Rivista diretta da Piera Mattei --- La rivista pone in primo piano la natura delle cose, la sua indagine, dal punto di vista della scienza, della poesia, della filosofia e dell'arte --- Direttore responsabile: Piera Mattei --- Superstripes Press
lunedì 20 dicembre 2010
BUON ANNO a tutti, ma in particolare a Michele Serra
Vale la pena acquistare La Repubblica solo per leggere L'Amaca di Michele Serra, esempio di scrittura, e in definitiva d'umanità, se la parola e la scrittura sono quanto distingue quel particolare tipo d'intelligenza che è l'intelligenza umana. Dote preziosa di cui si fa rovina e spreco con la verbosità e l'enfasi pubblicitaria tipica dei nostri giorni. I premi non significano molto, ma se Lucreziana 2008 potesse istituire anziché un "premio" un "ringraziamento" annuale per chi interpreta la dignità della scrittura, questo "Ringraziamento Lucreziana 2008" andrebbe senz'altro a Michele Serra. Ieri ha interpretato in poche righe l'umiliazione e il sussulto d'orgoglio oppositivo di molti in questo nostro paese (me compresa), di fronte ai fatti della nostra attuale politica. Riportiamo di seguito una sintesi del già balenante pensiero:
La soddisfazione dei vescovi per la tenuta del governo Berlusconi[…]fa pensare a una specie di stordito masochismo. I santuomini in abito talare che fronteggiano la secolarizzazione di serie B dell'ultimo ventennio, così ben incarnata dalla triste crapula del premier, non possono non sapere che l'imitazione di massa di quei consumi, di quei costumi, di quella visione delle cose, non è parente nemmeno alla lontana della morale cattolico-romana, e neppure della più generica delle morali correnti.[…] L’idea che le elemosine governative alle scuole cattoliche e alle proprietà immobiliari della Chiesa siano davvero la moneta che basta a comperarne l'amicizia, è così avvilente che non ci si riesce a credere.
venerdì 10 dicembre 2010
Due poesie di Santiago Montobbio
Santiago Montobbio (Barcellona 1966) ha scritto vari libri di poesie. Dopo venti anni di silenzio, l'anno scorso ha ripreso a scriverne dietro una prorompente ispirazione. Chi scrive ha avuto modo di incontrare rivi di questa corrente e qui sceglie di presentare due poesie delle più recenti, inedite in traduzione italiana.
Accanto alla passione per la parola pronunciata e ripetuta, come per assaporarla, come per comprenderla quasi l'incontrasse per la prima volta, e infine drammaticamente affrontarla già propria della prima produzione di Santiago Montobbio, possiamo individuare caratteri nuovi di questa vena poetica:
la riflessione sulla poesia nel suo farsi,
il timbro triste senza compiacimento né grido, ma come necessità della voce,
la velata ironia con esiti prossimi all'aforisma.(p.m.)
LOS POEMAS ESTÁN TRISTES
bajo el adiós
que siempre dicen. Los poemas
no pueden ser de otro modo
y cifran el recodo último
en que el vivir a sí se enfrenta.
Los poemas no se gustan, no complacen.
Pero me encuentran, me buscan y me dicen.
Los poemas no son disciplinados niños
que sigan preceptivas o recetas. Los poemas,
si son buenos, se sorprenden a sí mismos.
Los poemas están tristes y muchas veces no se gustan
pero en su destino está el ser únicos, definitivos.
En los poemas me congrego y cifro
desde el último fondo de mí mismo.
En ellos vivir es siempre abismo.
LE POESIE SONO TRISTI
per gli addii
che sempre pronunciano. Le poesie
non possono essere che così:
danno la misura della curva finale
dove il vivere con se stesso si scontra.
Le poesie non si piacciono e non sono compiacenti.
Però m'incontrano, mi prendono e mi parlano.
Non sono ragazzini disciplinati
che seguono precetti e formule. Le poesie,
se sono buone, sorprendono se stesse.
Le poesie sono tristi e spesso non si piacciono
però è nel loro destino di essere uniche, definitive.
Dentro di loro mi raccolgo e compendio
dal più profondo di me stesso.
Vivere in loro è sempre abisso.
LA LIGERA MAÑANA TAMBIÉN EMPIEZA,
también alienta, está bajo las cosas. Aunque escondida,
aunque pequeña. Debajo de las cosas hay una mañana
y tú tienes que encontrarla. Pero no es fácil.
No siempre se encuentra. A veces una vida no basta
para encontrar en ella una mañana.
IL LIEVE DOMANI COMINCIA TUTTAVIA,
respira, è dentro le cose. Per quanto nascosto,
per quanto piccolino. Dentro le cose c'è un domani
e tu devi incontrarlo. Però non è facile.
Non sempre lo incontri. A volte una vita non basta
per incontrarvi un domani.
traduzione di Piera Mattei
Foto Anna Xalabarder
martedì 30 novembre 2010
Bon Anniversaire à Bernard Noël,
né novembre 1930, poète, essayiste, critique d'art et romancier français.
Ici il est à Rome en 2005, à la librairie Odradek, pour la présentation de la traduction italienne ( pour la cure de Lucetta Frisa et Marco Dotti, edizioni dell'Arca, Joker) de son livre "Artaud et Paule".
Dans la photo: Bernard Noël avec Marco Ercolani, Lucetta Frisa, Piera Mattei.
venerdì 26 novembre 2010
"Un'Immaginazione Cosmica": Mohamed Ghozzi
è poeta, professore universitario di letteratura araba, critico letterario, scrittore per l'infanzia, nato a Kairuan, città santa della Tunisia, dove risiede. Le sue poesie e i suoi racconti per l'infanzia sono noti in tutto il mondo arabo.
Abdul Kader El-Janabi e Bernard Noel, nella loro antologia della poesia araba così scrivono di lui:" la sua padronanza del ritmo e dell'immagine, il suo modo di evocare l'infanzia con poche parole e il suo desiderio appassionato di tessere con fili dorati tutte le luci della mistica…gratificano ogni poesia di un'illuminazione cosmica capace di rapire l'anima del lettore."
Le poesie qui presentate sono dalla versione francese, approvata dall'autore, di Aymen Hacen, poeta, traduttore e insegnante di letteratura francese.
da Livre des saisons
L'éclair
Quand l'éclair se précipite mettant le feu aux
cendres de l'obscurité
L'enfant lève vers lui sa paume
Serre une braise dans sa main
Puis se replie dans le froid de son lit et s'endort.
Il fulmine
Quando il fulmine si precipita dando fuoco
alle ceneri dell'oscurità
il bambino alza verso di lui il palmo della mano
serra nel pugno un frammento di brace
poi si ravvolge nel freddo del suo letto
e s'addormenta.
*
Je dis
Je dis quand autour de moi les gens deviennent
nombreux
Me suffit le peu qui reste de cette carafe
S'il n'y a plus à boire
Et que mon tour soit passé
Moi, je me contente de sentir les doigts de
l'échanson.
Dico
Dico che quando intorno a me la gente
si fa folla
mi basta il poco che resta in questa caraffa
se non c'è più da bere
e il mio turno è passato
io mi contento di odorare le dita del coppiere.
*
L'aigle
Regardez comment cet aigle
Soulève la terre à l'insu de sa race
Et la suspend comme une pomme
Dans les royaumes de ces nuées.
L'aquila
Guardate come quell'aquila
solleva la terra all'insaputa della sua stirpe
e come un pomo la sospende
nei regno di quei nembi.
*
Le trépas
Si avant le chant du coq survient mon trépas
Et ouvre la porte de ma demeure
Je l'invoquerai: "Patience, Seigneur,
Il est sur terre des vins dont je n'ai pas goûté
Les plus délectables
Maints péchés dont je n'ai pas commis
les plus beaux,
Alors partez aujourd'hui, revenez demain."
La morte
Se prima del canto del gallo, spalancando la porta
della mia dimora, la morte facesse irruzione
lo invocherei: "Aspetti, Signore,
ci sono sulla terra vini deliziosi
che mai ho assaggiato
infiniti stupendi peccati
che mai ho commesso,
perciò oggi andate via, ritornate domani."
*
da Livre de l'étonnement
Jadis
Jadis venait la mer à notre chambre
Venaient de derrière la mer un royaume
Et une troupe de négresses,
Venaient autour de nous les herbes dépourvues de nom
Venait la mer vêtue de ses grands secrets
Heureux je descendais du lit de mon enfance
dans l'eau
Je ballottais la mer habité
Par le feu de l'étonnement premier.
Un tempo
Un tempo il mare arrivava alla nostra camera
dietro il mare venivano un corteo reale
e una turba di donne negre,
venivano intorno a noi erbe che non hanno nome
veniva il mare vestito dei suoi grandi segreti
felice scendevo dal letto della mia infanzia nell'acqua,
agitavo il mare abitato
dal fuoco del primo stupore.
*
À l'âge de sept ans
Quand nous étions ensemble à l'age de sept ans
J'avais serré dans ma main l'étoile
Puis j'étais rentré
Heureux à la maison
Quand nous étions ensemble à l'age de sept ans
J'avais ouvert dans notre solitude la main
Voici que ma main était vide
Et l'étoile que j'avais cachée: lumineuse goutte d'eau.
Quand nous étions ensemble à l'age de sept ans
All'età di sette anni
Eravamo insieme all'età di sette anni
e avevo stretto nella mano la stella
poi ero tornato
felice a casa.
Eravamo insieme all'età di sette anni
e rimasti nella nostra solitudine avevo aperto la mano
ed ecco la mano era vuota
e la stella che vi avevo nascosto: goccia luminosa d'acqua
Eravamo insieme all'età di sette anni
*
La voix
De qui est-ce la voix dans l'obscurité de notre jardin?
Nous ne nous sommes pas familiarisés avec
la voix, nous n'avons pas trouvé de chemin
menant à elle,
De biais nous avons regardé le seuil:
Rien que les chéneaux qui s'égouttent
Rien que les fils de la nuit qui se tissent.
Est-ce une femme de nuit,
Apportant la conque du fleuve sur la soie
de ses mains
Et les algues des ruisseaux
Dans ses cheveux entremêlés?
Ou bien est-ce mon père revenu
trois ans après
Sans rien dans le froid des paumes, sans rien
au fond des yeux,
Sans rien dans l'habit,
Sauf la fatigue de ce chemin et l'obscurité
de ces royaumes?
Nous n'avons pas ouvert la porte au visiteur
suspect
C'est que ma mère nous a réunis dans sa
chambre à coucher
Et nous a habillés avec des lambeaux de
son tablier
Sous le poids de ses habits nous avions peur
Nous suivions les pas du visiteur s'éloigner
derrière les chemins.
La voce
Di chi è la voce nell'oscurità del nostro giardino?
la voce non ci è familiare,
non abbiamo trovato un cammino che a lei ci porti,
abbiamo di sbieco guardato la soglia:
solo le grondaie che sgocciolano
solo i fili della notte che si tessono.
E' forse una donna della notte
che porta la conca del fiume sulla seta delle sue mani
e le alghe dei ruscelli
nei suoi capelli intrecciati?
Oppure è mio padre tornato tre anni dopo
nulla nel freddo dei suoi palmi, nulla nel fondo degli occhi
niente nel vestito
se non la fatica del cammino e l'oscurità di quei regni?
Non abbiamo aperto la porta al visitatore sospetto,
mia madre ci ha riuniti nella sua stanza da letto
e ci ha vestiti con brandelli del suo grembiale
sotto il peso dei suoi vestiti avevamo paura
seguivamo i passi del visitatore allontanarsi oltre i sentieri.
*
da Livre des sources
La ville
Quelle surprise attends-tu?
Les amoureux y sont allés avant toi
Et avant toi des tribus ont juré d'y parvenir
Regard maintenant:
Ces vaisseaux en reviennent sans échos
En reviennent sans nouvelles les voitures à chevaux
En vain y va-tu donc
Les sources sont chimères
Et ce pays que tu désires ne se révèlera pas,
Reviens avant l'avènement de la nuit:
Jamais la soif de l'âme n'est abreuvée par l'eau
Ni le cœur altéré éteint par le sources
jaillissantes
Tous ces qui sont partis sont aujourd'hui
revenus sans échos
Sans nouvelles revenus tous ceux qui y sont
allés les premiers.
La città
Che sorpresa ti aspetti?
Prima di te ci sono andati gli innamorati
e le tribù hanno giurato di arrivare lì prima di te,
ora guarda:
quei vascelli ne tornano senza echi
senza notizie ne ritornano le carrozze a cavalli
Invano dunque ci vai
le sorgenti sono chimere
e il paese che tu desideri non si rivelerà,
torna prima che si faccia notte.
Mai l'arsura dell'anima si è abbeverata all'acqua
né la sete di un cuore s'estingue a fonti
zampillanti,
tutti quelli che sono partiti sono oggi
tornati senza echi
senza notizia sono tornati quelli che
per primi partirono
*
Le revenant
Peut-être l'age l'a-t-il épuisé. Peut-être la
nostalgie l'a-t-elle accablé
Trébuchant il est retourné à sa première
taverne
S'abreuver avant le départ des buveurs
C'est qu'il a perdu ce qu'a amassé.
Perdu l'appétit de l'âme
Mais qu'espèrent de lui les convives
maintenant que l'age l'a amoindri
Et que le poids de la quarantaine a écrasé son corps frêle?
Le voici cette nuit qui vient les paumes froides,
les yeux stupéfaits,
Il vient tremblant, pas de chanvre dans les
mains, pas d'épices
Ce qu'il a amassé est perdu, et perdue la
jouvence du coeur.
Quelle demeure est cette demeure?
Pour quelle raison ses habitants se sont-ils
dispersés?
A' sa première banquette il est retourné
trébuchant
Ni les femmes de la taverne ne sont allées à sa rencontre
Ni les foules des veilleurs ne se sont précipitées
pour le voir
C'est que ses compagnons se sont méfiés
Et ses proches l'ont évité
Mais qu'espèrent de lui les convives
Si ce n'est qu'il s'en aille loin
Et qu'il meure désormais seul comme meurent
les bêtes de somme…
Il fantasma
Forse l'età lo ha estenuato, forse
la nostalgia l'ha oppresso
vacillando è tornato alla sua prima taverna
a dissetarsi prima che i bevitori se ne vadano
Il fatto è che ha perso tutto quello che aveva accumulato,
perso l'appetito dell'anima
Ma cosa sperano da lui i convitati
ora che l'età l'ha smagrito
e che il peso della quarantena ha schiacciato
il suo fragile corpo?
Eccolo che arriva, questa notte, le palme fredde
gli occhi stupefatti,
viene tremando, non ha nelle mani
né canapa né spezie
quello che aveva guadagnato l'ha perso, ha perso
la giovinezza del cuore.
Che dimora è questa dimora?
Perché i suoi abitanti si sono dispersi?
Alla sua panca di prima è tornato
vacillando
le donne della taverna non gli sono andate
incontro
né la folla dei nottambuli si è precipitata
per vederlo
il fatto è che i suoi antichi compagni diffidano
e i suoi vicini lo evitano
ma cosa sperano da lui i convitati
se non che se ne vada lontano
e che muoia solo orami
come muoiono le bestie da soma…
*
da Livre des miroirs
Avant la chute de l'étoile
Avant la chute de l'étoile, mon maître
est parti et m'a abandonné
Il a jeté au fleuve ses bagues
Et s'est enfoncé dans la pénombre des villes
Comment lui ai-je donc libéré mon âme de sa prison
Et ôté en sa présence mon corps?
Boeufs des forets et males des cerfs
Dans l'ombre s'est perdu mon maître et m'à perdu
Tracez pour moi cette nuit une tombe
Voici mes larmes mes ablutions
Et mon habit mon linceul.
Prima che cadesse la stella
Prima che cadesse la stella, il mio Signore
se n'è andato e mi ha abbandonato,
ha gettato nel fiume i suoi anelli
s'è addentrato nella penombra delle città.
Perché ho liberato per lui la mia anima dalla prigione
e schiuso in sua presenza il mio corpo?
Bufali e cervi della foresta
nell'ombra s'è perduto il mio Signore
e m'ha perduto.
Scavate per me stanotte una tomba
ecco le mie lacrime, le mie abluzioni
il mio vestito il mio sudario.
Cura e traduzione di Piera Mattei
Nella foto il poeta a Kairuan presso i "bacini degli Aghlabiti"(IX sec.d.C).
giovedì 18 novembre 2010
Mahdia,Tunisia – La casa del poeta Mocef Ghachem
sulla penisola di Capo d'Africa
accanto all'antico cimitero marino
la casa del poeta
nella piazza:preparano la sposa per la depilazione rituale
brilla la cupola argentea della grande Moschea
Moncef Ghachem, poeta tunisino d'espressione francese, è nato a Mahdia nel 1946 in una famiglia di pescatori. Nella sua lirica (Cent mil oiseaux; Car vivre est un pays; Cap Africa) e nei suoi racconti (Rais Hugo; L'éparvier) il sentimento d'appartenenza si meticcia con lo sguardo critico da un'altra cultura, creando il mito poetico di quel luogo e di quella gente.
Così scrive il poeta nel suo "Curriculum vitae" (in Dalle sponde del mare bianco, Mesogea 2003):
A est come a sud e a nord Mahdia è sul mare. Beve il cielo e si lascia lappare dai venti. A ovest si perde negli oliveti. E Mahdia è uno scoglio piuttosto stretto, ma che viaggia sulle onde. Sono andato per mare molto presto con mio padre, i miei zii e i miei cugini […]. E' nel cuore della mia famiglia di pescatori che ho incontrato la poesia. E siccome andavo per mare di giorno e di notte, è lui ad avermi prodigato un po' della sua memoria, del suo mistero, una briciola del suo canto.(p.m.)
accanto all'antico cimitero marino
la casa del poeta
nella piazza:preparano la sposa per la depilazione rituale
brilla la cupola argentea della grande Moschea
Moncef Ghachem, poeta tunisino d'espressione francese, è nato a Mahdia nel 1946 in una famiglia di pescatori. Nella sua lirica (Cent mil oiseaux; Car vivre est un pays; Cap Africa) e nei suoi racconti (Rais Hugo; L'éparvier) il sentimento d'appartenenza si meticcia con lo sguardo critico da un'altra cultura, creando il mito poetico di quel luogo e di quella gente.
Così scrive il poeta nel suo "Curriculum vitae" (in Dalle sponde del mare bianco, Mesogea 2003):
A est come a sud e a nord Mahdia è sul mare. Beve il cielo e si lascia lappare dai venti. A ovest si perde negli oliveti. E Mahdia è uno scoglio piuttosto stretto, ma che viaggia sulle onde. Sono andato per mare molto presto con mio padre, i miei zii e i miei cugini […]. E' nel cuore della mia famiglia di pescatori che ho incontrato la poesia. E siccome andavo per mare di giorno e di notte, è lui ad avermi prodigato un po' della sua memoria, del suo mistero, una briciola del suo canto.(p.m.)
venerdì 12 novembre 2010
Sergio Givone – Marco Ercolani: due libri sul tema dell'illuminazione conoscitiva
Sergio Givone – Vivavoce, Filosofia e narrazione - Riflessione critica di Umberto Curi – Itinera Biblioteca Anterem XIX Edizioni Anterem 2010
La Collana Itinera, di scelte Edizioni Anterem, alla sua diciannovesima uscita, ha già pubblicato testi di Gramigna, Sanguineti, Ermini, Ortesta, Cortellessa, Ferri, Niccolai, Prete, per non citarne che alcuni. Questa pubblicazione costituisce il riconoscimento del Premio speciale della Giuria a Sergio Givone nell'ambito del Premio Lorenzo Montano, "perché con la sua opera dimostra di rivolgersi alla narrazione per dare vita a un racconto ulteriore". Il libro riunisce la trascrizione di una serie d'interventi su temi vari fatti di fronte a un pubblico non specialistico, che conservano sulla pagina la vivacità e l'immediatezza dell'esposizione orale. Alcuni dei titoli, tutti accattivanti: Coscienza e malattia; Chi ha ucciso l'arte?; Libertà; Destino e tragedia; La dignità della persona.
Uno stile gradevole, lontano dall'accademia, che utilizzando gli strumenti tradizionali della filosofia sconfina verso le regioni dell'arte, confermando la stretta connessione, che talvolta diventa simbiosi, tra letteratura pensante e pensiero filosofico.
Marco Ercolani – L'opera non perfetta, Note tra arte e follia 1999-2009 – NICOMP Saggi 2010
I rapporti tra arte e follia: tema centrale nella produzione di Marco Ercolani, psichiatra e scrittore estremamente produttivo e versatile. La ricerca quasi ossessiva intorno a un solo tema non contraddice in lui al progetto di ricorrere a variazioni sempre diverse che fa di lui un perfetto poligrafo, uno scrittore polimorfo, con l'attinenza assoluta a una sola tematica.
Qui nella forma del saggio, l'enunciazione fondamentale che l'energia creativa (artistica ma anche scientifica), nel momento che si rivela implica un "trapassare oltre", dove la sofferenza estrema si risolve in estasi e attività creatrice, sul crinale di un baratro oltre il quale c'è silenzio e delirio. Il libro quindi è denso di rimandi e citazioni, secondo quella rete stilistica che altrove (cfr."L'immaginazione critica" Zone 2009 pp 30-35) ho definito della citazione come elemento costitutivo del discorso critico. Ercolani si mostra lettore inesauribile alla creativa ricerca di conferme, nelle parole degli autori più amati, senza mai dare l'impressione di trovarsi finalmente appagato. La copertina del libro, con scelta molto attinente, riporta un particolare di un Carcere d'invenzione del Piranesi dove il segno si sovrappone al segno, mostrando una prospettiva insieme conchiusa e infinita – caratteri propri anche a questa ricerca.
La Collana Itinera, di scelte Edizioni Anterem, alla sua diciannovesima uscita, ha già pubblicato testi di Gramigna, Sanguineti, Ermini, Ortesta, Cortellessa, Ferri, Niccolai, Prete, per non citarne che alcuni. Questa pubblicazione costituisce il riconoscimento del Premio speciale della Giuria a Sergio Givone nell'ambito del Premio Lorenzo Montano, "perché con la sua opera dimostra di rivolgersi alla narrazione per dare vita a un racconto ulteriore". Il libro riunisce la trascrizione di una serie d'interventi su temi vari fatti di fronte a un pubblico non specialistico, che conservano sulla pagina la vivacità e l'immediatezza dell'esposizione orale. Alcuni dei titoli, tutti accattivanti: Coscienza e malattia; Chi ha ucciso l'arte?; Libertà; Destino e tragedia; La dignità della persona.
Uno stile gradevole, lontano dall'accademia, che utilizzando gli strumenti tradizionali della filosofia sconfina verso le regioni dell'arte, confermando la stretta connessione, che talvolta diventa simbiosi, tra letteratura pensante e pensiero filosofico.
Marco Ercolani – L'opera non perfetta, Note tra arte e follia 1999-2009 – NICOMP Saggi 2010
I rapporti tra arte e follia: tema centrale nella produzione di Marco Ercolani, psichiatra e scrittore estremamente produttivo e versatile. La ricerca quasi ossessiva intorno a un solo tema non contraddice in lui al progetto di ricorrere a variazioni sempre diverse che fa di lui un perfetto poligrafo, uno scrittore polimorfo, con l'attinenza assoluta a una sola tematica.
Qui nella forma del saggio, l'enunciazione fondamentale che l'energia creativa (artistica ma anche scientifica), nel momento che si rivela implica un "trapassare oltre", dove la sofferenza estrema si risolve in estasi e attività creatrice, sul crinale di un baratro oltre il quale c'è silenzio e delirio. Il libro quindi è denso di rimandi e citazioni, secondo quella rete stilistica che altrove (cfr."L'immaginazione critica" Zone 2009 pp 30-35) ho definito della citazione come elemento costitutivo del discorso critico. Ercolani si mostra lettore inesauribile alla creativa ricerca di conferme, nelle parole degli autori più amati, senza mai dare l'impressione di trovarsi finalmente appagato. La copertina del libro, con scelta molto attinente, riporta un particolare di un Carcere d'invenzione del Piranesi dove il segno si sovrappone al segno, mostrando una prospettiva insieme conchiusa e infinita – caratteri propri anche a questa ricerca.
martedì 9 novembre 2010
Sette poesie inedite di Maria Gabriella Canfarelli
Maria Gabriella Canfarelli che è nata e vive a Catania, ha pubblicato diverse raccolte di poesie e collabora assiduamente come critico a importanti riviste di poesia, tra le quali "pagine".
Queste sette poesie inedite tornano sul tema della fisicità e del dolore, modulato dalla consapevolezza che nel parlare del male e del dolore occorre tenere ben affilato lo strumento dell'ironia e dell'autoironia.
Il mare non suscita una contemplazione estetica ma una diagnosi o meglio una percezione, di quanto lutto e distruzione muova nella sua livida massa.
Come poeta e come donna lei s'avvia di buon mattino verso il luogo di lavoro, verso il dovere amaro, mentre il corpo avverte insufficiente il riposo notturno, anzi trattiene nel suo tessuto l'incubo della notte.
Le ossa i vasi sanguigni: questa poesia, nella sua forma breve, nel suo lessico sonoro, è in continua auscultazione della vita che l'attraversa, delle pause, dei trasalimenti, dei mutamenti. E cerca una pace distante, prova ancora una volta a darsi i consigli per vivere bene.
(piera mattei)
sbarchi
carta strappata,
mare grosso e maggio
piumato alla cima dell’onda
che spiaggia, si sfascia,
ritira le dita
e a terra lascia poco
fiato a rendere:
corde sfibrate, bottiglie
senza tappo né mappa
d’isola del tesoro,
panni di schiuma e sale
tanta livida acqua
che insieme tutti
liberati sbarca
da un’altra
a questa inumidita sponda.
all’osso che conserva
vado per questo
tempo e per
quest’ora
stranita penso
al primo itinerario
del mattino
al riposo turbato
da un punto all’altro
del corpo
dove l’umido è entrato
passando dalla carne
indolenzita all’osso
che conserva del dolore
un ricordo perfetto,
dove la mano corre.
corpo domestico
nella casa
dimorano gli umori,
solstizio
guasto e pulviscolo.
La memoria ossidata,
il silenzio cresciuto
negli occhi. Vene
stracolme sbattono,
scricchiola l’ossatura.
Ci sarebbe da
prendere a cuore,
lucidare un
antico amuleto
da mettere al muro
o alla porta, se
veglia o dorme
in un dolore tattile
l’immagine del cielo
rosicchiato,
rosso cupo di ruggine.
scena e sipario
potesse
alleggerirsi del peso
non resterebbe
a stringersi le braccia
e l’istante che spiccica
parole in fronte
scritte cancellate
se incontra una riga
di freddo per finire
l’estate
e pienaluna
che ha fretta di
cambiare (e può
sparire)
dopo l’occhiata
dei visitatori.
veduta interna
la prossima
distanza è questa notte
di polpa sgranata
e indoviniamo intrighi
e male in pancia
senza un esame autoptico
che dimostri l’insidia
ingoiata, pronta
a scattare di lama
il giorno che saremo distratti
come le volte accade,
d’un tratto, di vedere dai rami
del corpo fiorire altre ferite,
altro sangue a perdere.
consigli per vivere bene
suggerisci
una sana equidistanza
tra residui compensi,
risultati asfittici
fin troppo stretti, anche
per la mia taglia calibrata.
Definisci la somma
vitale d’esperienza
in prima persona,
testimonia sanezza di mente
portando pronto all’uso
il timbro ironico,
come un coltello in tasca
che faccia più sanguigna la battuta.
imperfetto
per anni
il sonno le fioriva
l’occhio, a tutto chiaro
aperto sulla fronte
a vedersi la faccia
sognata. Adesso scende
senza un punto fisso
su cui restare in piedi
portando a mente nomi
addormentati, cose che
a ripensarci fanno male:
il bene diluito ogni mattina
sotto il coro stonato dell’acqua
come una voce andata fuori tempo,
come un canto imperfetto
in una chiesa.
Queste sette poesie inedite tornano sul tema della fisicità e del dolore, modulato dalla consapevolezza che nel parlare del male e del dolore occorre tenere ben affilato lo strumento dell'ironia e dell'autoironia.
Il mare non suscita una contemplazione estetica ma una diagnosi o meglio una percezione, di quanto lutto e distruzione muova nella sua livida massa.
Come poeta e come donna lei s'avvia di buon mattino verso il luogo di lavoro, verso il dovere amaro, mentre il corpo avverte insufficiente il riposo notturno, anzi trattiene nel suo tessuto l'incubo della notte.
Le ossa i vasi sanguigni: questa poesia, nella sua forma breve, nel suo lessico sonoro, è in continua auscultazione della vita che l'attraversa, delle pause, dei trasalimenti, dei mutamenti. E cerca una pace distante, prova ancora una volta a darsi i consigli per vivere bene.
(piera mattei)
sbarchi
carta strappata,
mare grosso e maggio
piumato alla cima dell’onda
che spiaggia, si sfascia,
ritira le dita
e a terra lascia poco
fiato a rendere:
corde sfibrate, bottiglie
senza tappo né mappa
d’isola del tesoro,
panni di schiuma e sale
tanta livida acqua
che insieme tutti
liberati sbarca
da un’altra
a questa inumidita sponda.
all’osso che conserva
vado per questo
tempo e per
quest’ora
stranita penso
al primo itinerario
del mattino
al riposo turbato
da un punto all’altro
del corpo
dove l’umido è entrato
passando dalla carne
indolenzita all’osso
che conserva del dolore
un ricordo perfetto,
dove la mano corre.
corpo domestico
nella casa
dimorano gli umori,
solstizio
guasto e pulviscolo.
La memoria ossidata,
il silenzio cresciuto
negli occhi. Vene
stracolme sbattono,
scricchiola l’ossatura.
Ci sarebbe da
prendere a cuore,
lucidare un
antico amuleto
da mettere al muro
o alla porta, se
veglia o dorme
in un dolore tattile
l’immagine del cielo
rosicchiato,
rosso cupo di ruggine.
scena e sipario
potesse
alleggerirsi del peso
non resterebbe
a stringersi le braccia
e l’istante che spiccica
parole in fronte
scritte cancellate
se incontra una riga
di freddo per finire
l’estate
e pienaluna
che ha fretta di
cambiare (e può
sparire)
dopo l’occhiata
dei visitatori.
veduta interna
la prossima
distanza è questa notte
di polpa sgranata
e indoviniamo intrighi
e male in pancia
senza un esame autoptico
che dimostri l’insidia
ingoiata, pronta
a scattare di lama
il giorno che saremo distratti
come le volte accade,
d’un tratto, di vedere dai rami
del corpo fiorire altre ferite,
altro sangue a perdere.
consigli per vivere bene
suggerisci
una sana equidistanza
tra residui compensi,
risultati asfittici
fin troppo stretti, anche
per la mia taglia calibrata.
Definisci la somma
vitale d’esperienza
in prima persona,
testimonia sanezza di mente
portando pronto all’uso
il timbro ironico,
come un coltello in tasca
che faccia più sanguigna la battuta.
imperfetto
per anni
il sonno le fioriva
l’occhio, a tutto chiaro
aperto sulla fronte
a vedersi la faccia
sognata. Adesso scende
senza un punto fisso
su cui restare in piedi
portando a mente nomi
addormentati, cose che
a ripensarci fanno male:
il bene diluito ogni mattina
sotto il coro stonato dell’acqua
come una voce andata fuori tempo,
come un canto imperfetto
in una chiesa.
domenica 31 ottobre 2010
Silvano Anania – Orologio a vento per preghiera – Albatros 2010
L'enigma delle origini, del tempo. Da chi discendiamo e cosa, infine, diventeremo. L'inconscio ripercorre incessantemente il passato anche remotissimo: il libro si apre sul sogno del protagonista, che si comporta, nel sogno, come un primate, in un ambiente dove la percezione del pericolo, dell' abbondanza, della bellezza, si alternano a ritmo mozzafiato. Il presente invece, al risveglio, mostra il suo volto opulento (Il frigorifero era pieno di roba che correva il rischio di andare a male) tecnologico (pubblicità alla radio-televisiva, cellulari che squillano), noioso e privo d'imprevisti (Erano mesi che non accadeva assolutamente niente). Noia che addormenta e tormenta nell'attesa di "qualcosa", un fatto, una sorpresa, che non arriva o, se si presenta, è già irriconoscibile, scialbo e sfumato. Massimo, il protagonista, agli inizi del libro, appare come un uomo sull'orlo della depressione. Si distrae con le trasgressioni erotiche e amorose dei suoi amici, la cosiddetta combriccola. Sono uomini rimasti fissi ai rituali del branco adolescenziale (urinare contro la quercia che segna il limite del bosco, parlare tra loro di donne), a cui hanno aggiunto il rituale delle grasse mangiate. Le descrizioni dei manicaretti sono eccellenti occasioni di una scrittura compiaciuta, di una divertita esibizione di grande competenza culinaria, tuttavia da sconsigliare a risentite sensibilità vegetariane.
Una serie di episodi raccontati con abilità e divertimento, che ricordano blandamente le "zingarate" dello storico film "Amici miei", dove le donne sono ritratte sempre come creature libere, spesso infedeli, estremamente scanzonate, con una punta di crudeltà e cinismo. Massimo tuttavia, se da un lato si distrae e si diverte con gli amici, dall'altra è preso da un amore esclusivo, "eterno" per Teresa. All'inizio della storia, Teresa è una donna che ormai evita gli incontri erotici con Massimo, anche se non rifiuta viaggi con altri corteggiatori. Lui, nonostante tutto, continua ad amarla e a desiderarla. C'è poi un'altra persona a cui lui è legato profondamente: è un artista di origine contadina, Liborio, uno scultore che affida al bosco le sue creazioni. Agli inizi del racconto Liborio è misteriosamente scomparso.
Il protagonista ritorna, in una serie di flashback, ai tempi in cui ha conosciuto l'amico, agli inizi della storia con Teresa. In questi ricordi la Natura non fa da sfondo, piuttosto campeggia come altra grandiosa protagonista. La natura è il mare da cui avrebbe origine la vita, cioè la donna – come sembra ribadire il mito di Venere – ma è soprattutto il bosco con i suoi misteriosi ripari, con i colori e i profumi, con la sorpresa della sempre svariante bellezza. Nella concezione di Liborio, rivista e confermata da Massimo, la donna è lei stessa la Natura, la donna è divina. L'uomo non è, alle origini, che un essere creato dalla donna, per sottrarsi alla noia. Creato però non a sua immagine e somiglianza, bensì a somiglianza dei rozzi primati che lei, liscia e delicata, doveva vedersi attorno. L'uomo non può che desiderare di tornare a lei, dentro di lei, che in tutto gli è superiore, e i migliori tra gli uomini non possono pensare se non a dare alla donna ciò per cui lei li ha creati: il piacere e una rassicurante protezione. Questa concezione così elevata dell'altro sesso è purtroppo complementare ai misogini vizi della combriccola, all'uso, seguito da Liborio, di allontanare le donne, al termine del pranzo di Ognissanti, per restare tra uomini, in ragionamenti e meditazione.
Gli inizi della storia con Teresa sono rivissuti con sensibilità favolistica. Nel bosco, il protagonista che si è perso, incontra una ragazzina, che, proprio come in una fiaba, vive non lontana da lì, con la nonna. Anche se lei si dice "quasi quindicenne", ha parole e comportamenti infantili, sebbene molto intraprendenti, da rustica Lolita. Massimo sta con palpitante perplessità al gioco, per la coscienza dell'equivocità dell'esperienza vissuta. Si incontrano nuovamente e lei è già sposata, ma questo dettaglio non è d'ostacolo all'inizio del loro "assoluto" amore.
L'ultima parte della storia è la più complessa. Nel testamento, che è stato ritrovato nonostante non sia ritrovato il corpo, Liborio ha lasciato a Massimo in eredità il suo computer. Massimo riesce ad aprirlo e vi trova un messaggio che si riferisce al luogo dove sarebbe possibile costruire l'orologio a vento, di cui insieme avevano fantasticato. L'orologio è lo strumento per la misura del tempo, quel tempo opprimente, che fa spesso rimuginare Massimo sui suoi sessantacinque anni, ogni volta che il corpo si mostra inadeguato o tardo ai sempre giovanili desideri, alla voglia di salire, di appartarsi, di cercare i decisivi incontri portandosi in alto, o lontano dagli altri.
Infatti si metterà in viaggio, meta la Terra del Fuoco. La terra agli antipodi, come la montagna del Purgatorio. Senza che ce ne fossero vere premonizioni ci troviamo in un mondo carico di simboli, in cui mi è parso di leggere i riferimenti al viaggio di purificazione dantesco. Gli elefanti marini che, Massimo scaccia con lancio di sassi, potrebbero personificare, pensa il protagonista, i vizi dell'avarizia e dell'invidia, da cui sempre ha voluto tenersi lontano. Ci sono donne gentili, che lo incoraggiano al viaggio, mediatrici necessarie, come nella Commedia Lucia e Matelda. Infine, sulla vetta di questo monte dalle sette balze, che lo porta fuori dal bosco nel quale non deve ricadere, c'è l'incontro con Teresa. Un incontro essenziale: sedersi accanto e restare, mentre l'amore si esprime con parole e gesti semplici, con tenerezza, in modo definitivo. E scopriamo infine anche il giallo della scomparsa di Liborio: non è morto, viaggia verso nuove avventure, forse non è se non un alterego del protagonista.
Al di là dell' intreccio, questo romanzo è, essenzialmente, un'interrogazione sulle origini e il tempo. Sono trascorsi lunghi anni di una vita alla quale non è mancato quasi nulla di quanto si pensa la renda completa: gli amici, le donne, una rispettabile posizione sociale, un amore "eterno". Nulla è mancato, ovvero Massimo ha fatto di tutto perché quella sola, unica vita, risultasse, a sé e agli amici, invidiabile, perfetta? Ora, al punto in cui si colloca la storia, non è rimasto che ripercorrere il passato, cercando finalmente di comprenderlo, di fissare il tempo e i valori. Allora, insieme all'Amore, la scrittura si presenta come la sola efficace "trasgressione", consolazione e sollievo alla noia, non per nulla in epoche precedenti, durante il legame coniugale, sembrava unico vero motivo di gelosia per una moglie delusa e lontana. Di più, come nel Dolce Stile, Amore e scrittura si confondono, se la donna oggetto dell'Amore è anche protagonista privilegiata della maggior parte delle storie che Massimo ha scritto, e ragione stessa dello scrivere.
Perfetto nei quadri d'ambiente contadino e nelle situazioni conviviali, abile a intrecciare episodi anche molto lontani nel tempo, nel descrivere le contraddizioni nella sostanziale coerenza del suo protagonista, svariando nelle note dell'elegia e della favola, dell'ironia e della satira, della memoria e del mito, della riflessione e dell'onirico, Silvano Anania ci pone, in definitiva, di fronte a un romanzo di ascesa e purificazione. Partiti dalle bolge di una provincia annoiata, ce ne trasporta agli antipodi, in un clima simbolico e rarefatto. Si completa così un viaggio verso la conoscenza, verso il riconoscimento dell'appartenenza al Tutto, verso la vicinanza eterna all'Amore, che è non è stato concesso una volta per tutte, ma, dal primo incontro e poi contro le avversità, fortemente voluto e trattenuto.
Piera Mattei
Una serie di episodi raccontati con abilità e divertimento, che ricordano blandamente le "zingarate" dello storico film "Amici miei", dove le donne sono ritratte sempre come creature libere, spesso infedeli, estremamente scanzonate, con una punta di crudeltà e cinismo. Massimo tuttavia, se da un lato si distrae e si diverte con gli amici, dall'altra è preso da un amore esclusivo, "eterno" per Teresa. All'inizio della storia, Teresa è una donna che ormai evita gli incontri erotici con Massimo, anche se non rifiuta viaggi con altri corteggiatori. Lui, nonostante tutto, continua ad amarla e a desiderarla. C'è poi un'altra persona a cui lui è legato profondamente: è un artista di origine contadina, Liborio, uno scultore che affida al bosco le sue creazioni. Agli inizi del racconto Liborio è misteriosamente scomparso.
Il protagonista ritorna, in una serie di flashback, ai tempi in cui ha conosciuto l'amico, agli inizi della storia con Teresa. In questi ricordi la Natura non fa da sfondo, piuttosto campeggia come altra grandiosa protagonista. La natura è il mare da cui avrebbe origine la vita, cioè la donna – come sembra ribadire il mito di Venere – ma è soprattutto il bosco con i suoi misteriosi ripari, con i colori e i profumi, con la sorpresa della sempre svariante bellezza. Nella concezione di Liborio, rivista e confermata da Massimo, la donna è lei stessa la Natura, la donna è divina. L'uomo non è, alle origini, che un essere creato dalla donna, per sottrarsi alla noia. Creato però non a sua immagine e somiglianza, bensì a somiglianza dei rozzi primati che lei, liscia e delicata, doveva vedersi attorno. L'uomo non può che desiderare di tornare a lei, dentro di lei, che in tutto gli è superiore, e i migliori tra gli uomini non possono pensare se non a dare alla donna ciò per cui lei li ha creati: il piacere e una rassicurante protezione. Questa concezione così elevata dell'altro sesso è purtroppo complementare ai misogini vizi della combriccola, all'uso, seguito da Liborio, di allontanare le donne, al termine del pranzo di Ognissanti, per restare tra uomini, in ragionamenti e meditazione.
Gli inizi della storia con Teresa sono rivissuti con sensibilità favolistica. Nel bosco, il protagonista che si è perso, incontra una ragazzina, che, proprio come in una fiaba, vive non lontana da lì, con la nonna. Anche se lei si dice "quasi quindicenne", ha parole e comportamenti infantili, sebbene molto intraprendenti, da rustica Lolita. Massimo sta con palpitante perplessità al gioco, per la coscienza dell'equivocità dell'esperienza vissuta. Si incontrano nuovamente e lei è già sposata, ma questo dettaglio non è d'ostacolo all'inizio del loro "assoluto" amore.
L'ultima parte della storia è la più complessa. Nel testamento, che è stato ritrovato nonostante non sia ritrovato il corpo, Liborio ha lasciato a Massimo in eredità il suo computer. Massimo riesce ad aprirlo e vi trova un messaggio che si riferisce al luogo dove sarebbe possibile costruire l'orologio a vento, di cui insieme avevano fantasticato. L'orologio è lo strumento per la misura del tempo, quel tempo opprimente, che fa spesso rimuginare Massimo sui suoi sessantacinque anni, ogni volta che il corpo si mostra inadeguato o tardo ai sempre giovanili desideri, alla voglia di salire, di appartarsi, di cercare i decisivi incontri portandosi in alto, o lontano dagli altri.
Infatti si metterà in viaggio, meta la Terra del Fuoco. La terra agli antipodi, come la montagna del Purgatorio. Senza che ce ne fossero vere premonizioni ci troviamo in un mondo carico di simboli, in cui mi è parso di leggere i riferimenti al viaggio di purificazione dantesco. Gli elefanti marini che, Massimo scaccia con lancio di sassi, potrebbero personificare, pensa il protagonista, i vizi dell'avarizia e dell'invidia, da cui sempre ha voluto tenersi lontano. Ci sono donne gentili, che lo incoraggiano al viaggio, mediatrici necessarie, come nella Commedia Lucia e Matelda. Infine, sulla vetta di questo monte dalle sette balze, che lo porta fuori dal bosco nel quale non deve ricadere, c'è l'incontro con Teresa. Un incontro essenziale: sedersi accanto e restare, mentre l'amore si esprime con parole e gesti semplici, con tenerezza, in modo definitivo. E scopriamo infine anche il giallo della scomparsa di Liborio: non è morto, viaggia verso nuove avventure, forse non è se non un alterego del protagonista.
Al di là dell' intreccio, questo romanzo è, essenzialmente, un'interrogazione sulle origini e il tempo. Sono trascorsi lunghi anni di una vita alla quale non è mancato quasi nulla di quanto si pensa la renda completa: gli amici, le donne, una rispettabile posizione sociale, un amore "eterno". Nulla è mancato, ovvero Massimo ha fatto di tutto perché quella sola, unica vita, risultasse, a sé e agli amici, invidiabile, perfetta? Ora, al punto in cui si colloca la storia, non è rimasto che ripercorrere il passato, cercando finalmente di comprenderlo, di fissare il tempo e i valori. Allora, insieme all'Amore, la scrittura si presenta come la sola efficace "trasgressione", consolazione e sollievo alla noia, non per nulla in epoche precedenti, durante il legame coniugale, sembrava unico vero motivo di gelosia per una moglie delusa e lontana. Di più, come nel Dolce Stile, Amore e scrittura si confondono, se la donna oggetto dell'Amore è anche protagonista privilegiata della maggior parte delle storie che Massimo ha scritto, e ragione stessa dello scrivere.
Perfetto nei quadri d'ambiente contadino e nelle situazioni conviviali, abile a intrecciare episodi anche molto lontani nel tempo, nel descrivere le contraddizioni nella sostanziale coerenza del suo protagonista, svariando nelle note dell'elegia e della favola, dell'ironia e della satira, della memoria e del mito, della riflessione e dell'onirico, Silvano Anania ci pone, in definitiva, di fronte a un romanzo di ascesa e purificazione. Partiti dalle bolge di una provincia annoiata, ce ne trasporta agli antipodi, in un clima simbolico e rarefatto. Si completa così un viaggio verso la conoscenza, verso il riconoscimento dell'appartenenza al Tutto, verso la vicinanza eterna all'Amore, che è non è stato concesso una volta per tutte, ma, dal primo incontro e poi contro le avversità, fortemente voluto e trattenuto.
Piera Mattei
Cristiano Franceschi – Oltre vento e da nessun luogo – Ghenomena Edizioni, 2009
Un libro di poesie dedicato a una donna, non con un semplice esergo ma con l'acrostico che introduce la raccolta. Dunque, da subito, abbiamo la presentazione di un canzoniere (poesie d'amore e di lontananza), da subito il desiderio, la sensualità sono protagonisti, ma rinserrati in forme chiuse: sonetti e madrigali con stretto controllo dei metri e delle rime.
L'autore di queste poesie è lo stesso fotografo che, sulla copertina, colloca un'immagine notturna. Un luogo centrale di Roma, il ponte Duca d'Aosta, vi è quasi irriconoscibile, tanto la foto è limpida, perfetta, e l'immagine, nella sua perfezione, "altra" da quanto normalmente si vede. Sempre in quella foto un dettaglio inquietante: i fari accesi di un'automobile che sembra parcheggiata, sotto il ponte, in cima a un'ampia scalinata.
Ho riferito di quella foto in copertina perché vi leggo, come in altre opere fotografiche di Cristiano Franceschi, la metafora visiva della sua poesia, che costringe l'angoscia pulsante, l'enigma che assilla, nella misura del metro, nella forma accurata e netta.
Del resto la forma chiusa e la rima sono, nell'uso del poeta abile e accorto, per l'orecchio addestrato, lo strumento mediante il quale la lingua scopre da sé la via al discorso che urge, o addirittura lo suscita. Nella seconda strofa della poesia di pag. 11 c'è infatti il riferimento a un "cantare a braccio", anzi direi che l'intera strofa costituisce nel suo insieme una dichiarazione di poetica e un programma esistenziale: Come soltanto un verso preso al laccio / e a sopravvento per l'ostile intorno / delle mani e del mio cantare a braccio, / ho messo all'ancora il vagar del giorno / dov'è sicura la fonda e l'abbraccio / imbarchi il fuoco e il piacere adorno. Un programma esistenziale che avrà quale durata? "Ho messo all'ancora il vagar del giorno": per quanto tempo resterà agli ormeggi una vita che cerca da sempre, ma non riesce a trovare, il luogo dove sistemare i suoi Lari? I luoghi qui citati, vissuti, sono molti. A cominciare da Firenze: Santa Croce, gli Innocenti, Duccio, Via delle belle donne, ma anche la bassa Toscana, Chiusi, Siena, Bagno Vignoni, poi Roma, alla Stazione Termini. Tra i molti ancoraggi, il riferimento a un altrove linguistico nelle poesie in tedesco, idioma che potrebbe rivelare l'Heimat originale e insieme additare un altro termine delle molteplici, irrisolvibili contraddizioni. Nelle metafore, infine, il mare, le acque compaiono come atavico ricordo del viaggio, dell'espatrio, forse della fuga senza sapere verso cosa e a causa di chi: E' un porto come tutti gli altri, ma / pesantemente nei canali domina / quel muschio di bonaccia che si fa / nera insolenza […] E trascinato dai venti che fan- / no alla prima occasione cadere gomene / e sartie, l'ancora e i paranchi inutili / strumenti di salvezza.
Ancorarsi, o rifiutare di scendere a "un porto come tutti gli altri"? Speranza e disperazione si sovrappongono, fino a corteggiare la follia e la morte: Conviene l'omicidio, soluzione / di originale freschezza, modesta / come fanciulla irritabile, clone / del desiderio furioso di Vesta.[…] quel cielo capovolto e quelle fate / ranicchiate sull'angelo, cura- / no della morte anime disamate. Versi assai belli, che "curano" a loro volta la disperazione e, nella loro aperta cantabilità e chiarezza, contrastano con l'enigmaticità di molti versi dove la rima onnipresente spinge alla scoperta d'assonanze e immagini, anche strane.
Dovunque la parola è in caccia dell'amore, dell'eros, non come annientamento ma come ipotesi di rispecchiata identità e, finalmente, d'immobilità. Ma l'immobilità non è anche la fine, la morte? Bellissima fanciulla, / Dolce a veder non quale / La si dipinge la codarda gente, / Gode il fanciullo Amore / Accompagnar sovente. La citazione leopardiana dal canto Amore e Morte, che liberamente si affaccia, mi aiuta a definire lo stile e l'ispirazione di Cristiano Franceschi come poesia fondamentalmente classica, nella forma e anche nelle tematiche. Giudizio che rimane saldo, e non contraddice a un primo approccio con questi versi piuttosto aspro, difficile. Perchè l'armonia, come le fate che ho dianzi citato, è presente ma nascosta, e si richiede al lettore di andarla a stanare, mentre se lei se ne resta immobile, ranicchiata "sull'angelo".
Piera Mattei
L'autore di queste poesie è lo stesso fotografo che, sulla copertina, colloca un'immagine notturna. Un luogo centrale di Roma, il ponte Duca d'Aosta, vi è quasi irriconoscibile, tanto la foto è limpida, perfetta, e l'immagine, nella sua perfezione, "altra" da quanto normalmente si vede. Sempre in quella foto un dettaglio inquietante: i fari accesi di un'automobile che sembra parcheggiata, sotto il ponte, in cima a un'ampia scalinata.
Ho riferito di quella foto in copertina perché vi leggo, come in altre opere fotografiche di Cristiano Franceschi, la metafora visiva della sua poesia, che costringe l'angoscia pulsante, l'enigma che assilla, nella misura del metro, nella forma accurata e netta.
Del resto la forma chiusa e la rima sono, nell'uso del poeta abile e accorto, per l'orecchio addestrato, lo strumento mediante il quale la lingua scopre da sé la via al discorso che urge, o addirittura lo suscita. Nella seconda strofa della poesia di pag. 11 c'è infatti il riferimento a un "cantare a braccio", anzi direi che l'intera strofa costituisce nel suo insieme una dichiarazione di poetica e un programma esistenziale: Come soltanto un verso preso al laccio / e a sopravvento per l'ostile intorno / delle mani e del mio cantare a braccio, / ho messo all'ancora il vagar del giorno / dov'è sicura la fonda e l'abbraccio / imbarchi il fuoco e il piacere adorno. Un programma esistenziale che avrà quale durata? "Ho messo all'ancora il vagar del giorno": per quanto tempo resterà agli ormeggi una vita che cerca da sempre, ma non riesce a trovare, il luogo dove sistemare i suoi Lari? I luoghi qui citati, vissuti, sono molti. A cominciare da Firenze: Santa Croce, gli Innocenti, Duccio, Via delle belle donne, ma anche la bassa Toscana, Chiusi, Siena, Bagno Vignoni, poi Roma, alla Stazione Termini. Tra i molti ancoraggi, il riferimento a un altrove linguistico nelle poesie in tedesco, idioma che potrebbe rivelare l'Heimat originale e insieme additare un altro termine delle molteplici, irrisolvibili contraddizioni. Nelle metafore, infine, il mare, le acque compaiono come atavico ricordo del viaggio, dell'espatrio, forse della fuga senza sapere verso cosa e a causa di chi: E' un porto come tutti gli altri, ma / pesantemente nei canali domina / quel muschio di bonaccia che si fa / nera insolenza […] E trascinato dai venti che fan- / no alla prima occasione cadere gomene / e sartie, l'ancora e i paranchi inutili / strumenti di salvezza.
Ancorarsi, o rifiutare di scendere a "un porto come tutti gli altri"? Speranza e disperazione si sovrappongono, fino a corteggiare la follia e la morte: Conviene l'omicidio, soluzione / di originale freschezza, modesta / come fanciulla irritabile, clone / del desiderio furioso di Vesta.[…] quel cielo capovolto e quelle fate / ranicchiate sull'angelo, cura- / no della morte anime disamate. Versi assai belli, che "curano" a loro volta la disperazione e, nella loro aperta cantabilità e chiarezza, contrastano con l'enigmaticità di molti versi dove la rima onnipresente spinge alla scoperta d'assonanze e immagini, anche strane.
Dovunque la parola è in caccia dell'amore, dell'eros, non come annientamento ma come ipotesi di rispecchiata identità e, finalmente, d'immobilità. Ma l'immobilità non è anche la fine, la morte? Bellissima fanciulla, / Dolce a veder non quale / La si dipinge la codarda gente, / Gode il fanciullo Amore / Accompagnar sovente. La citazione leopardiana dal canto Amore e Morte, che liberamente si affaccia, mi aiuta a definire lo stile e l'ispirazione di Cristiano Franceschi come poesia fondamentalmente classica, nella forma e anche nelle tematiche. Giudizio che rimane saldo, e non contraddice a un primo approccio con questi versi piuttosto aspro, difficile. Perchè l'armonia, come le fate che ho dianzi citato, è presente ma nascosta, e si richiede al lettore di andarla a stanare, mentre se lei se ne resta immobile, ranicchiata "sull'angelo".
Piera Mattei
lunedì 25 ottobre 2010
Tre poesie inedite di Cristina Vidal Sparagana
Cristina Vidal Sparagana,è nata a Roma, il 1 novembre 1957. Laureata in lettere moderne all’Università di Losanna, è stata traduttrice di testi teatrali per la Radio Svizzera Italiana e di romanzi per l’Editore Rizzoli. Nel 1990 si è trasferita in Cile dove ha lavorato come funzionaria presso l’Istituto Italiano di Cultura di Santiago, e docente di letteratura italiana all’Università Cattolica di Valparaíso. In questo periodo ha fondato e diretto la rivista “Appunti Italo-cileni”e ha pubblicato il saggio “Tre poeti italiani: Bertolucci, Gatto, Penna”, (Istituto Italiano di Cultura). Tornata a Roma nel 2000, ha vinto il Premio Montale Inediti nel 2002, cui ha fatto seguito il Premio George Byron nel 2003, e ha cominciato a collaborare con la rivista “Poesia” di Nicola Crocetti per la quale ha realizzato traduzioni di numerosi poeti cileni e latinoamericani, fra cui Gonzalo Rojas, Armando Uribe, Oscar Hahn, e Vicente Garcia Huidobro. Nella primavera del 2006 è uscito presso le Edizioni del Giano, il suo libro di versi “Il demone gentile”, con prefazione di Plinio Perilli. Sue poesie e traduzioni sono state incluse nelle riviste cilene “Pluma y Pincel” e “Caballo de fuego” e nelle italiane “Polimnia”, di Dante Maffia, “La Mosca di Milano” di Gabriela Fantato, “Poesia” di Nicola Crocetti, “Poeti e Poesia” di Elio Pecora, “Testo a fronte”di Franco Buffoni, “Gradiva” (New York) di Luigi Fontanella, “Pagine” di Vincenzo Anania. È dello scorso anno un suo saggio - con relative traduzioni - su Gabriela Mistral, presente nel volume “Con la tua voce” ( “La vita felice”), mentre alcuni estratti del testo teatrale in versi “Drake” sono presenti nell’antologia di Roberto Mussapi “Bona Vox” (Jaka Book, Milano, 2010).
IL FALCO
Il falco non ha nulla
sotto le zampe.
Non un ramo di faggio,
non un arco, non la borsa di un angelo,
neppure
un cavaliere ammutolito, nulla
che sostenga nel vuoto la sua curva.
Il falco è appeso all’occhio di un defunto
come a un chiodo ficcato nella notte.
Ma non ha nulla sotto il corpo, solo
la luna che si sveste nei tre quarti
di uno specchio sul punto di cadere,
il negato, violento sopracciglio,
un dio vuoto, una lacrima, una spilla.
Non esiste
la terra. Il cielo è un sacco
strappato al vento,
un tramonto sbiancato a mezza via,
un silenzio di foglie che s’incrina
su ciò che è stato o non è stato, vibra
come nel ghiaccio.
E non ha nulla, il falco, che lo intinga
nell’inquieto confine della luce,
non un fischio, o una fiaccola o il brucare
di un gregge assente.
Nulla che regga il suo orologio immenso,
il bersaglio crudele dello sguardo,
la profonda sentenza. Solo un chiaro profilo
che si volge
per scomparire oltre la sabbia, solo
il rifiuto dell’anima, la ferma
traccia del tempo.
MARE MORTO
Il mare è morto a fine agosto,
è morto
come un astro staccato
dal suo ramo
o un suggello di plancton,
e le esequie sommergono le rocce.
Funerali profondi, chiazze gialle
su lunghi colli:
simili a cigni tolti al capezzale
le bagnanti galleggiano, ridenti.
(Radar che sembrano fotografare
l’incrociata barriera e le sue leghe,
lunghi tubi che solcano le onde).
La città è un firmamento.
Le stelle sono i pacchi,
i brevi gong dei tacchi a spillo, i lampi
dei semafori usciti dalla fitta
cecità dell’estate.
Le galassie, gli uffici spalancati
a divorare strappi di cappello
e di giornali arrotolati come
cannocchiali di carta.
Ogni gonna
si unisce a una candela.
Ogni amante ha sognato di morire.
Ha sognato che il vuoto più crudele
era un coltello tra le labbra, un bacio
precipitato dal balcone, destinato
a sventolare come una bandiera
tra cicale di porpora.
Messe in piega si drizzano nel mare
appese a colli sconosciuti,
neri, gialli, marrone.
Il mare è morto, eppure
sigarette lo pungono, segnali
di nuova vita svolgono il suo letto
come nastri adesivi, mani grasse
lo posano su un rogo
di sorrisi e di perle, di conchiglie
nate all’ombra del polso.
Le teste non si piegano,
i colli come tubi
hanno smesso di stridere al tramonto
in un piccolo bosco di persone
strette a una tana di civetta. Tutti
porgono il mento all’aglio e al vino.
Tutti
sgorgano a tempo.
Sotto la guancia di un bambino il mare
è morto a fine agosto. Sotto
la caviglia nervosa di una vecchia
troppo remota al fiotto della lana,
che alza lo sguardo verso il cielo come
se cadesse una palla.
Sotto tre gelidi silenzi alti
come bagnini nerboruti. Il mare
si ritrae dal suo sasso.
Sballottato da venti di regalo,
trascinato alla raffica, sepolto
da sua stessa vertigine. Verranno
altre rinascite,
culle piene di paglia,
buoi dalla lingua come cani, nuovi
colpi di zappa.
Verranno sedie fitte nella luna,
pelli rosse di vespe, pelli tese
tra zanzara ed incudine. Da quando
il mare tornerà a gridare
come un ragazzo dei giornali, come
una bocca d’uccello, come un topo
dalla zampa divisa, come un nido
rovesciato dal vischio.
UNA GOCCIA DEL CUORE DEL TOPO
Una goccia del cuore del topo. Una goccia
come cento altre gocce. Buco
ficcato in polvere vermiglia,
sangue, lancio di scheggia,
pioggia lieve
su frazioni di capsula, canzone
svociata in pezzi di campane, lame
dentro la pietra.
Fra stinchi e soffi di rovina, giace
ciò che resta del topo: un occhio nero
come quello di un pugile, una coda
simile al dito di un guerriero, un duro
getto di calce.
Il topo unto nel veleno, il topo
essiccato dall’urlo,
beatificato nella colla, zampa
e demonio, avvolge tutto questo
in minuscolo lutto.
Pure, c’è chi si sporge sulla terra
per vederlo morire, chi stropiccia
la sua crosta di sangue fra le dita.
C’è chi posa la mano sulla tenue
brevità del suo sonno, chi lo addita
tra cipresso e letargo.
IL FALCO
Il falco non ha nulla
sotto le zampe.
Non un ramo di faggio,
non un arco, non la borsa di un angelo,
neppure
un cavaliere ammutolito, nulla
che sostenga nel vuoto la sua curva.
Il falco è appeso all’occhio di un defunto
come a un chiodo ficcato nella notte.
Ma non ha nulla sotto il corpo, solo
la luna che si sveste nei tre quarti
di uno specchio sul punto di cadere,
il negato, violento sopracciglio,
un dio vuoto, una lacrima, una spilla.
Non esiste
la terra. Il cielo è un sacco
strappato al vento,
un tramonto sbiancato a mezza via,
un silenzio di foglie che s’incrina
su ciò che è stato o non è stato, vibra
come nel ghiaccio.
E non ha nulla, il falco, che lo intinga
nell’inquieto confine della luce,
non un fischio, o una fiaccola o il brucare
di un gregge assente.
Nulla che regga il suo orologio immenso,
il bersaglio crudele dello sguardo,
la profonda sentenza. Solo un chiaro profilo
che si volge
per scomparire oltre la sabbia, solo
il rifiuto dell’anima, la ferma
traccia del tempo.
MARE MORTO
Il mare è morto a fine agosto,
è morto
come un astro staccato
dal suo ramo
o un suggello di plancton,
e le esequie sommergono le rocce.
Funerali profondi, chiazze gialle
su lunghi colli:
simili a cigni tolti al capezzale
le bagnanti galleggiano, ridenti.
(Radar che sembrano fotografare
l’incrociata barriera e le sue leghe,
lunghi tubi che solcano le onde).
La città è un firmamento.
Le stelle sono i pacchi,
i brevi gong dei tacchi a spillo, i lampi
dei semafori usciti dalla fitta
cecità dell’estate.
Le galassie, gli uffici spalancati
a divorare strappi di cappello
e di giornali arrotolati come
cannocchiali di carta.
Ogni gonna
si unisce a una candela.
Ogni amante ha sognato di morire.
Ha sognato che il vuoto più crudele
era un coltello tra le labbra, un bacio
precipitato dal balcone, destinato
a sventolare come una bandiera
tra cicale di porpora.
Messe in piega si drizzano nel mare
appese a colli sconosciuti,
neri, gialli, marrone.
Il mare è morto, eppure
sigarette lo pungono, segnali
di nuova vita svolgono il suo letto
come nastri adesivi, mani grasse
lo posano su un rogo
di sorrisi e di perle, di conchiglie
nate all’ombra del polso.
Le teste non si piegano,
i colli come tubi
hanno smesso di stridere al tramonto
in un piccolo bosco di persone
strette a una tana di civetta. Tutti
porgono il mento all’aglio e al vino.
Tutti
sgorgano a tempo.
Sotto la guancia di un bambino il mare
è morto a fine agosto. Sotto
la caviglia nervosa di una vecchia
troppo remota al fiotto della lana,
che alza lo sguardo verso il cielo come
se cadesse una palla.
Sotto tre gelidi silenzi alti
come bagnini nerboruti. Il mare
si ritrae dal suo sasso.
Sballottato da venti di regalo,
trascinato alla raffica, sepolto
da sua stessa vertigine. Verranno
altre rinascite,
culle piene di paglia,
buoi dalla lingua come cani, nuovi
colpi di zappa.
Verranno sedie fitte nella luna,
pelli rosse di vespe, pelli tese
tra zanzara ed incudine. Da quando
il mare tornerà a gridare
come un ragazzo dei giornali, come
una bocca d’uccello, come un topo
dalla zampa divisa, come un nido
rovesciato dal vischio.
UNA GOCCIA DEL CUORE DEL TOPO
Una goccia del cuore del topo. Una goccia
come cento altre gocce. Buco
ficcato in polvere vermiglia,
sangue, lancio di scheggia,
pioggia lieve
su frazioni di capsula, canzone
svociata in pezzi di campane, lame
dentro la pietra.
Fra stinchi e soffi di rovina, giace
ciò che resta del topo: un occhio nero
come quello di un pugile, una coda
simile al dito di un guerriero, un duro
getto di calce.
Il topo unto nel veleno, il topo
essiccato dall’urlo,
beatificato nella colla, zampa
e demonio, avvolge tutto questo
in minuscolo lutto.
Pure, c’è chi si sporge sulla terra
per vederlo morire, chi stropiccia
la sua crosta di sangue fra le dita.
C’è chi posa la mano sulla tenue
brevità del suo sonno, chi lo addita
tra cipresso e letargo.
domenica 24 ottobre 2010
Boston: dai vetri di un decimo piano
Boston, dalle finestre della casa che mi ospita, dall'alba al tramonto.
Un giorno prima del rapido tornado del 14 ottobre, nell'edificio dove abito, undici piani con pareti parzialmente a vetrate, avevano deciso la pulizia esterna delle finestre.
L'anno scorso, nello stesso periodo dell'anno, mi ero trovata in una circostanza simile e, di mattina, con grande sorpresa (perché non avevo letto l'avviso) avevo visto calare dall'alto, con secchio e spazzole, gli uomini specializzati in quel genere di pulizia, una sorta di funamboli, una vita appesa alle corde. Quest'anno, mi sono fatta trovare con le tende tirate, così da catturare dall'interno il rapido passaggio delle loro ombre.
L'ho poi incontrato a piano terra quello che era scivolato davanti alle mie finestre: i muscoli tesi sulle braccia, simili alle spesse corde che porta su un carrello, arrotolate nei secchi come sepenti addormentati, e una imprevedibile coda di cavallo che avevo intravisto e che squilla ora nell'altrio del palazzo come segnale di riconoscimento. Sul viso ancora meno prevedibili spessi occhiali. Così ho pensato che il buon equilibrio, l'assenza di vertigini, necessari a svolgere quel lavoro, potrebbero paradossalemente derivare in lui da una cattiva vista.
Un giorno prima del rapido tornado del 14 ottobre, nell'edificio dove abito, undici piani con pareti parzialmente a vetrate, avevano deciso la pulizia esterna delle finestre.
L'anno scorso, nello stesso periodo dell'anno, mi ero trovata in una circostanza simile e, di mattina, con grande sorpresa (perché non avevo letto l'avviso) avevo visto calare dall'alto, con secchio e spazzole, gli uomini specializzati in quel genere di pulizia, una sorta di funamboli, una vita appesa alle corde. Quest'anno, mi sono fatta trovare con le tende tirate, così da catturare dall'interno il rapido passaggio delle loro ombre.
L'ho poi incontrato a piano terra quello che era scivolato davanti alle mie finestre: i muscoli tesi sulle braccia, simili alle spesse corde che porta su un carrello, arrotolate nei secchi come sepenti addormentati, e una imprevedibile coda di cavallo che avevo intravisto e che squilla ora nell'altrio del palazzo come segnale di riconoscimento. Sul viso ancora meno prevedibili spessi occhiali. Così ho pensato che il buon equilibrio, l'assenza di vertigini, necessari a svolgere quel lavoro, potrebbero paradossalemente derivare in lui da una cattiva vista.
Boston Book Festival – Copley
Il pittore Copley, dal suo piedistallo di bronzo, la tavolozza di una mano, osserva la folla variopinta che riempie il grande spazio, il giardino ancora fiorito, su cui si affacciano due chiese e la monumentale Biblioteca Pubblica, dove per ottenere il prestito occorre essere residenti, ma per sedersi nella grande sala a leggere i propri libri o lavorare al computer non è necessaria alcuna formalità.
Boston Book Festival - Ritmi e consuetudini dell'autunno in Massachusset
Sabato, 16 ottobre, su Copley Square, per l'annuale Boston Book Festival. Il giorno precedente una tempesta con vento dell'intensità di un tornado, alberi spezzati e sradicati, allagamenti. L'anno precedente, nella stessa data, un fenomeno meteorologico simile, eppure ancora per quest'anno si parla di un episodio eccezionale, di un repentino sbalzo di pressione che ha prodotto una vera "bomba"atmosferica. Il giorno dopo un'aria luminosa e pungente, una folla festosa sulla piazza che porta il nome di un noto ritrattista e paesaggista del settecento, Copley appunto, per l'annuale festival del libro, che vede la presentazione di autori anche di fama internazionale. L' organizzatrice della giornata, costante a dispetto della crisi, è Deborah Porter
mercoledì 13 ottobre 2010
Ricevo a Boston da Biagio Propato per Giulia Perroni
Giulia Perroni Lo scoiattolo e l’ermellino Edizioni Del Leone 2009
UN POEMA INFINITO E SEMPRE AL SUO INIZIO
“ Inizierò non da qui, ma da lontano,
inizierò dalla fine, che è anche l’inizio.
Il mondo era il mondo. E questo significava
tutto ciò che volete in questo mondo.”
Come la poetessa russa Bella Achmadùlina, comincia la sua poesia “ In memoria di Boris Pasternack”, iniziando dalla fine, cosi anche noi inizieremo con una lettura “ A rebours”, dell’opera precipua di Giulia Perroni. Viaggio Totale, senza fine, che investe tutto l’esperibile dai sensi e va oltre, denudandosi del suo carico, simile al leggero e pesante rimbaudiano battello, per cercare il porto, la meta, un Ararat sulle cui cime posare la chiglia per contemplare i rigurgiti dei marosi, ormai lontani, dopo il diluvio, dopo la divina catartica tempesta. L’arca su cui naviga la poetessa non teme scogli, bufere, s’inerpica sino alle altezze e scende sino agli abissi, lasciandosi trascinare senza opporre resistenza, anzi, cercando di accogliere ogni cosa in sé, in un mistico afflato tantrico, in un abbraccio berniniano. A volte, il timoniere abbandona per un lasso il suo timone e guarda il legno cavo scorrere tra le correnti, verso un dove ignoto, tutto da vedere.
“ Guarderò la polvere nei tuoi occhi
per vedervi chiara la vita
e come l’estasi del viaggio
possa frantumare l’attesa
e come non siamo portati a comprendere
che il mistero è una vita più grande
quando in punta di piedi
per l’iniziativa del maestro
si raccapriccia il sondaggio
delle nuvole basse
della corona.”
Agile come uno scoiattolo e innocente e puro come un ermellino, il pensiero smette di pensare e ritorna alle origini, al Giardino, mai perduto interamente, per poi ripartire, in una sorta di viatico interminabile, che reca in sé il germe dell’eterno divenire, sia pur affondando, naufragando, morendo ogni giorno, ogni istante, ma risorgendo sempre.
Quando parliamo della novità, e ci lamentiamo per la sua assenza, dovremmo invece estinguere la pigrizia che ci costringe a non vedere ciò che accade dentro e intorno, per accorgerci subito che tutto è sempre in moto, nuovo.
Novità aggiunge al vecchio preesistente, questa opera potente, onnicomprensiva di Giulia Perroni, che cerca in modo strenuo la bellezza… e la trova.
“Solo la bellezza eguaglia i campi di viole
quando le punte si affidano ai miraggi
e come una domanda il paradiso si allarga
nel deserto che neanche il questurino
riesce a dimenticare.”
Che cerca in modo instancabile Poesia… e la trova, ma deve continuamente ricercare, per ritrovare.
“ La poesia
è una proposta di sangue
sotto al gelso abitudinario,
per sette corone
ha devastato l’istante
e le ho detto resisti
anima della luna.”
Il flusso di coscienza è irrefrenabile, spinge ogni natura dell’autrice a completarsi nella totalità e si ferma solo per riprendere fiato, abbeverandosi alle fonti primigenie, da dove l’umano è scaturito, discende.
Inizio è fine coincidono, come in un ciclo entropico, hegeliano, eliotiano. Sembra che il frutto proibito, anche se staccato, mangiato e digerito, non sia stato mai veramente colto, sembra non vi sia bisogno di un’Apokatàstasis panthon, poiché l’innocenza originaria permane, e se il male imperversa , funesto, elefantiaco e devastante, è solo per una tantrica assenza di bene, per una agostiniana “Privatio boni.”
“Se l’origine è l’Eden
da quel giardino non ci siamo mai mossi
tutto ciò che di vero e di bello
spasima e canta
è frutto della sua ombra deliziosa e da quell’ombra il fianco non s’è scucito
guarda con stupore il male
e dice questo certo non mi appartiene
il lupo malvagio non mi prenderà.
L’agilità e la velocità dello Scoiattolo, simbolo dell’esperienza, come la Tigre, per William Blake ne “ I canti dell’esperienza”, fa compiere a Giulia Perroni un andare a ritroso, per riportarla al Giardino incontaminato, dove ritrova l’ermellino, con la sua mitezza, con la sua innata purezza, simbolo dell’innocenza, come l’Agnello per William Blake, ne “ I canti dell’innocenza”, come se nulla nel mondo fosse avvenuto, cambiato. L’Eva primèva si ricongiunge al suo ambiente e continua a generare frutti di umanità. Si legge, nella prima poesia biblica, per voce di Enàsh, Adamo, in Genesi 2, versetto 23 :
“ Questa è finalmente osso delle
mie ossa
E’ carne della mia carne.
Questa sarà chiamata Donna,
perché dall’ uomo questa è stata tratta.”
Giulia Perroni ribalta totalmente questa visione maschiocentrica, invertendo i ruoli, e la prerogativa di chi è fonte generatrice di vita, con questi versi gnomici, apodittici, che non lasciano spazi a confutazioni, tale è la decisione e la certezza, l’energia intensa con cui sono stati pensati, pronunciati, cantati, danzati, dipinti, scolpiti, incisi, e scritti.
“ E l’inizio fu donna
fu maestrale
dalla donna si genera la donna
dall’uomo non può sorgere nessuno
nemmeno la tempesta.
Il libro, diviso in undici movimenti, è un affresco in continuo sviluppo, differente, a volte, per stilemi, tematiche, lessico e visioni combinatorie, dai cinque o sei precedenti volumi, che aggiunge e sottrae, sovrappone rimembranze, nel suo farsi opera totale, che vuole non essere mai Hortus Conclus, Conventio ad excludentur, ma un Segno sempre aperto agli altri. Luoghi, persone, personaggi, antenati, fiori, piante, odori e colori isolani, storia e fiaba, si intrecciano in un connubio indissolubile, in cui tutto è sempre sospeso e sotteso da un Rùach invisibile, che continua ad alitare: permanente, immanente, trascendente, immantinente, imminente.
La hishshàh, La DONNA edenica, Generatrice e Conservatrice della Specie, assume un ruolo portante, riproponendo una lettura della storia, al femminile, facendo tutto dalla sua creatività discendere”, mentre “la teologia è maschio”, è il continuo ritornello connettivo che vuole denunciare l’ingiustizia e lo squilibrio dei ruoli nella storia.
L’autrice de “ Lo scoiattolo e l’ermellino”, si ribella a tutto ciò, dal profondo della sua consapevolezza, cerca di ripristinare la verità, contro la realtà schiacciante e opprimente, che vede la supremazia dell’uomo-maschio sui simili, sugli elementi e sulle cose.
Non è una ribellione femminista, ma una rivolta dell’anima contro l’Animus, dello Ying contro lo Yang, tesa a stabilire equilibri, armonie, eludendo alla fine, e superando la dicotomia dei sessi con una gnosi ossimorica, con lo Spirito, che non ha sesso, ma solo ali per volare e dissolvere le diatribe e le opposizioni consumate perennemente negli oscuri, fangosi e puzzolenti ipogei della storia personale e sociale.
“Lo scoiattolo e l’Ermellino", è il frutto e il compimento del primo volume “ La libertà negata”.
L’iniziazione alla poesia, il meticoloso apprendistato, l’auscultazione continua, hanno forgiato l’esperienza di Giulia Perroni facendole acquistare conoscenza e sapienza. Ella, come Rut ha saputo rinunciare ai suoi idoli, ai suoi meticci, come Naomi, ha saputo accogliere l’altro e continuando a spigolare nei campi di grano di Boaz, ha conosciuto le virtù della donna. Ha urlato il suo amore, taciuto il suo odio, seguendo l’ispirazione di Saffo, delle sorelle Bronte, di Emily Dickinson, di Jane Austen, di Virginia Woolf, di Marceline Desbordes Valmore, di Giorgina Rossetti, di K. Mansfield Beauchamp, di Edith Sitwell, di Anna Achmàtova, di Irina Cvetaeva, di Cristina Campo, di Atonia Pozzi, di Amelia Rosselli, di Marcia Theophilo, Lucianna Argentino e tante tante altre singolari nobili voci, che continuano a sussurrare in questo piccolo Rione dell’universo, che è la terra, il loro esserci state, il loro esserci.
Ma chi può veramente dire che tutto è compiuto? Il Gran Poema di Giulia, incede, sa che deve arrotolare con sé tutto ciò che ancora gli è ancòra ignoto , affinché ogni cosa ritorni al punto iniziale, come il salmone che affronta rapide controcorrente e morsi di orsi, per ritrovare il luogo di nascita: deporre le uova. Perire. Quindi il Viaggio. In altro. Eterno. Continuare…
“ Il ripetersi muta
il rito dell’acque ha una pace
di sovrumano silenzio
il piede d’alabastro
una meta per il ritorno
l’inizio folgorante del sempre.
Mi inoltro
il cammino è lucido di anemoni
la sospensione dura come un ricordo
ho più fiaccole al grido
che non questa sera struggente:
nel viola depongo le rose
vesti allucinate per il ritorno.
Avrò paura d’essermi avventurata lì dove l’acqua muta?
Il gorgoglio cammina fino a notte nel misurato senno
ma chi amando il silenzio si sarà fatta oscura
avrà rose a settembre? “
Biagio Propato
martedì 28 settembre 2010
Lungo il Tevere di Roma
Gli abitanti degli argini. Al mattino quando scendo al fiume per la passeggiata sono ancora sulla scala opposta, dove su cartoni e stracci, in una mezza dozzina almeno, hanno trascorso la notte. Non li invado col mio sguardo, non li vedo quasi, ma tra loro c'è un giovane rossiccio, rossa la pelle del viso, occhi chiarissimi, quando è sveglio. E' lui a salutarmi per primo, con accento straniero. Più spesso lo vedo rincantucciato sotto le coperte, accanto una bottiglia vuota.
Subito dopo, sotto il ponte Duca d'Aosta trovi altri tre "letti" già disfatti. Seduti su uno sgabellino pieghevole due hanno gettato l'amo e aspettano che il pesce abbocchi. Chi mangerà quel pesce? In questo tratto il fiume è più facile tirare su bottiglie di plastica e stracci. Le anatre ci sguazzano volentieri perché tra le piante acquatiche sicuramente trovano pasto abbondante. Le cornacchie invece restano a terra e se ti avvicini saltellano via goffamente a zampe pari. I passeri con discrezione indagano la presenza d'insetti tra le foglie. Qualche volo di piccioni scende talvolta con turistica curiosità. Ieri un cormorano piluccava un pesce sulla banchina. Pochi invece, in queste mattinate, i gabbiani.
Più avanti incontro altri stranieri. Sono al lavoro per smontare le tende e le baracche dell'Estate romana. L'aria è mite, il sole cerca di farsi spazio nella foschìa, segnale che più tardi esploderà in un cielo limpidissimo. Lavorano che lentezza, per terra rimangono residui delle costruzioni smontate, nastri di metallo e chiodi.
Sull'acqua nei giorni feriali c'è poco traffico. Due piccoli battelli di linea che partono sempre semivuoti e poche canoe, dove i rematori si addestrano sotto l'imperativo gridato da un istruttore che viaggia a ridosso, pressante, su una barca a motore.
Sull'acqua c'è anche chi abita: una casa a due piani, vasi con piante di limoni, due scialuppe ormeggiate, biciclette e motorini parcheggiati. Invece di porte chiuse a chiave hanno un piccolo ponte levatoio. Un giorno li ho visti partire in due sulla moto, padre e figlio, un ragazzino di circa sei anni. Ho pensato che chi vive lungo il fiume dovrebbe fare a meno dei motori a benzina.
Una mattina ho incontrato gli spazzini. Lavoro molto sommario, come sempre. Si lamentano di essere solo in otto per tutta la lunghezza degli argini. In verità si muovono molto rilassati. Quella degli spazzini è una categoria strana. Ricordo quando ancora erano degli ometti quasi invisibili, legati ai loro carretti come un prigioniero ai suoi ferri. Ora, all'estremo opposto, sono ragazze longilinee truccatissime, giovani del fisico atletico e, da come si muovono, sembrano dire che quel lavoro lo stanno facendo, ma non è il loro lavoro. Passano svogliatamente con i mezzi acquistati ex novo dalla municipalità recentemente insediatasi, e metà dello sporco rimane al suolo.
Una domenica siamo arrivati dove la città quasi scompare e sembra di non riuscire a riconoscere Roma. Sull'acqua scivolavano poche canoe, ma lungo gli argini, nessuno. Poi sono comparse le due mandibole del nuovo ponte, due archi a spingersi l'uno verso l'altro. Senti il rumore dei lavori solo se tendi l'orecchio.
Queste note si riferiscono alla riva destra del Tevere che percorro, a giorni, anche in direzione della foce, ma, fino ad oggi, solo fino al ponte dell'Isola, dove una scala più comoda si apre verso il fiume, rivelando tra la terra e l'acqua una consuetudine antica.
sabato 18 settembre 2010
Roberto Piperno – Esseri – Edizioni dell'Istituto di Cultura di Napoli 2010
Quanto più avanzo verso la fine aborrita / tanto più gli altri non sono creature sparse / […] ma il segno della mia stessa esistenza / del suo limite reale di nascita e di morte / parte stessa della mia persona / misura di essere me stesso in libertà.
Questa strofe della poesia Comunicazione, parte dalla prima persona per riflettersi immediatamente non nell'Altro, ontologico e astratto, inattingibile, ma in una pluralità di altri, per ritornare poi a un "me stesso", che quella pluralità ha fecondato. C'è un'esistenza che vuole trovare la sua voce, il suo significato, e additarlo senza usare toni comiziali, solo pronunciando l'evidenza, un uomo che ha capito che giustizia è, il rifiuto di una società composta / da una sola testa assunta a direzione, e inversamente i vincitori che uscendo allo scoperto / si sono impadroniti di territori / dove imporre la legge / del più forte, sono la personificazione dell'ingiustizia.
Una poesia civile, certo, ma a chiusura di libro quante cose sappiamo anche della vita quotidina del poeta. Il mattino, al risveglio, è l'ora del giorno con più frequenza evocata. Il letto è un grande protagonista in questo libro: "letto" è una delle parole che ricorrono con maggiore frequenza, luogo dove restare rincattucciato, nascosto sotto le lenzuola, tra la veglia e il sonno, perché antichi nemici che non avevano colpe da imputare, ma solo un nome o un numero, non vengano a portarlo via. Ma il mattino è anche il chiasso dell'AMA che viene a ritirare i rifiuti, il trillo della sveglia che incita la sua donna ad alzarsi, la cucina che lo accoglie per gesti rituali della colazione: Ora mi nutre di sostanza il miele / con la noce matura che schiaccio / rientrando in cucina dopo una notte spesa / in minuscoli ragni di silenziose attese. Nelle altre stanze della casa, i testi delle antiche preghiere, e libri, scaffalature di libri, anche libri appoggiati in pile, di cui forse liberarsi per fare spazio, il battere di una pendola che chissà da quanto tempo sa attendere la sua ritmica settimanale ricarica.
Ma importante è vincere la paura di non essere accettato, e spingersi fuori a cercare occasioni e incontri. Con educazione fare tutto il proprio dovere, senza pensare che il mondo, o Dio, chieda altro che essere sé stesso, senza spingersi verso destini eroici, al confronto con Mosè: essere fino in fondo/ Siussi / solo Siussi. Fuori c'è la città, una Roma che affaccia su viale Trastevere. C'è il fiume, una tragedia sfiorata e regredita per la spontanea umanità e tenerezza di una passante, c'è il commercio e il chiasso a cui questa poesia ha messo la sordina.
Il sentimento posto in maggiore evidenza è una paura esistenziale che solo in parte deriva da un'infanzia che ha conosciuto la persecuzione, il ricorso a variazione di nome, per non farsi riconoscere come ebreo. La poesia Paure distingue tra paura sociale, paura del terrorismo, ma infine dà il maggiore risalto a quella paura che occorre vincere ogni mattina, per poter riprendere a vivere nel consorzio degli uomini: La paura personale è l'altro volto/ di quotidianità più circospette / si spalma con la sveglia del mattino / nella mezzora di attesa dentro il letto / che ancora protegge dai riscontri / di costanti scelte senza speranze […] e da errori senza più rimedio. L'altro sentimento è l'amore verso la sua donna, a cui sono dedicate per intero due belle poesie,che rendono il ritratto di una personalità forte, osservata con tenerezza e ammirazione. Un rapporto, quello con la donna, che la coppia di sostantivi rispetto e passione ben definisce, anche quando sono riferiti al sentimento che il poeta sente, reciprocamente, di suscitare.
Queste poesie, collocate sulla pagina con grafiche variazioni di metro, sono scritte in uno stile molto vicino alla prosa, il lessico è essenziale e dignità, pari in tutto, hanno gli oggetti della quotidianità domestica e tecnologica. Poco spazio davvero è concesso all'effusione lirica, all'autocompiacimento e al pianto, come si addice alla virile affermazione che il destino di solitudine, nei due momenti che scandiscono l'inizio e la fine della vita, è condiviso da ogni vivente.
PIERA MATTEI
Nella foto Roberto Piperno e Piera Mattei,estate 2010, all'Isola dei poeti, di cui Piperno è uno degli organizzatori,con Bettini e Farina.
domenica 5 settembre 2010
Laura Rainieri – Angelo pazzo e altri racconti – Ex cogita editore 2007
Vorrei cominciare, parlando di questo libro, dal piacere che la lettura me ne ha dato. L'ho letto più volte, trovando ogni volta il sapore del giusto ritmo, dell'intelligenza narrativa.
Non sto parlando del libro perfetto – non so neppure se esista – ma di un libro dal quale parla una voce originale, che si fa ascoltare con attenzione, spesso con ammirata meraviglia.
I personaggi, i temi, i luoghi sono variati ma mai discordi. Non è difficile intessere, tra i vari racconti, raccordi e rimandi, alcuni proposti dall'autore. Fondamentale quello che si riferisce al nome Marta, già presente nella precedente raccolta, alter-ego di chi tiene in mano le fila del racconto, strumento ottimo, sul piano della resa, per creare distanza, soprattutto quando il tono potrebbe scivolare verso il melò. Vedi il primo racconto, Clelia, primo anche cronologicamente, mi rivela l'autrice, che si chiude sul rimpianto per la fine tragica di un'amica d'infanzia ricca e bella.
La posizione subalterna di Marta rispetto alle persone di bell'apparenza, soprattutto se longilinee e bionde, è un tratto che serpeggia nel libro, con ingenuo pregiudizio dei personaggi verso certi archetipi, per cui biondi sono gli angeli, e le madonne e i Cristi, ma anche le regine e le principesse. Quest'atteggiamento è alla base del racconto L'ultimo guancho, che dà il titolo alla raccolta precedente dove la protagonista proietta su un piccolo ristoratore canario la personalità di Glenn Gould, per la complessione chiara del volto e delle mani, per una questione di pelle, quindi, non certo per una disposizione eccezionale all'esecuzione pianistica, di cui nel racconto non v'è cenno. Racconto che ci dice forse anche qualcos'altro: che non ci innamoriamo di chi ci sta di fronte, ma di un fantasma che passa rapido con una carezza sfuggente. Ci innamoriamo di fantasmi, del riflesso di noi stessi colto nello specchio di fronte, come racconta la parte iniziale ed essenziale di Fiorediloto.
Ma, lasciando da parte Marta, veniamo a un'altra proiezione in un personaggio alla terza persona. Il racconto s'intitola Nibelungenstrasse, e racconta di una donna che raggiunge in Germania, dove lui vive e lavora, il figlio ricoverato in ospedale per una malattia che lo spossa ma difficile da diagnosticare. La protagonista, esibendo le sue predilezioni culturali, non lascia di sottolineare che è stata lei a inculcare nel figlio l'amore per quel paese, che quell'amore lui l'ha poi stravolto, sviandolo dalla cultura, dai libri e dalla musica, per rivolgerlo a potenti marche automobilistiche. Eterogenesi dei fini di un'educazione, che getta un raggio di autoironia sul personaggio. Che qui, come del resto dovunque in Laura Rainieri, è un personaggio alla terza persona, ma non ha questa volta un nome proprio ma un nome di ruolo, monumentale direi: Madre, con la emme maiuscola. Questo permette il distacco narrativo che è essenziale a questa scrittura e fa giocare l'ironia e l'autoironia con la partecipazione palpitante, senza scadere nella retorica o negli esiti buffi che caratterizzano, nei racconti a lieto fine, quindi, secondo i canoni antichi, nella commedia, la descrizione dei rapporti affettivi tra madre e figlio maschio adulto. In realtà – e lo rivela, all'avvicinarsi della protagonista all'ospedale, la lenta decrittazione di quel nome "Krankenhaus" dalla lingua straniera – il figlio è, soprattutto un amato estraneo, per cui ogni ipotesi di malattia, anche quella per definizione impronunciabile, è possibile, ma, fatto ancora più grave, non è più lecito a lei, ormai, fare al figlio quelle domande che potrebbero rassicurarla. Nello sfondo del rapporto tra Madre e figlio due personaggi grotteschi, due anziani malati cronici, legati alla loro malattia e ai loro vizi, fastidiosi nel loro chiacchiericcio, per la Madre solo rumore di fondo, per il figlio scambio di vuote battute "cose rozze e semplici, non si sanno tenere è una cascata continua".
La rozzezza che confina con la brutalità, la bizzarria che confina con la stoltezza, qui nello sfondo, diventa tratto protagonista nel già citato Fortunato Soldi, in La Rossa e, almeno nella parte iniziale di Angelo Pazzo, cioè i racconti che fanno riferimento a personaggi di un non identificato paese della Bassa padana. Un realismo che dilatando lo sguardo spietato sfocia in un espressionismo che squarcia sorrisi, dilata addomi mette in risalto gambe senza caviglie e gonfie di vene, groszianamente, direi, ma qui non siamo tra la crassa borghesia tedesca, qui siamo tra contadini e paesani, fittavoli e vinai nell'Emilia anni '50-'60.
La voce che racconta si sta facendo interprete della voce di un piccolo paese, creando, senza sentirne il peso o la responsabilità dirette, miti negativi, favole crudeli.
Personaggi da Amarcord. Ma, secondo una logica localistica, che oggi sembra dappertutto avere la meglio, la Rimini di Fellini è all'altro estremo della via Emilia rispetto alla Bassa di cui qui si tratta, quindi un mondo diverso? Fellini diceva di se stesso "un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo". La forma, l'amore per la forma. Certo: qualcosa realmente era esistito del mondo che Fellini ricordava ovvero lui, nel ricordo l'aveva inventato, per lasciarcelo incorruttibile, talmente perfetto da diventare topos, inciso tra gli archetipi culturali? Stessa domanda, con i dovuti distinguo, per questo mondo rievocato dalla Rainieri. Anche qui un mondo libero e strampalato, una volontà di vivere la vita con pienezza e prepotenza: sesso, cibo e – marginale invece in Fellini – un grande appetito di denaro.
Rimane in questi racconti paesani, inesplicabile sul piano narrativo, qualche incrostazione di antichi livori, di cui l'autrice sembra considerare secondaria la consapevolezza, come quel sottotitolo di "il comunista" per Fortunato Soldi, epiteto spiegato poco e, direi, malvolentieri. Quest'uomo non fa mai niente di "comunista" mentre è evidente il fatto che ci troviamo di fronte a un individuo ripugnante, dedito solo all'acquisto e non redimibile, secondo un rigido presupposto deterministico : "Ognuno nasce con la sua pelle che mantiene coriacea per tutta la vita. Ogni cambiamento è fluttuante come piegolina d'organza." Questa idea che ognuno è ciò che è una volta per tutte, che presuppone anche si sappia chi si è e chi sono gli "altri", come è la gente da questa o da quella parte della nazione o del mondo, mi pare sottinteso in tutti i racconti di Laura Rainieri e sul piano narrativo fa giustizia di remore e dubbi conferendo al tempo stesso la massima forza alle sue caratterizzazioni.
L'autrice guarda a questi personaggi con riprovazione ma finisce per farne, nel loro genere, delle creature perfette. Soprattutto la Rossa ha un suo incrollabile "progetto di vita", un arrivismo che – lo ignora certo il personaggio tutto istinto – ha finezze machiavelliche: da quella che definirei economia della morte, cioè profittare dei morti per conquistare nuovi spazi, all' "infilarsi negli interstizi", con la malignità, con la chiacchiera. Quella capacità che fa, in ambiti più vasti, la fortuna dei politici. Dante non avrebbe saputo in quale girone dell'inferno situarla questa Rossa, talmente la sua perversione è polimorfa, Laura sembra divertircisi un mondo. In particolare il trattamento lunghissimo e, a suo modo, raffinato, che la Rossa riserva ai corpi maschili mi sembra metafora di quanto lei riserva alla lingua, perché la lingua è per lei non solo strumento di comunicazione ma anche gioco, divertimento, acrobazia da circo. Laura non solo s'identifica con la voce di un intero paese che racconta il personaggio ma raggiunge una sapienza ventriloqua della lingua, perché quanto scrive, la sua incisiva crudeltà sembra spesso uscire da lei, non dico senza che lei ne abbia piena consapevolezza, ma certamente al di là delle intenzioni.
Temo non si riconoscerebbe in una mentalità che, come a me sembra invece evidente, guarda alla coppia uomo-donna, moglie-marito con grande pessimismo. Marito è il vecchio Ninnolo, un fabbro nientemeno che di fattezze minute, che la Rossa vezzeggia sulle ginocchia, prima, e fa morire, sembra, di sete, poi. Ben presto delusa, maltrattata e abbrutita è Imelda, la irretita moglie di Fortunato. Il matrimonio è, nella chiusa di Fiorediloto "male minore" per non affogare nel mare di solitudine di sperse periferie; è delusione e tradimento in Clelia. Se di sesso, molto e con bravura si parla, per l'amore pare non ci sia posto. Amore è solo quanto può essere intravisto nel riflesso di uno specchio e si piange l'allontanamento non di una persona, ma di ciò che si è visto. L'unico sentimento autentico sembra l'amicizia tra donne, rapporto che Marta, personaggio di cui si è già parlato, vive nella posizione di osservatrice incantata della più piena femminilità dell'altra (Clelia, Fiorediloto), non senza esiti di amara rivincita finale.
Un'altra voce c'è in questi racconti, che rimane interna e celata dentro la storia. Racconta soprattutto l'ambivalente passione per luoghi estremi, che hanno solo indirette indicazioni geografiche, in realtà, sono luoghi simbolici dove l'ambiente circostante è ridotto alla sua essenza. Sto parlando di Callura e di Circolo polare artico. Il primo racconto, che da indizi diversi, dovrebbe svolgersi in Spagna, ha un inizio solare, luminoso. La luce ha, nel suo significato più usuale e fondamentale, un valore positivo, ma rapidamente quella valenza si tramuta nel suo contrario. Presto è chiaro che ci troviamo in un giallo in cui il killer da cui occorre difendersi è misterioso e onnipresente, come la luce del sole e il calore che produce. La narrazione scivola impercettibilmente dalla contentezza della protagonista per aver raggiunto una nuova meta, dalla quale si riprometteva svago e divertimento, alla comprensione del vero significato del nome del paese, che difatti non aveva mentito sulla sua identità. Metafora che racconta il potere sottovalutato del nome, la distrazione che ci fa trascurare i segnali che dovrebbero metterci all'erta. Callura come demonio, il mostro da cui fuggire si presenta col suo vero nome, inalberando l'unico consiglio possibile (dove si vive solo di notte), il cui assoluto significato viene frainteso. Solo una grande capacità di resistenza, brillantemente narrata, permette la sopravvivenza nel caldo davvero infernale e quindi la fuga.
Più complesso l'altro racconto, dove riecheggiano l'episodio biblico di Giona e Melville nel mistero aspro dell'Oceano, al nord. Un racconto che deve essere lieve come la neve, ma come tutti sanno, se la neve non si scioglie, se il gelo la tramuta in ghiaccio, niente è più pesante di quella sostanza che prima appariva leggera. Niente è più estremo del paesaggio e del clima al Polo Nord. Deduciamo da diversi segnali, tra cui la citazione della corrente Malestom, di trovarci in Norvegia, paese dei fiordi, ma qui mai si fa riferimento a quel paese. Si parla solo della natura, come se la protagonista vi si trovasse da sola. Da sola, lei con le montagne, le isole e il mare. Un viaggio in barca di notte. La barca, come il Pequod è di modeste dimensioni, ma non ci sono né il capitano Achab né il resto della ciurma. Con il sole che sfiora l'orizzonte ci sono le orche intorno che fanno paura, senza forse volere fare paura (visto che forse si tratta di un viaggio organizzato per incontrare la fauna marina, e chi conduce la barca sa a che distanza tenersi) e loro del resto, le orche, si allontanano a due a due per le loro dolcezze notturne. Ma orca richiama Orco, come nelle fiabe fa paura e "noi abbiamo infranto". Così scrive senza complemento oggetto, alludendo forse a un divieto di potenze superiori, forse solo come reminiscenza letteraria della crudeltà di Moby Dik. Il divieto potrebbe alludere anche a quello di non invadere il territorio dei grandi cetacei, che in Norvegia sono stati cacciati per secoli? Di questo non si fa cenno, nessuna identità politica o sociale del luogo interferisce qui con la riverenza, la paura, la meraviglia, il senso di colpa, sentimenti assoluti che nascono dalla protagonista e sulla protagonista ricadono. Vietata ogni possibile uscita da sé. All'avvicinarsi di un'orca, Marta s'inginocchia nella barca: è certamente in presenza di Moby Dik, non pensa ai diritti infranti dei grandi cetacei.
Torna qui la passione per la comparazione tra luoghi e atteggiamenti , postulati diversi o addirittura opposti. Al circolo polare artico bisogna dimenticare il laghetto Mediterraneo, le coste lambite dalle calde acque, la macchia verde, la dolce scogliera per il sole e l'amore. La passione per i paesi con clima opposto a quello del Mediterraneo, cose che solo a pensarle mettono in corpo frenesia e timore sono all'origine di questa avventura che Marta compie proprio per amore di assaggiare e configurare l'opposto, espresso nell'idea dello scambio di casa. Poi avviene il fatto inimmaginabile. Il mare in una eccezionale burrasca si porta via porti e aeroporti. Marta deve imparare a vivere, per sempre, nel freddo, trasformarsi dalla persona che guarda il diverso, con senso di curiosità e di avventura, a chi deve pensare a sopravvivere nelle condizioni che la natura attorno le concede, adattamento che in Callura riguardava lo spazio di un solo, anche se terribile, giorno.
Amore per la metafora e per la trasfigurazione fantastica di canonici intrecci di relazioni ed emozioni, quali i rapporti tra fratelli di fronte alla morte della madre e all'eredità che lei lascia, si configura infine in I draghi.
Rende la lettura di questi racconti così godibile una lingua fresca, una mente libera, – anche quando invece riferisce di un mondo di grande chiusura. Ma a quel mondo, mentre lo schernisce, è legata l'autrice, perdutamente in contraddizione.
Curiosità, amore e metabolizzazione della cultura, anche quando echi classici ricadono sulla pagina, nell'uso del linguaggio giovanile o goliardico (c'è ad esempio un "pietosa insania", mutuato dal Foscolo, a commento della gelosia della giovane sfortunata moglie per Fortunato Soldi). La scrittura e la lingua di Laura Rainieri fa tesoro di tutto e lo rigenera in racconti che si scolpiscono nella memoria.
Piera Mattei
Non sto parlando del libro perfetto – non so neppure se esista – ma di un libro dal quale parla una voce originale, che si fa ascoltare con attenzione, spesso con ammirata meraviglia.
I personaggi, i temi, i luoghi sono variati ma mai discordi. Non è difficile intessere, tra i vari racconti, raccordi e rimandi, alcuni proposti dall'autore. Fondamentale quello che si riferisce al nome Marta, già presente nella precedente raccolta, alter-ego di chi tiene in mano le fila del racconto, strumento ottimo, sul piano della resa, per creare distanza, soprattutto quando il tono potrebbe scivolare verso il melò. Vedi il primo racconto, Clelia, primo anche cronologicamente, mi rivela l'autrice, che si chiude sul rimpianto per la fine tragica di un'amica d'infanzia ricca e bella.
La posizione subalterna di Marta rispetto alle persone di bell'apparenza, soprattutto se longilinee e bionde, è un tratto che serpeggia nel libro, con ingenuo pregiudizio dei personaggi verso certi archetipi, per cui biondi sono gli angeli, e le madonne e i Cristi, ma anche le regine e le principesse. Quest'atteggiamento è alla base del racconto L'ultimo guancho, che dà il titolo alla raccolta precedente dove la protagonista proietta su un piccolo ristoratore canario la personalità di Glenn Gould, per la complessione chiara del volto e delle mani, per una questione di pelle, quindi, non certo per una disposizione eccezionale all'esecuzione pianistica, di cui nel racconto non v'è cenno. Racconto che ci dice forse anche qualcos'altro: che non ci innamoriamo di chi ci sta di fronte, ma di un fantasma che passa rapido con una carezza sfuggente. Ci innamoriamo di fantasmi, del riflesso di noi stessi colto nello specchio di fronte, come racconta la parte iniziale ed essenziale di Fiorediloto.
Ma, lasciando da parte Marta, veniamo a un'altra proiezione in un personaggio alla terza persona. Il racconto s'intitola Nibelungenstrasse, e racconta di una donna che raggiunge in Germania, dove lui vive e lavora, il figlio ricoverato in ospedale per una malattia che lo spossa ma difficile da diagnosticare. La protagonista, esibendo le sue predilezioni culturali, non lascia di sottolineare che è stata lei a inculcare nel figlio l'amore per quel paese, che quell'amore lui l'ha poi stravolto, sviandolo dalla cultura, dai libri e dalla musica, per rivolgerlo a potenti marche automobilistiche. Eterogenesi dei fini di un'educazione, che getta un raggio di autoironia sul personaggio. Che qui, come del resto dovunque in Laura Rainieri, è un personaggio alla terza persona, ma non ha questa volta un nome proprio ma un nome di ruolo, monumentale direi: Madre, con la emme maiuscola. Questo permette il distacco narrativo che è essenziale a questa scrittura e fa giocare l'ironia e l'autoironia con la partecipazione palpitante, senza scadere nella retorica o negli esiti buffi che caratterizzano, nei racconti a lieto fine, quindi, secondo i canoni antichi, nella commedia, la descrizione dei rapporti affettivi tra madre e figlio maschio adulto. In realtà – e lo rivela, all'avvicinarsi della protagonista all'ospedale, la lenta decrittazione di quel nome "Krankenhaus" dalla lingua straniera – il figlio è, soprattutto un amato estraneo, per cui ogni ipotesi di malattia, anche quella per definizione impronunciabile, è possibile, ma, fatto ancora più grave, non è più lecito a lei, ormai, fare al figlio quelle domande che potrebbero rassicurarla. Nello sfondo del rapporto tra Madre e figlio due personaggi grotteschi, due anziani malati cronici, legati alla loro malattia e ai loro vizi, fastidiosi nel loro chiacchiericcio, per la Madre solo rumore di fondo, per il figlio scambio di vuote battute "cose rozze e semplici, non si sanno tenere è una cascata continua".
La rozzezza che confina con la brutalità, la bizzarria che confina con la stoltezza, qui nello sfondo, diventa tratto protagonista nel già citato Fortunato Soldi, in La Rossa e, almeno nella parte iniziale di Angelo Pazzo, cioè i racconti che fanno riferimento a personaggi di un non identificato paese della Bassa padana. Un realismo che dilatando lo sguardo spietato sfocia in un espressionismo che squarcia sorrisi, dilata addomi mette in risalto gambe senza caviglie e gonfie di vene, groszianamente, direi, ma qui non siamo tra la crassa borghesia tedesca, qui siamo tra contadini e paesani, fittavoli e vinai nell'Emilia anni '50-'60.
La voce che racconta si sta facendo interprete della voce di un piccolo paese, creando, senza sentirne il peso o la responsabilità dirette, miti negativi, favole crudeli.
Personaggi da Amarcord. Ma, secondo una logica localistica, che oggi sembra dappertutto avere la meglio, la Rimini di Fellini è all'altro estremo della via Emilia rispetto alla Bassa di cui qui si tratta, quindi un mondo diverso? Fellini diceva di se stesso "un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo". La forma, l'amore per la forma. Certo: qualcosa realmente era esistito del mondo che Fellini ricordava ovvero lui, nel ricordo l'aveva inventato, per lasciarcelo incorruttibile, talmente perfetto da diventare topos, inciso tra gli archetipi culturali? Stessa domanda, con i dovuti distinguo, per questo mondo rievocato dalla Rainieri. Anche qui un mondo libero e strampalato, una volontà di vivere la vita con pienezza e prepotenza: sesso, cibo e – marginale invece in Fellini – un grande appetito di denaro.
Rimane in questi racconti paesani, inesplicabile sul piano narrativo, qualche incrostazione di antichi livori, di cui l'autrice sembra considerare secondaria la consapevolezza, come quel sottotitolo di "il comunista" per Fortunato Soldi, epiteto spiegato poco e, direi, malvolentieri. Quest'uomo non fa mai niente di "comunista" mentre è evidente il fatto che ci troviamo di fronte a un individuo ripugnante, dedito solo all'acquisto e non redimibile, secondo un rigido presupposto deterministico : "Ognuno nasce con la sua pelle che mantiene coriacea per tutta la vita. Ogni cambiamento è fluttuante come piegolina d'organza." Questa idea che ognuno è ciò che è una volta per tutte, che presuppone anche si sappia chi si è e chi sono gli "altri", come è la gente da questa o da quella parte della nazione o del mondo, mi pare sottinteso in tutti i racconti di Laura Rainieri e sul piano narrativo fa giustizia di remore e dubbi conferendo al tempo stesso la massima forza alle sue caratterizzazioni.
L'autrice guarda a questi personaggi con riprovazione ma finisce per farne, nel loro genere, delle creature perfette. Soprattutto la Rossa ha un suo incrollabile "progetto di vita", un arrivismo che – lo ignora certo il personaggio tutto istinto – ha finezze machiavelliche: da quella che definirei economia della morte, cioè profittare dei morti per conquistare nuovi spazi, all' "infilarsi negli interstizi", con la malignità, con la chiacchiera. Quella capacità che fa, in ambiti più vasti, la fortuna dei politici. Dante non avrebbe saputo in quale girone dell'inferno situarla questa Rossa, talmente la sua perversione è polimorfa, Laura sembra divertircisi un mondo. In particolare il trattamento lunghissimo e, a suo modo, raffinato, che la Rossa riserva ai corpi maschili mi sembra metafora di quanto lei riserva alla lingua, perché la lingua è per lei non solo strumento di comunicazione ma anche gioco, divertimento, acrobazia da circo. Laura non solo s'identifica con la voce di un intero paese che racconta il personaggio ma raggiunge una sapienza ventriloqua della lingua, perché quanto scrive, la sua incisiva crudeltà sembra spesso uscire da lei, non dico senza che lei ne abbia piena consapevolezza, ma certamente al di là delle intenzioni.
Temo non si riconoscerebbe in una mentalità che, come a me sembra invece evidente, guarda alla coppia uomo-donna, moglie-marito con grande pessimismo. Marito è il vecchio Ninnolo, un fabbro nientemeno che di fattezze minute, che la Rossa vezzeggia sulle ginocchia, prima, e fa morire, sembra, di sete, poi. Ben presto delusa, maltrattata e abbrutita è Imelda, la irretita moglie di Fortunato. Il matrimonio è, nella chiusa di Fiorediloto "male minore" per non affogare nel mare di solitudine di sperse periferie; è delusione e tradimento in Clelia. Se di sesso, molto e con bravura si parla, per l'amore pare non ci sia posto. Amore è solo quanto può essere intravisto nel riflesso di uno specchio e si piange l'allontanamento non di una persona, ma di ciò che si è visto. L'unico sentimento autentico sembra l'amicizia tra donne, rapporto che Marta, personaggio di cui si è già parlato, vive nella posizione di osservatrice incantata della più piena femminilità dell'altra (Clelia, Fiorediloto), non senza esiti di amara rivincita finale.
Un'altra voce c'è in questi racconti, che rimane interna e celata dentro la storia. Racconta soprattutto l'ambivalente passione per luoghi estremi, che hanno solo indirette indicazioni geografiche, in realtà, sono luoghi simbolici dove l'ambiente circostante è ridotto alla sua essenza. Sto parlando di Callura e di Circolo polare artico. Il primo racconto, che da indizi diversi, dovrebbe svolgersi in Spagna, ha un inizio solare, luminoso. La luce ha, nel suo significato più usuale e fondamentale, un valore positivo, ma rapidamente quella valenza si tramuta nel suo contrario. Presto è chiaro che ci troviamo in un giallo in cui il killer da cui occorre difendersi è misterioso e onnipresente, come la luce del sole e il calore che produce. La narrazione scivola impercettibilmente dalla contentezza della protagonista per aver raggiunto una nuova meta, dalla quale si riprometteva svago e divertimento, alla comprensione del vero significato del nome del paese, che difatti non aveva mentito sulla sua identità. Metafora che racconta il potere sottovalutato del nome, la distrazione che ci fa trascurare i segnali che dovrebbero metterci all'erta. Callura come demonio, il mostro da cui fuggire si presenta col suo vero nome, inalberando l'unico consiglio possibile (dove si vive solo di notte), il cui assoluto significato viene frainteso. Solo una grande capacità di resistenza, brillantemente narrata, permette la sopravvivenza nel caldo davvero infernale e quindi la fuga.
Più complesso l'altro racconto, dove riecheggiano l'episodio biblico di Giona e Melville nel mistero aspro dell'Oceano, al nord. Un racconto che deve essere lieve come la neve, ma come tutti sanno, se la neve non si scioglie, se il gelo la tramuta in ghiaccio, niente è più pesante di quella sostanza che prima appariva leggera. Niente è più estremo del paesaggio e del clima al Polo Nord. Deduciamo da diversi segnali, tra cui la citazione della corrente Malestom, di trovarci in Norvegia, paese dei fiordi, ma qui mai si fa riferimento a quel paese. Si parla solo della natura, come se la protagonista vi si trovasse da sola. Da sola, lei con le montagne, le isole e il mare. Un viaggio in barca di notte. La barca, come il Pequod è di modeste dimensioni, ma non ci sono né il capitano Achab né il resto della ciurma. Con il sole che sfiora l'orizzonte ci sono le orche intorno che fanno paura, senza forse volere fare paura (visto che forse si tratta di un viaggio organizzato per incontrare la fauna marina, e chi conduce la barca sa a che distanza tenersi) e loro del resto, le orche, si allontanano a due a due per le loro dolcezze notturne. Ma orca richiama Orco, come nelle fiabe fa paura e "noi abbiamo infranto". Così scrive senza complemento oggetto, alludendo forse a un divieto di potenze superiori, forse solo come reminiscenza letteraria della crudeltà di Moby Dik. Il divieto potrebbe alludere anche a quello di non invadere il territorio dei grandi cetacei, che in Norvegia sono stati cacciati per secoli? Di questo non si fa cenno, nessuna identità politica o sociale del luogo interferisce qui con la riverenza, la paura, la meraviglia, il senso di colpa, sentimenti assoluti che nascono dalla protagonista e sulla protagonista ricadono. Vietata ogni possibile uscita da sé. All'avvicinarsi di un'orca, Marta s'inginocchia nella barca: è certamente in presenza di Moby Dik, non pensa ai diritti infranti dei grandi cetacei.
Torna qui la passione per la comparazione tra luoghi e atteggiamenti , postulati diversi o addirittura opposti. Al circolo polare artico bisogna dimenticare il laghetto Mediterraneo, le coste lambite dalle calde acque, la macchia verde, la dolce scogliera per il sole e l'amore. La passione per i paesi con clima opposto a quello del Mediterraneo, cose che solo a pensarle mettono in corpo frenesia e timore sono all'origine di questa avventura che Marta compie proprio per amore di assaggiare e configurare l'opposto, espresso nell'idea dello scambio di casa. Poi avviene il fatto inimmaginabile. Il mare in una eccezionale burrasca si porta via porti e aeroporti. Marta deve imparare a vivere, per sempre, nel freddo, trasformarsi dalla persona che guarda il diverso, con senso di curiosità e di avventura, a chi deve pensare a sopravvivere nelle condizioni che la natura attorno le concede, adattamento che in Callura riguardava lo spazio di un solo, anche se terribile, giorno.
Amore per la metafora e per la trasfigurazione fantastica di canonici intrecci di relazioni ed emozioni, quali i rapporti tra fratelli di fronte alla morte della madre e all'eredità che lei lascia, si configura infine in I draghi.
Rende la lettura di questi racconti così godibile una lingua fresca, una mente libera, – anche quando invece riferisce di un mondo di grande chiusura. Ma a quel mondo, mentre lo schernisce, è legata l'autrice, perdutamente in contraddizione.
Curiosità, amore e metabolizzazione della cultura, anche quando echi classici ricadono sulla pagina, nell'uso del linguaggio giovanile o goliardico (c'è ad esempio un "pietosa insania", mutuato dal Foscolo, a commento della gelosia della giovane sfortunata moglie per Fortunato Soldi). La scrittura e la lingua di Laura Rainieri fa tesoro di tutto e lo rigenera in racconti che si scolpiscono nella memoria.
Piera Mattei
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