Roberta Fabbri – Helios, la via dell’Essere – Il ciliegio edizioni 2015
Roma 3 febbraio 2016
Studio fotografico Alfredo Matacotta Cordella
Roma 3 febbraio 2016
Studio fotografico Alfredo Matacotta Cordella
La ferrea organizzazione
della serata ha deciso di collocarmi “in fundo” lì dove si deposita quanto è
delizioso. Vorrei essere degna di questa privilegiata collocazione. C’è un solo
rischio, che tutto quanto è importante sia stato già detto. Ma forse rimane da
evidenziare soprattutto quanto non è nel CUORE del libro, nelle note, negli
esergo. Dettagli essenziali li chiamerei con un facile ossimoro
Cominciamo dalla copertina,
dal TITOLO:
Helios, la Via dell'Essere
In questo titolo, soprattutto
nella parola Essere scritta con la maiuscola, ho forse sentito un eccesso, una
forzatura verso l’esoterico. Mi pare d’intuire un intervento dell’editor, che
infatti l’autrice mi conferma. Helios, in realtà è una forza naturale più che
metafisica. Helios guarisce con le erbe, Helios va a Ovest, come appunto il
sole nel suo quotidiano apparente tragitto.
Gli ESERGO
Ce ne sono due: Il
primo è la dedica al figlio che non richiede commenti, si scrive sempre per chi
viene dopo di noi, o da noi. Il secondo è una citazione da Dag Hammarshold: “il
viaggio più lungo è il viaggio interiore”. Non mi sembra trascurabile che
questo personaggio (D.H.) sia morto per un incidente aereo, durante un viaggio
diplomatico in Africa e che di lui sia stato trovato, postumo, un diario che
parla di un suo cammino verso l’ascesi, la purificazione.
Ancora analizzando
informazioni al margine della narrazione. Leggiamo come ultime parole di una
NOTA FINALE che la prima idea
del romanzo è nata dall’ascolto della voce di Mercedes Sosa che canta, lei
argentina, la canzone scritta da un cileno, Julio Numhauser , TODO CAMBIA. Il tema forte di questa bellissima canzone
non è tanto l’elenco poetico di tutte le cose che cambiano ma la constatazione –
tornando, dal mondo intorno, al proprio sé – che conclude quelle strofe: “così
come tutto cambia che io cambi non è strano”, cioè l’accettazione del
cambiamento che il tempo impone a ogni essere vivente. Infine le ultime strofe
di quella canzone introducono l’affermazione che la sola cosa che non cambia è
l’amore per la propria terra e forse questo
è quanto Roberta Fabbri intende soprattutto confermare per sé.
Ma tornando all’idea che
tutto cambia dovrei chiedere qui all’autrice perché se l’ispirazione viene
dall’idea di continuo cambiamento, l’ambientazione è invece decisamente arcaica,
come di un mondo in cui il tempo si sia fermato a cento anni fa: non c’è acqua
calda nelle case, l’acqua si mette a scaldare sul fuoco, non c’è Tv, ci si appisola
davanti al fuoco, non ci sono lavatrici, i panni si lavano ai lavatoi. C’è un
grande controllo sociale, c’è pettegolezzo e da nessuna parte compaiono quegli
oggetti che effettivamente hanno cambiato anche antropologicamente
l’informazione: computers, telefoni mobili...
Il racconto vive qui nel
tempo del Mito Paesano? quando si è formato nell’autrice questo mito? Quando poi
si è fissato con inchiostro indelebile?
LO STILE
Siamo, direi, più che nei Malvoglia dentro Le Veglie di Neri di Renato Fucini, alias Neri Tanfucio.
Sulla lapide di Fucini si
legge che quello scrittore ha elevato alla letteratura la lingua del popolo.
Qui direi che il processo è invertito. Si riprende quella lingua del popolo
conferendole preziosità, con passione che definirei antiquaria, come si
riscopre la bellezza di una vecchia lampada da anni dismessa. Espressioni come il peschio dell’uscio indicano da un lato la passione per certi
suoni, la ripetizione di quei suoni stessi, dall’altra il vezzo di usare
termini desueti o consueti solo in un ambito ristretto, come, per citarne
alcuni, le parole ciuca, forteto,
salcione, la pozza, usata in senso assoluto, e molte altre, per cui la
lettura di questo libro richiede anche la frequente apertura di un sofisticato vocabolario.
Tutto resta perciò immoto e
insieme todo cambia, perché il
cambiamento di cui si parla è interiore. È interiore ma si riflette
all’esterno, anche Pinocchio quando smette di essere un burattino con tutte le
sue bugie e le sue marachelle, e ha compiuto atti d’amore e di coraggio,
diventa, anche esteriormente, un bambino. Cito qui Pinocchio perché l’ho trovato in queste pagine. Certamente per
l’autrice è una lettura prediletta, quel testo addirittura compare tra i libri
di Alchimia di Polluce.
Abbiamo già accennato alle Veglie di Neri di Fucini al Pinocchio di Collodi, potremmo
senz’altro citare anche Cent’anni di
solitudine di Garzia Marquez, e qui, dove appunto stile e voce narrante
tendono a identificarsi, introduciamo la
VOCE NARRANTE
la voce narrante è maschile, ma
non basta, forse per volontà di accentuare l’estraniamento è talvolta persino maschilista,
soprattutto quando parla di corpi
femminili sciupati dalla vita,
dagli anni. É, soprattutto nella prima parte la voce di un monellaccio frammista
alla crudeltà tipica degli ambienti paesani, delle vecchie comari. Ricorda,
soprattutto nel primo capitolo lo stile verghiano dei Malavoglia, cambiando la parlata di Aci Trezza con quella di Poggiosorbi,
il Poggio delle Sorbe, frutto aspro per definizione e ormai, anche lui, arcaico,
praticamente scomparso. È il paese tutto che racconta che bisbiglia e mai con
tono benevolo. Di una fisonomia, di un corpo cattura prima il particolare sgradevole,
tipica maniera d’interessarsi agli altri delle piccole comunità chiuse.
Maschio, il protagonista, non
ama la madre, che rifila scapaccioni ed ha le mani rosse, invidia la madre
all’amico Giovannino, una madre che un giorno prende a spogliarsi sulla
pubblica piazza: la madre dell’amico è pazza sì, ma delicata e di carni
bianchissime.
Tuttavia, a proposito della
madre, attraverso la donna del Lago il protagonista ha una rivelazione, anzi
una visione. Rivede la madre bambina, poi il giorno del matrimonio, già incinta
e col progetto di fare del figlio una persona se non colta almeno istruita.
Vede che la violenza che la madre ha esercitato su di lui, lei l’ha a sua volta
subita dalla propria madre. Qui forse è l’unico momento in cui la voce
femminile dell’autrice si tradisce: di madre in figlia, si trasmette la catena
di un amore equivoco che non conosce tenerezza (pag37).
Nella selva dei personaggi
che dal terzo capitolo in poi il racconto dispiega mi piace segnalare quella del SACERDOTE, personaggio
fondamentale della catena della salvezza, che tuttavia è goloso, ha quella invincibile
debolezza della gola ed è quella che lo rende un personaggio vero, attraente.
C’è un tragico terremoto in
questa storia e ci sono malattie che Helios sa guarire perché Polluce, uno dei
due fratelli dei primi incontri gli ha insegnato i segreti delle erbe. Medicina
è anche potere, potere di guarire certo, ma di avere attraverso i corpi la resa
delle anime. Così Helios conosce Minos Delgado e salverà poi dalla malinconia
il figlio di Minos, Veloso.
Il libro è un racconto che si
chiude, ad anello. Il protagonista parte dal paese natale, da giovane, e a quel
paese torna, da vecchio, avendo compiuto il viaggio, per morire avendo tutto
compreso. Il protagonista – è la sua fortuna
– consuma la vita realizzando la vera conoscenza. Questo perciò, nel periodo di
cupo pessimismo che stiamo attraversando (e spero che sia appunto una
traversata, una via che ci condurrà a momenti migliori) è un libro carico di
ottimismo.
(nella foto: Alfredo Matacotta, fotografo)