sabato 15 giugno 2013

Sara Bufalini – Dicono che la morte vada contemplata




Le poesie di Sara Bufalini che seguono sono cinque: cinque come le dita di una mano e ciascuna è come una mano che cerca di stringere la vita per fermarla e per possederla, la vita, come sempre fa, scivola via, ma lascia nel palmo la sua impronta poetica che, nel caso di Sara Bufalini, consiste in un rimando, un doppio volto. Sono infatti due gli aspetti che caratterizzano ogni lirica: da un lato la visione, il tempo in ogni poesia è ferma, l’immagine è nitida, gli oggetti sono a fuoco. Se c’è un trascorrere, come in Brindisi all’amore o Una scimmia sta aggrappata alla mia porta, è in realtà un susseguirsi di fotogrammi netti, e l’immagine apre a un interrogativo che si dilata per tutto l’arco dell' esistere e fa domande sull’amore, sul dolore, sull’affinità, sull’alterità e sulla morte con tono coraggioso e dolente.

Non ho scelto a caso questi elementi d’interrogazione, ma secondo l’ordine con il quale si presentano le liriche: in Brindisi all’amore è infatti, apparentemente, la visione del volto amato che appare e scompare, si china sulla poetessa e poi si dilegua, ma in realtà dell’amore stesso come esperienza soccorritrice dello stato umano si parla, è il suo essere volatile, la sua capacità di lasciare echi, è l’amore nel suo più ampio senso che, invertendo il comune sentire, ha occhi avidi di vita.

Nella seconda lirica troviamo una  figura nota alla tradizione letteraria ma che dalla Bufalini viene usata come elemento doloroso nel suo aspetto tragico e nello stesso tempo meno cruento, il soggetto lirico soggiace quasi a questo dolore che si impossessa di lui, a questa scimmia umbratile che trascina, simbolo di quella corrente mortifera che Freud identificò in un “istinto”, rendendola così “gemella” di ogni uomo.

Ma se il dolore è gemello, ben diversa è l’affinità delle due sorelle ritratte, nella lirica successiva, sullo stesso balcone in una sera di pioggia: il segreto della parentela, che sembra parlare attraverso la pelle e circolare in un mondo madido, lega e nel contempo allontana sideralmente le due donne, fra loro dialoganti e nello stesso tempo ululanti di lunare solitudine, tanto che un abbraccio appare non come possibile stretta affettuosa, ma come una “tentazione”, un margine da non valicare.

Quanto all’insetto, nella lirica esso è presente come lo straniero, colui che ontologicamente non ci è simile, viene dai molti gradi dell’umidità e tuttavia è “del mondo” e come tale fra noi, mescolato alle nostre giornate, figlio della nostra terra. Ma perché un insetto? L’infinitamente piccolo e anche il miserabile è ciò di cui non ci si occupa, o non ci si occupa più e sul quale la poetessa si china, con una lente d’ingrandimento che è forse costituita da una lacrima, o da una goccia di rugiada.

Nell’ultima lirica la domanda si fa palese  e il dialogo è tra il sentire umano e un sentire “naturale”, sempre così presente peraltro in queste poesie, per cui c’è un dicono che è voce degli uomini al quale la poetessa da un lato si affida, ma da un altro lato diffida, e ci sono involucri fra loro diversissimi: le foglie, la pelle di serpente, il cuore nella sua impressionante collocazione, che accolgono e mostrano ciò che tra gli umani solamente “si dice”.

Su quale linea collocare queste cinque poesie? Nella corrente  visionaria, che fa capo a un orfismo molto frequentato dalle voci femminili del ‘900? Da un lato sì, perché l’immagine nella Bufalini c’è ed è simbolica, da un altro lato no, perché l’interrogativo che si esprime è narrato, e quindi non è affidato alla potenza immaginativa, come fosse questa una calamita che sollecita i pensieri e le emozioni.

Marina Corona






“Brindisi all’amore”

Poi ogni volta
ti guardo apparire
e scomparire sulla porta
volare con il vento dietro la finestra
ma sempre con gli occhi avidi di vita
sussurrarmi “tu mi vuoi”.
Le cicale frinivano
mentre ti affacciavi
la prima volta al sole su di me
e ancora non ti ho dimenticato
adesso che mi copre la neve.




Una scimmia sta aggrappata sempre alla maniglia
della porta
ovunque io vada lei si sveglia
mi s’abbraccia alle ginocchia
mi risale i fianchi
e mi circonda il collo.
Le mie giunture, padre
non hanno chiodi
queste misure per lo spazio sconosciuto
apro le braccia per sentire il vento
ma già la scimmia mi tiene fissi gli occhi
e con la piccola mano
mi tira
dentro l’ombra
nell’arco della porta



“Sorelle”

Le nostre stanze
furono presto in ombra
sorella mia dai tanti specchi
la sera ci riportava le luci dei lampioni
la pioggia quieta
consolava a volte la strada vuota
e gli alberi davanti alle finestre

ma dopo il pianto
ognuna a un capo dello spazio
infinito
in noi
la breccia aperta dal silenzio
lasciava entrare odori
bagnati di pineta.

Su quel balcone, allora
se avessi stretto al mio il tuo corpo
fragile e ululante
saremmo forse arrivate sulla luna. 

                           


Ci sono insetti
a volte
posati senza una visibile ragione
su un tavolo
una fiaba
un corpo pensoso,
vengono dai prati
e dai molti gradi dell’umidità

ed è questo
un viaggio
pari a molti viaggi lontani

riscoprire
dei comuni insetti
in mezzo alla rugiada.




Dicono che la morte vada contemplata
nelle foglie
nella pelle di serpente
nel cuore dentro una macelleria.
Dicono così sia
dicono è tutto qui
dicono adesso è pace
dicono com’è amara
dicono anche alla morte ci si prepara. 

Foto 1: Sara Bufalini
Foto 2: ingresso al centro culturale della singolare città Valga / Valka, suddivisa tra Lettonia e Estonia quando i due paesi vennero proclamati repubbliche nel 1920 ( Piera Mattei, 2 maggio 2013).

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