nota critica a
Giancarlo Stoccoro "Il negozio degli affetti " Gattomerlino
edizioni 2014
Non parlerò di “Il negozio degli affetti” come chi incontri per
la prima volta questo libro, già stampato, perché infatti sono –in parte non minima– responsabile della sua
struttura.
Eppure, tornando a leggendolo, nella sua compiutezza, ha
sentito un’aria di novità, mi è apparso diverso dall’insieme di poesie che tuttavia
avevo scelto con Giancarlo, una a una.
Questa è la magia del
libro: diventa altro dalla somma delle sue parti, acquista una sua vitalità
nuova, lo affermava anche Paul Valery.
Da questo libro ho quindi visto emergere una trama, anche se
ero io stessa già stata testimone della non-programmaticità del racconto. Ho
visto infine emergere una biografia, raccontata per flash,
per immagini, mentre le pagine aggiungevano poco a poco altri dettagli alla
storia, al carattere, al pensiero del loro autore. La sorpresa è stata che alla
terza alla quarta lettura quell’immagine che pensavi di avere fissato continuava
a muoversi, a mutare, ad articolarsi.
Quindi mi fermo. Chiudo il libro. E mi rendo conto che ciò
che rimane più vivido è, insospettabilmente, la sensazione di essere entrati in
una storia d’amore, di convivenza, comunque di confronto con una donna, con la
donna, un confronto non sereno, spesso amaro, forse conflittuale, senz’altro
enigmatico.
Vediamo come questa sensazione ha potuto prendere forma,
prendiamo la poesia a pag.15:
Non mi risolvo alla
partenza
ancora interrogo il tuo gesto
[...]
non resta che piegarsi al tempo
muovere incessantemente la bocca
come fanno i pesci che non hanno
mai parlato fuori dell’acquario.
In questa poesia il tema dell’incontro-separazione si
coniuga con la riflessione sul tempo, direi anzi con la ribellione per
l’assoluto scorrere del tempo, ed entrano a fare parte della poesia l’atto del
parlare, le parole, con un’immagine tra le più particolari e originali del
libro: come fanno i pesci che non hanno /
mai parlato fuori dell’acqua. Ora certo i pesci muovono la bocca, ma noi
diciamo muto come un pesce: i pesci non parlano. Qui invece l’immagine riproduce
l’idea che un acquario sia un po’ come un piccolo universo separato, dove i
pesci parlano tra loro e non sono uditi all’esterno. Solo se li togli dall’acquario,
il loro parlare diventa un soffocato e veramente muto boccheggiare.
I pesci come oltraggiata immagine di morte sono materia per un’altra
similitudine a pag. 24:
Altro sarebbe mutare gli occhi
come fanno i pesci
quando vengono cotti
Certo ci sono probabilità che quella che ci appare come una
storia personale, perché raccontata da una sola voce, riassuma invece echi di
molte altre storie, forse anche racconti di pazienti. Ricordiamolo: Stoccoro è
psichiatra e psicoterapeuta. Data questa precisazione torniamo a rintracciare
gli elementi esterni, quelli che non sono riflessioni sullo scorrere del tempo
o sull’uso e la forza delle parole– su cui torneremo più avanti– ma particolari
che identificano luoghi, situazioni, l’aspetto concreto della vita. E
ritroviamo nella poesia a pag.17 il
muretto di casa, entità fisica che diventa un elemento di sostegno anche
morale, una struttura a cui potere poggiare le spalle.
Ancora a pag.30 un’inquadratura di paese o di periferia
cittadina. Si tratta di un sogno e l’atmosfera onirica si concentra su due
immagini, bambini in gioco e la durata di un abbraccio: bambini che giocano a palla con un po’ di veleno”... ci siamo
abbracciati a lungo in mezzo ai panni stesi nel retro di una casa...
Una storia che trema sempre al bordo del precario, della
delusione. Oppure registra la propria volontà di rivolgere uno sguardo crudele,
freddo, uno sguardo che sa la fine, mentre l’altra, colei che è guardata,
ancora –forse– la ignora o non ne fa motivo di assoluto distacco(pag.50):
io ti osservo tranquillo dalla riva
mi fai cenno più volte di entrare
ma fredda per me è l’acqua
Altre immagini di questa storia (o di queste storie), dove
tuttavia il tu cui le parole sono
rivolte è sempre una donna, lasciamo al lettore di ritrovarle.
E passiamo, dal racconto, alle riflessioni su quanto è nelle
cose, non come materia e immagine, ma come forza invisibile, coordinata imprescindibile:
il
tempo, il movimento nello spazio o l’immobilità della Terra. Questo
ultimo concetto si articola, in particolar modo nelle poesie a pag. 34 e 39:
Importa attendere che la terra giri
e voltandosi dalla tua parte
raggiunga anche te
+++
Se guardo in alto vedo
il cielo ancora
chiaro
ma la terra non mi
segue
non si alza mai
forse dovrei starmene
sdraiato fare come
lei
Ma la terra finge
forse persino la sua immobilità apparente? Forse non solo si gira nel cosmo ma
potrebbe accadere di vederla salire, rumorosissima,
verso l’alto(pag. 67). Vedere il rumore, o per lei, la donna, essere dipinta col suo odore (pag.33): le immagini sinestesiche tornano più di una volta,
in queste pagine.
Quanto al tempo, alla sua dimensione implacabile e noiosa,
noto la ripetizione del nome “andirivieni” associato a quello di misure del
tempo: l’andirivieni di giorni (pag.
17);
l’andirivieni feroce
dei compleanni (pag.19). L’aggettivo feroce si associa altra
volta a una determinazione di tempo non
tutti i giorni sono feroci (pag. 18). Il tempo ha un temperamento
persecutorio: A cosa serve la velocità se
poi il tempo ci segue in ogni gesto, sbuca fuori dal più piccolo anfratto?
Un altro carattere che contraddistingue più di una poesia è l’esordio
su una negazione o su una litote, l’espressione al negativo di un
concetto. Alcuni casi rientrano nei versi già citati a cui aggiungo a pag.
26 non
tutti i luoghi sanno partire e inoltre, il verso d’apertura della già
citata poesia a pagina 50, non è un luogo
qualsiasi. In questo universo
concettuale e affettivo non conta solo la negazione, eppure la negazione è
molto forte. Una negazione che è talvolta un vivo sottrarsi, prospettando persino
ipotesi funeste che diano la possibilità del ricatto affettivo:
Nel caso mi ammalassi
solo dopo aver fatto pace
potrai occuparti ancora di me
Queste parole, per il tono rivendicativo in cui trema
un’insicurezza infantile, mi rimandano all’immagine a pag.62:
anche un bambino nato senza padre
porta addosso la sua carne
cammina tra le sue stesse mura
Non avrà tempo per guarire dall’infanzia
mentre le rughe crescono dalle sue mani
Rughe della pelle, pieghe della terra. Anche la terra che nutre
le piante è importante in questo libro. Tuttavia anche rispetto a quest’ultima metafora,
quella del suolo che dà nutrimento, l’impossibile ipotesi che si affaccia è
quella di essere nato diversamente o altrove:
Saremmo stati altro
se solo avessimo potuto
cambiare ghianda cambiare quercia
ma così ci capita di stare al mondo
accanto a un lembo di terra
dove il penultimo verso richiama l’Ungaretti dell’ “Allegria”:
“Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”. La condizione umana è
precaria, casuale, anche se le trincee sono lontane.
Giancarlo Stoccoro dimostra in queste pagine una notevole
facilità e felicità di scrittura. Afferra rapidamente le immagini, formula con
noncurante rapidità dispettosi concetti. Una scrittura densa da cui possibili molteplici
letture fanno emergere rimandi e riferimenti continui all’interno del libro. Si
ritagliano un carattere a parte alcune poche immagini e situazioni, che si
riferiscono, ci sembra, alla professione di Giancarlo Stoccoro. In questa
chiave almeno leggo la bella poesia di rumori (passo pesante... il calpestio e lo scricchiolio) e di silenzi, di
sentimenti rappresi e soffocati di pag.72:
Per appostarmi meglio al mondo, alzo di poco la tenda a
pacchetto e resto in attesa che anche il mio ospite si sieda.
Sofferenza, la propria e l’altrui sofferenza, pessimismo:
forse vale la pena sottolineare che le quattro sezioni del libro portano tutte
in esergo una citazione da Paul Celan. L’ultima
pagina della raccolta invece è un semplice congedo che, con altre parole–
quelle di Peter Handke–, ridice quella oggettività e novità del libro rispetto
ai materiali poetici che lo compongono, a cui ci riferivamo in apertura di
queste note: “Ascolta, erano tutte cose mie. E adesso sono nostre”