presto a molti altri paesi. Per continuare a costruire il futuro i paesi occidentali, e il nostro non rappresenta un’eccezione, non hanno bisogno solo di sapere che il PIL sarà maggiore di zero, ma anche di poter ancora sperare di essere felici.

Foto: Immagine di una delle miriadi d’installazioni al quartiere 798 di Pechino (http://www.798space.com).