mercoledì 20 febbraio 2013

Amelia Rosselli di "Diario Ottuso" nel mese di febbraio




Amo il mese di febbraio. In anni già lontani al mese di febbraio ho dedicato una poesia, quasi fosse una persona di cui si conoscono pregi e difetti. É il mese in cui le giornate decisamente fanno spazio alla luce e, nel freddo ancora pungente, si gonfiano le prime gemme dei fiori.

È il mese in cui ho visto la luce, è il mese in cui anime grandi hanno lasciato la luce, per sempre. Il 17 si commemora il rogo di Giordano Bruno, ma, più sommessamente, l'11 è la data in cui due poetesse, Sylvia Plath prima e Amelia Rosselli poi hanno volontariamente deciso di terminare la loro vita.

Allora prima che questo mese finisca voglio dedicare ad Amelia, che viveva a Roma e abitava a Roma, non lontano da dove io abito, un ricordo, una lettura affettuosa del suo geniale libretto di prose "Diario ottuso".
Il saggio nella sua interezza dovrebbe uscire nei prossimi mesi sulla rivista "pagine". Questa è solo un'anticipazione, un omaggio ad Amelia e insieme un omaggio al mese più breve, più freddo e forse più terso dell'anno.


Amelia Rosselli di "Diario Ottuso": riuscire a dire per uscire dall'in-fanzia?
di Piera Mattei



Vagava, imbarazzata, con i piedi affondati nel fango bisognoso delle sue scarpe umidissime.
E così fu luce esatta: si convinse d'aver trovato la sua dimensione vitale: il non sapere, il non vedere, il non capire.

Sono queste le note finali di "Diario Ottuso".
Nell'ultima frase la voce che parla in terza persona esprime la completa accettazione della sua "ottusità", della sua "dimensione vitale" realizzata al negativo. Una certezza che giunge non attraverso una deduzione logica, ma immediatamente, come per una folgorazione razionale: e così fu luce esatta.
Tuttavia è sulla penultima proposizione che eravamo rimasti sorpresi e catturati. È prosa? Formalmente sì, ma racconta in modo estraneo alla prosa, perché non ci permette di riallacciarci a un discorso precedente e di predisporci a un discorso successivo e conseguente. Semplicemente c'inchioda a cercare di capire. Come il verbo vagava si allaccia all'aggettivo imbarazzata, come al complemento con i piedi affondati nel fango? Quell'aggettivo, in sé, dovrebbe riferirsi piuttosto a uno stato di confusione, d'indecisione e d'immobilità. Il complemento, con i piedi  affondati nel fango, sembra rendere ancora meno possibile quel vagare. Ma ecco che repentinamente il protagonista diventa proprio quel fango: bisognoso, lui, delle sue scarpe umidissime. E tutto sembra chiarirsi, ché infatti il disagio nasce dalla imperiosità di quel fango, dei suoi bisogni, che non si sa bene se esaudire. Il fango non sarà banalmente la causa  dell'umidità delle sue scarpe, ma invece desidera, ha bisogno di quelle scarpe in quanto terribilmente umide. In quanto, perciò, simili?
Direi che qui Amelia Rosselli proietta sulla reciproca attrazione tra le sue calzature e quel fango vischioso, invischiante, la sua ricerca del simile, disperata, perché mai appagata, mentre tuttavia la speranza non s'attenua.

"Diario Ottuso", questo libretto di poco più di trenta pagine, uscito nel luglio 1990, mette insieme tutte le prose prodotte dal 1954 al 1968: quindi ben quattordici anni separano i primi dagli ultimi esperimenti.
L'autrice proprio così li chiama: "Esperimenti narrativi", e della tecnica, non vorremmo dire della maniera, sperimentale c'è la sottolineatura del mezzo e del luogo scelti per quell'esperimento. Una nota sincera fino all'ingenuità, precisa come per un vero esperimento scientifico, preziosa, sui diversi, ma  sostanzialmente affini, modi di questa scrittura. Ecco cosa scrive della prosa più lontana nel tempo, quella a cui, appunto, attribuisce il titolo di "Prime prose italiane":
Lo scritto è breve, in qualche modo ispirato; ed è ispirato appunto dal Tevere, presso il quale vivevo. In parte è stato scritto fuori casa, camminando, e dunque scritto a mano; oppure erano appunti che prendevo mentalmente e poi trascrivevo quello scrivere mentale una volta a casa. Credo poi d'essere riuscita, tanto tempo fa nel 1954, d'evitare (come fosse la peste) la tipica scrittura detta "prosa poetica", accettatissima in quel periodo. Il testo vorrebbe avere la morbidezza delle poesie di Scipione, e così eviterebbe il drammatico Campana.

Con grande sintesi e grazia Rosselli riesce a metterci davanti i luoghi, i modi, gli strumenti della sua scrittura e, ancora più succintamente, riesce a riferirci le intenzioni, cioè i modelli che ha inteso imitare, le presenze forse troppo attraenti che ha cercato di evitare.
Nettamente allora: non si tratta di prosa poetica, da cui dice di rifuggire come la peste, ma di poesia tout court, poesia scritta senza gli a capo.
In proposito scrive  nella prefazione Alfonso Berardinelli:
Non credo che sia facile distinguere le prose di Amelia Rosselli dalle sue poesie [...] Anche quanto c'è in queste prose di descrittivo e di narrativo è altrettanto presente nelle raccolte di poesia.[...] Al posto del verso tipograficamente visibile, qui abbiamo la frase libera. Al posto della strofa, i blocchi dei paragrafi.

Non è possibile parlare di queste prose senza ripercorrerle a piccoli passi, cercando d'individuare il significato poetico di slittamenti semantici, di originalità ortografiche. Si sentono allora vibrare nelle parole due componenti essenziali: la paura e l'ironia. Soprattutto però quella che indicherei come sensibilità "infantile" nel doppio significato del termine. Infantile in quanto giunta alla lingua italiana in certo modo da straniera, da apprendista e principiante, profondamente contaminata dell'anima di altre lingue. Si trova in questa dimensione a maneggiare l'italiano come uno strumento da osservare curiosamente, e da smontare e rimontare a piacere, proprio come fanno i bambini nella fase dell'apprendimento linguistico, ricchissimo di scoperte e invenzioni.
Infantile è anche la sensibilità che tale lingua presuppone: vi sono dominanti la paura dell'ignoto e del "cattivo" e la sorpresa purissima verso il bello, aggettivo questo usato talvolta anche al superlativo ("cameriere bellissimo"), con una sorta  di naïvité che certo una poesia tradizionale escluderebbe. Le prose più antiche, quelle del primo insediamento a Roma, aggiungono a questo sguardo caratterialmente infantile, la sensibilità di chi da poco ha deciso che quello sarà il suo mondo, con un'accentuazione degli elementi di attrazione e repulsione, che progressivamente si sposteranno dalla città di Roma come entità estetica-antropomorfizzata, alla società civile e politica, minacciosa nel suo insieme, anche a causa delle ferite non additate ma inguaribili di una tragica orfanità.
La seconda parte del saggio verrà postata nei mesi successivi

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