Scrivere per imparare a dire
Esaminando quindi dall'inizio i capitoletti, brevi e
brevissimi di "Prime prose italiane": i primi due riproducono
un'atmosfera di periferia neorealista, i colori della terra, delle case, del
cemento sono in bianco e nero, in grigio, come quelli delle pellicole del tempo, ma un fuoco d'erbe accese ne
spezza il numero, la periodicità. Sembra
avvertire nel silenzio un'inquietudine la cui espressione è affidata ad aggettivi,
degni dell'inferno dantesco, da selva dei suicidi: viali appena inalberati, cespugli torti,
case violente. E la luna incomoda, ha le dita prese dal fastidio,
è notte, ma intanto la collina sciupa il
nodo al sole. Ritmo musicale, endecasillabi che si ritagliano, mentre lo
sguardo tenta di definire lo spazio. Infine uno sbarramento, uno squarcio della strada: come nelle fiabe un divieto di andare oltre:
Non so quale nuovo
rigore m'abbia portato a voi, case del terreno nero. La stesura dei campi vi
spinge sul limite dei viali appena inalberati. Tra i cespugli torti le case
s'innalzano violente. Rompe il numero un fuoco d'erbe accese.
Ha le dita prese dal
fastidio la luna, piena la notte, incomoda giù per i balconi nuovi. è tremante
il quartiere d'ingiuria. La collina sciupa il nodo del sole.
*
Il ponte è
perfettamente bianco e si stende perfetto sul fiume appena mosso. Le
costruzioni pallide si rincorrono fino alla sponda. In là varca un ponte
grigio.
Oltre lo squarcio
della strada non andare, se questo è l'ultimo paesaggio.
Era dunque "l'ultimo paesaggio" e ora Rosselli ci
conduce in interni. Dentro una trattoria un oste che sembra ricordare le
intriganti figure manzoniane. Lui è pericoloso, sa tutto. In quel "tutto"
c'è la disperazione, la persistente manìa di persecuzione di Amelia, che presta
a chi non ama e non la ama, alla società fredda e aggressiva, il ruolo di
aguzzini. Per contrasto un giovane cameriere che corre per le camomille è un angelo salvatore, anzi il personaggio
più nobile, il re d'Italia:
Che strana trattoria possibile
che qui sanno tutto? Mi accoglie l'oste grasso pericoloso con occhio sapiente.
Era molto tempo sapeva. Mia esistenza dove m'hai buttata!
*
Bellissimo cameriere
tu sei il re d'Italia tu che pazientisci e corri per le camomille.
Il quinto capitoletto è dedicato a
un'invocazione-deprecazione di Roma, dove amore e risentimento si mescolano. La
bellezza e l'eternità del luogo implicando un obbligo di servitù e sudditanza
da parte di chi la abita, porta a covare la ribellione, il risentimento. Lei, Roma,
è come una donna ancora bella (i tuoi
seni bianchi e lustri), una conquistatrice stanca delle sue conquiste: ora siedi, riposi assestata:
Roma città eterna che
silenziosamente di notte ti bevi il tuo splendore hai tu nulla da predire. Ti
sei fatta principessa e languisci. Nulla ti vieta. Arrotonda pure i tuoi seni
bianchi e lustri. Le massaie si sono stancate di portarti le acque piovane. Tu
hai succhiato latte di volpe hai rubato hai saccheggiato e ora siedi riposi assestata.
In questo paragrafo si è inserito il tema dell'acqua, che,
come in una partitura musicale si svolge nei due capitoletti successivi con
variazioni: dal fiume al mare, all'acqua piovana, all'incontro della corrente
con l'immensità equorea. Il paragrafo si apre su una similitudine che nella sua
stranezza tuttavia ci riconduce al regno di quanto è umido: L'acqua è una grande rana.
Ma poi l'acqua acquista una valenza etica, caritatevole.
Il fiume è anche un'entità
esteticamente affascinante : è lentigginoso,
perché una brezza muove il riflesso del sole sulla corrente. Nella sua agilità è
una pantera, è feroce, selvaggio e
solitario, ma è anche una donna, che dovrebbe prepararsi adeguatamente
all'incontro col mare, mentre lungo la sua corrente, presenze invisibili di
morti sfiorano e forse attraggono le donne lungo
le rive.
Anche al mare compete un'analogia strana, presa dal basso
mondo animale: Sei una grande bestia
lumaca, e poi ancora altre analogie quasi inafferrabili che si chiudono
tuttavia su un'affermazione forte e chiarissima: Sei ... una forte tomba.
Dalla distesa d'acqua all'acqua piovana, cui sono dedicate
due o tre righe di grande efficacia, dove la ripetizione e l'assonanza (tu cammini dolente tu cammini dolente e
lenta) rendono il senso del malinconico incedere sotto la pioggia leggera.
Nel terzultimo capitoletto compare un colore, il blu della solita Maria, in un contesto
barocco,
di cui Rosselli sottolinea la valenza erotica: nudo scandalosamente il Cristo attraente
alle bambine. Cristo Jesù legno che non marcisci con lo cuore spinoso, dove
viene fatto di chiederci perché quella sostituzione dell'articolo
"il" con "lo", ma poi l'orecchio prova a dare la sua
risposta: lo cuore
è certamente più spinoso che non il romanticamente abusato
"il cuore".
Quindi il paragrafo più breve e più enigmatico, che torna
all'assenza di colore:
Erba nera che cresci
segno nero tu vivi.
A conclusione ritorna il fiume, il Tevere, il luogo delle
sue passeggiate, dei paesaggi e delle impressioni catturati per la poesia. Qui non
è più pantera, né più minaccia. È bello come può essere bello un cadavere,
tranquillo come il cane che siede sulla sponda (Siedi come un cane), che col il fiume, con la sua pace cadaverica,
s'identifica. Torna qui il tono che abbiamo definito infantile, con l'adozione
dell'aggettivo "bello"in funzione esclamativa, con l'uso dei
diminuitivi (Bello che sei fiumicino
cadaverino). Un uso storpiato, giocoso, se non fosse macabra in sé l'idea
di un fiume già del tutto morto.
La seconda brevissima raccolta di prose, compresa nella
seconda sezione del libretto, Nota,
comprende scritti che vanno – sembrerebbe però programmatico – dal primo
gennaio '67 al 30 dicembre '68. Così ne scrive Rosselli con riferimento ancora
una volta a modi e tempi di scrittura, (a mano o a macchina) aggiungendo
stavolta anche un breve cenno
all'accoglienza ricevuta durante le letture:
É prosa difficile,
interiore quanto la poesia, ma vorrebbe riflettere, come in uno specchio curvo,
il razionale. L'ho letta in pubblico una volta, invece di leggere poesie e
l'attenzione era forse maggiore.
Come si deforma il razionale, riflesso in uno specchio
curvo? Focalizza la realtà, dilata i tratti, i contorni? È forse questo il modo più consueto di riflettere, non
la realtà, sia chiaro, ma la ragione, che porta avanti la scrittura di Amelia
Rosselli?
Di questa raccolta ci colpisce in particolare un paragrafo
che afferma la sopraggiunta consapevolezza, la forza della propria volontà: Io decidevo di esprimermi con maestà e
furore anche se le parole assumevano a volte un contegno più che irrispettoso.
Dove colpisce la forza del verbo, irritualmente preceduto dal pronome di prima
persona e quei due complementi di modo, di una forza assoluta. Ma ancora più contraddistingue
questa voce, quel far ripiegare tanta violenza nell'ironico contegno "irrispettoso"
delle parole. Le parole sono avvertite come strumento ribelle, oppositivo,
persino ironico, di quella espressione forte e altera.
Proprio nell'ultima prosa di Nota, quella che porta la data del 30 dicembre 1968, compare, con
le due iniziali maiuscole, il nome "Diario Ottuso", che in senso
stretto compete all'ultima raccolta del libretto:
Fingendo i benpensanti
d'essere così luminosi mi misi a stringere nella mano questo Diario Ottuso.
Tra queste varie prose solo Diario Ottuso è scritto in terza persona, ma soltanto simula una vera
narrazione oggettiva. Ritroviamo qui, ancora più esplicita, quella voce, quella
sensibilità infantile a cui abbiamo fatto riferimento più avanti. Qui, si racconta
di una partenza, di un distacco, non desiderati, compiuti in obbedienza a un
ordine. E di quale ordine si tratterà se non dell'ingrato obbligo di diventare
adulta, di finirla con l'innocenza, con l'immaturità, verso quella completa
assunzione di responsabilità alla quale gli altri, i cosiddetti adulti, ci
spingono? Maturità di cui, come nelle tradizionali iniziazioni, occorre dare, e
la voce narrante sfida sé stessa a dare, concrete prove:
Ora farò vedere che
sono cresciuta fino alla età che avevate voi quando mi avete messa al mondo!
Più avanti un tormentone sul tema della partenza e del
partire, del volere e non volere lei stessa o altri che lei partisse. In sette
righe, con bravura funambolica che rende l'intima dissociazione, il verbo
partire è coniugato in differenti tempi e forme ben tredici volte, senza che
una sola volta suoni superfluo:
Partì senza dire a nessuno perché
partiva: partiva ed era obbediente agli altri nel partire, essi che preferivano
che lei partisse. Partì, e fu come togliersi la giacca, tutta indaffarata nel
partire, e pensare: perché sono partita? perché mi hanno fatto partire?
Non so perché sono
partita, si disse, e nemmeno voglio sapere perché essi hanno voluto ch'io
partissi, si disse, e ora non ho nemmeno voglia di partire, pensò partendo.
Il racconto dello strappo continua: il treno conduce la
protagonista in un luogo dove avrebbe finalmente
imparato a vivere. Gli incontri, l'amicizia, un giovane forte "fratello"
hanno l'opposizione di maestri furbastri,
espressione che torna più d'una volta, ancora una volta ingenua, quasi da
vocabolario di scolara ribelle.
Ma, tornando al legame forte tra la donna e un uomo:
L'uomo non fu mai uomo pienamente e l'altra
rifiutò di essere donna. L'uno morì, l'altra se ne pentì. [...]Giocò, come
tutti, con la vita, ma non più
infantilmente: con graffi sui tavoli degli osti meravigliati del suo improvviso
ritorno con faccia angolosa.[...] Fucilò il resto della sua forza; fucilò il fuoco
della verità che trapelava di tra le ciglia chiuse dell'infante sbalordita, del
mondo ricurvo che voleva mostrarsi quadrato.
Ecco dunque: due volte è pronunciato quel concetto
"infantilmente", "infante". Quella creatura che balbetta e
che grida la sua inadeguatezza al mondo, che Rosselli sta descrivendo, è lei
stessa disperata di aver ormai deciso di fingere l'età adulta. Torna anche
l'immagine dello specchio curvo del razionale, sopraffatto dalla minacciosa
ottusità di quanto si mostra di misura perfetta, squadrato.
Non mancano nella storia della protagonista di Diario Ottuso, alter ego di Amelia, i momenti luminosi, semplice felicità nella
natura, accanto all'amico fratello. I "maestri furbastri", ora che
lui non c'è più, consiglierebbero di dimenticare, lei non può e non vuole e si
aggira sperduta e chiusa nella sua solitudine.
Era partita, ma vorrebbe fuggire ormai, tornare indietro –
rifugiarsi nuovamente nel buio di un utero accogliente? Questo non è possibile,
non c'è ritorno :
Nessun ponte ostacolava
la sua andata ma il ritorno era frastagliato di disinterrate mine, e molti
piccoli ponti grigiastri collassavano nelle rupi bidestre, maldestre, asciutte,
tetre.
Qui il cerchio si chiude, il romanzo brevissimo si conclude,
non rimane che quell'illuminazione, di apparente rinuncia, quasi di sapienza
orientale, quella luce esatta sulla sua "dimensione vitale": il non sapere, il non vedere, il non capire.
Piera Mattei