giovedì 10 settembre 2015

“CIBUS saggi, traduzioni e un racconto” di Piera Mattei

Trascrizione della presentazione di Marina Corona al Pontile di Ostia, martedì 25 agosto 2012


Il libro di Piera Mattei “Cibus” mi ha dato l’idea di una piccola pietra preziosa dalla luce chiara. È infatti un testo sfaccettato con più temi che si aprono su diversi panorami letterari, come le faccette di un gioiello si volgono in diverse direzioni. La sua luce è chiara perché il testo, pur trattando di argomenti fra loro disparati, è scritto tutto in una prosa semplice ed insieme elegante, intelligentissima e colta.

Piera Mattei nel paragrafo “Sacralità e sensualità: il cibo nella poesia” ci dice che la parola “cibus” è una parola che non consente sinonimi, non può essere infatti sostituita da alimento o nutrimento che implicano un rapporto duale dove una persona “maggiore”(più grande, più capace, più saggia) nutre in senso reale (pensiamo all’allattamento) o in senso metaforico (pensiamo al rapporto maestro-discepolo) una persona “minore”. “Cibus è quindi quello che in matematica è un numero primo: non sostituibile da nessuna scomposizione. Ecco fatto dunque un intelligentissimo paragone tra tre fondamentali elementi del vivere: le parole, che riposano nel dizionario, il cibo, che nella sua sapida corposità riposa nella dispensa e i numeri che riposano nella tavola pitagorica. Questa triade così abilmente sottolineata dall’autrice noi la prenderemo come nucleo del nostro gioiello letterario dal quale si dipartono i raggi che illuminano le diverse faccette.
Leggendo questo paragrafo ci rendiamo conto della superba familiarità di Piera Mattei con la lingua latina tradotta in maniera semplice, fedele, eppure espressa in un italiano letterariamente abilissimo nel rendere anche la minima sfumatura del testo classico. Ma cosa sostiene in questo paragrafo  che abbiamo preso a cardine della nostra costruzione esplicativa? La Mattei, citando Orazio delle Satire e poi Voltaire, sottolinea come il cibo sia un elemento di convivialità rivelatore della qualità umana di coloro chesi radunano intorno ad un tavolo;  questo da sempre, sia che ci si trovi nel 20 a.C. sia che, con Voltaire, ci si trovi nel 1750. Sempre la qualità del cibo disposto sulla mensa è rivelatore del tipo di gusto anche relazionale e sociale dei commensali: la loro nobiltà, la loro ricercatezza, la loro eleganza o, al contrario la loro rozzezza e perfino la loro alienazione.
Ecco dunque che “cibus” con la sua sacralità e sensualità costituisce un saldo nodo che lega tra loro le persone socialmente affini, esattamente come fa il legame sociale o lo scambio sensuale fra gli esseri umani. In un’epoca come la nostra dove le relazioni vengono descritte nei testi letterari in termini sempre più disincarnati, quando non schematizzati dalla tecnologia informatica, il richiamo alla corposità sapida, carnale e di robusta materialità del “cibus”nel suo primario e incontrastabile vigore, come vincolo primitivo e sovrano fra gli esseri umani, apre la strada a riflessioni di natura filosofica sul nostro essere innanzi tutto “carnali”. Riflessioni che si prestano a un lungo cammino speculativo al quale Piera Mattei, nel suo apparentemente semplicissimo paragrafo allude, senza neppure aver l’aria di farlo.

Dato dunque per certo che il “cibus” tra gli uomini è un nodo che non può essere spezzato, passiamo ai suoi diversi aspetti, cioè agli altri paragrafi del libro che costituiscono le faccette del nostro gioiello.
Tra le foto che corredano il testo ci colpisce l’immagine di un agnello dallo sguardo quasi interrogativo. Infatti il testo, passando attraverso il “Purgatorio” di Dante e la Genesi ci parla dell’ Eden, l’età dell’oro. La sintesi significativa è rapidissima: in che cosa consisteva l’età del’oro? Nel fatto che sia uomini che animali si nutrivano esclusivamente di vegetali e questo consentiva sulla terra una vita pacifica, colma di una splendente gioia d’amore tra tutte le creature, e non sbaglia la Mattei a osservare che probabilmente il divieto ebraico di nutrirsi di carni che non siano ritualmente sgozzate corrisponde ad un divieto più remoto che proibiva di nutrirsi di carni tout court.
 Che cosa ci offre invece il Nuovo Testamento come nutrimento sovrano? Continua la Mattei nel paragrafo successivo: il pane e il vino. Qui il discorso dell’autrice si fa consapevolmente sociale: quel pane e quel vino benedetti che costituivano il cibo per eccellenza sono ancora parte della nostra esperienza quotidiana? Come sempre l’autrice scende nel concreto e ci mostra come il pane, del quale oggi noi facciamo uso, conservato nel freezer, scaldato poi nel forno a microonde, sia ben lontano dal fragrante nutrimento primario sfornato all’alba da abili panettieri a poco costo perché anche i poveri ne potessero godere.
Trascinati in una vita sempre più consumistica abbiamo scordato la bontà di quel lontano pane quotidiano; e qui l’autrice sembra suggerire  che a causa della globalizzazione e della società dei consumi noi abbiamo in realtà scordato, insieme con il pane croccante e profumato, la sacralità della vita.
A questo punto la faccetta del nostro gioiello che ci viene incontro in una lettura progressiva è costituita da un brano delle Metamorfosi di Ovidio, magistralmente tradotto dall’autrice che lo leggerà dopo la mia relazione. Si tratta della voce di Pitagora immaginata da Ovidio, dove il filosofo greco si diffonde in un’accorata perorazione sulla necessità di non cibarsi di carne e sulla crudeltà di questo uso.

Il cibo nella sua infinita varietà di sostanze può anche far da sfondo a un ritratto. In questo caso il ritratto è quello della scrittrice Dacia Maraini, descritta a partire dai versi delle sue raccolte di poesie degli anni ’70, poesie spesso molto belle, nei brevi brani trascritti, e che si riferiscono al rapporto complesso e totalizzante che una persona ha con il cibo. Scrive la Mattei, riferendosi ai versi della Maraini: “Inghiottire e essere inghiottiti è compulsione che corrisponde ad una fitta dolorosa, ma sognare la liberazione da quell’istinto dove vita e morte si macinano è follia.” E più avanti: “ È nello stomaco che, in qualche modo, si colloca l’antro dell’inferno ovvero l’ardente purgatorio incluso nell’istinto vitale. E’ quello il luogo fisico della disperazione che ha solo un temporaneo sollievo ma mai una vera tregua”.
Il riferimento allo stomaco accende inoltre una coloritura sociale perché lo stomaco è il luogo della fame e il mondo si divide tra coloro che non conoscono questa forma di tormento e coloro che la patiscono. Ancora, in questo potente paragrafo, il cibo è elemento che sottolinea l’amore sensuale e di lì la maternità nei suoi trionfi e nei suoi fallimenti. Ricordiamo infatti che gli anni ’70, durante i quali furono scritte le poesie della Maraini qui citate, sono gli anni del trionfante femminismo.
Un’altra protagonista di questi saggi critici è Cynthia Macdonald, poetessa, cantante lirica e anche psicoanalista. Sceglie come esergo al suo libro di poesie: I can’t remember , una citazione da Mary Shelley: “Porteremo a tavola un pollo assassinato” e qui, dice la Mattei: “Il rituale del cucinare, servire in tavola, esce dall’ambito dell’etichetta del giocondo altruismo e si allontana persino dalla sua necessità neutrale per connotarsi come crimine. La distanza e lo straniamento dal buon senso non è qui solo una cifra necessaria alla poesia. E’ anche effetto dell’attività di scavo psicoanalitico, della rivalutazione di quanto è onirico e visionario, della rielaborazione di rime, voci, immagini che salgono dal profondo”. Ecco allora che seguendo un percorso assolutamente attuale, dal nostro nucleo luminoso del gioiello, che parlava di sacralità e sensualità del cibo, siamo giunti sul terreno della psicoanalisi, luogo del moderno discorso che della sensualità (Freud) e della sacralità (Jung) fa i due cardini dell’attuale pensare ed essere in relazione.
A proposito di modernità c’è nel testo il terribile paragone tra il destino del pollo ben cucinato e le vittime arse dell’Olocausto, che non può non darci un fremito di orrore. Ma c’è nel testo precedente un pensiero molto bello, che ricolloca nella sua giusta luce l’aspetto più nobile della psicoanalisi. Quando noi ci affezioniamo a un animale lo sottraiamo al suo destino di cibo per farne un compagno dell’anima e allora possiamo dire con la Mattei che la commestibilità degli animali viene trasfigurata tramite l’amore, facendo perno su un procedimento di sublimazione di tipico stampo psicoanalitico.
Ancora numerosi sono i personaggi che, appaiono sulle faccette del nostro gioiello: Virgilio nell’Eneide canta la bellezza di un cervo teneramente amato dai figli di Tiro e poi ucciso da Iulio, giunto sul suolo italico da straniero, provocando così la sanguinosa – ma fatale per i destini di Roma –  guerra tra Latini e Troiani.
Ascoltiamo ancora le voci di Petronio, di Leonetti, e infine la verve ironica di Palazzeschi, una bellissima poesia sugli inappetenti e i loro gesti meccanici per superare la ripugnanza del cibo, un’altra dove il banchetto è ridotto a impegno sociale e l’imbandire, l’apparecchiare fastoso diviene elemento addirittura di comico scherno.

L’ultima delle facce del nostro gioiello è un racconto che tratta del protagonista Pollo, antieroe per eccellenza ma non privo di sublimi sfumature esistenziali. Ma questo racconto, unico nel testo, come la traduzione delle Metamorfosi vi verrà letto dall’autrice stessa  e quindi io qui mi fermo  e lascio alla sua voce l’illustrazione finale e completa del nostro chiaro gioiello.

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