L'enigma delle origini, del tempo. Da chi discendiamo e cosa, infine, diventeremo. L'inconscio ripercorre incessantemente il passato anche remotissimo: il libro si apre sul sogno del protagonista, che si comporta, nel sogno, come un primate, in un ambiente dove la percezione del pericolo, dell' abbondanza, della bellezza, si alternano a ritmo mozzafiato. Il presente invece, al risveglio, mostra il suo volto opulento (Il frigorifero era pieno di roba che correva il rischio di andare a male) tecnologico (pubblicità alla radio-televisiva, cellulari che squillano), noioso e privo d'imprevisti (Erano mesi che non accadeva assolutamente niente). Noia che addormenta e tormenta nell'attesa di "qualcosa", un fatto, una sorpresa, che non arriva o, se si presenta, è già irriconoscibile, scialbo e sfumato. Massimo, il protagonista, agli inizi del libro, appare come un uomo sull'orlo della depressione. Si distrae con le trasgressioni erotiche e amorose dei suoi amici, la cosiddetta combriccola. Sono uomini rimasti fissi ai rituali del branco adolescenziale (urinare contro la quercia che segna il limite del bosco, parlare tra loro di donne), a cui hanno aggiunto il rituale delle grasse mangiate. Le descrizioni dei manicaretti sono eccellenti occasioni di una scrittura compiaciuta, di una divertita esibizione di grande competenza culinaria, tuttavia da sconsigliare a risentite sensibilità vegetariane.
Una serie di episodi raccontati con abilità e divertimento, che ricordano blandamente le "zingarate" dello storico film "Amici miei", dove le donne sono ritratte sempre come creature libere, spesso infedeli, estremamente scanzonate, con una punta di crudeltà e cinismo. Massimo tuttavia, se da un lato si distrae e si diverte con gli amici, dall'altra è preso da un amore esclusivo, "eterno" per Teresa. All'inizio della storia, Teresa è una donna che ormai evita gli incontri erotici con Massimo, anche se non rifiuta viaggi con altri corteggiatori. Lui, nonostante tutto, continua ad amarla e a desiderarla. C'è poi un'altra persona a cui lui è legato profondamente: è un artista di origine contadina, Liborio, uno scultore che affida al bosco le sue creazioni. Agli inizi del racconto Liborio è misteriosamente scomparso.
Il protagonista ritorna, in una serie di flashback, ai tempi in cui ha conosciuto l'amico, agli inizi della storia con Teresa. In questi ricordi la Natura non fa da sfondo, piuttosto campeggia come altra grandiosa protagonista. La natura è il mare da cui avrebbe origine la vita, cioè la donna – come sembra ribadire il mito di Venere – ma è soprattutto il bosco con i suoi misteriosi ripari, con i colori e i profumi, con la sorpresa della sempre svariante bellezza. Nella concezione di Liborio, rivista e confermata da Massimo, la donna è lei stessa la Natura, la donna è divina. L'uomo non è, alle origini, che un essere creato dalla donna, per sottrarsi alla noia. Creato però non a sua immagine e somiglianza, bensì a somiglianza dei rozzi primati che lei, liscia e delicata, doveva vedersi attorno. L'uomo non può che desiderare di tornare a lei, dentro di lei, che in tutto gli è superiore, e i migliori tra gli uomini non possono pensare se non a dare alla donna ciò per cui lei li ha creati: il piacere e una rassicurante protezione. Questa concezione così elevata dell'altro sesso è purtroppo complementare ai misogini vizi della combriccola, all'uso, seguito da Liborio, di allontanare le donne, al termine del pranzo di Ognissanti, per restare tra uomini, in ragionamenti e meditazione.
Gli inizi della storia con Teresa sono rivissuti con sensibilità favolistica. Nel bosco, il protagonista che si è perso, incontra una ragazzina, che, proprio come in una fiaba, vive non lontana da lì, con la nonna. Anche se lei si dice "quasi quindicenne", ha parole e comportamenti infantili, sebbene molto intraprendenti, da rustica Lolita. Massimo sta con palpitante perplessità al gioco, per la coscienza dell'equivocità dell'esperienza vissuta. Si incontrano nuovamente e lei è già sposata, ma questo dettaglio non è d'ostacolo all'inizio del loro "assoluto" amore.
L'ultima parte della storia è la più complessa. Nel testamento, che è stato ritrovato nonostante non sia ritrovato il corpo, Liborio ha lasciato a Massimo in eredità il suo computer. Massimo riesce ad aprirlo e vi trova un messaggio che si riferisce al luogo dove sarebbe possibile costruire l'orologio a vento, di cui insieme avevano fantasticato. L'orologio è lo strumento per la misura del tempo, quel tempo opprimente, che fa spesso rimuginare Massimo sui suoi sessantacinque anni, ogni volta che il corpo si mostra inadeguato o tardo ai sempre giovanili desideri, alla voglia di salire, di appartarsi, di cercare i decisivi incontri portandosi in alto, o lontano dagli altri.
Infatti si metterà in viaggio, meta la Terra del Fuoco. La terra agli antipodi, come la montagna del Purgatorio. Senza che ce ne fossero vere premonizioni ci troviamo in un mondo carico di simboli, in cui mi è parso di leggere i riferimenti al viaggio di purificazione dantesco. Gli elefanti marini che, Massimo scaccia con lancio di sassi, potrebbero personificare, pensa il protagonista, i vizi dell'avarizia e dell'invidia, da cui sempre ha voluto tenersi lontano. Ci sono donne gentili, che lo incoraggiano al viaggio, mediatrici necessarie, come nella Commedia Lucia e Matelda. Infine, sulla vetta di questo monte dalle sette balze, che lo porta fuori dal bosco nel quale non deve ricadere, c'è l'incontro con Teresa. Un incontro essenziale: sedersi accanto e restare, mentre l'amore si esprime con parole e gesti semplici, con tenerezza, in modo definitivo. E scopriamo infine anche il giallo della scomparsa di Liborio: non è morto, viaggia verso nuove avventure, forse non è se non un alterego del protagonista.
Al di là dell' intreccio, questo romanzo è, essenzialmente, un'interrogazione sulle origini e il tempo. Sono trascorsi lunghi anni di una vita alla quale non è mancato quasi nulla di quanto si pensa la renda completa: gli amici, le donne, una rispettabile posizione sociale, un amore "eterno". Nulla è mancato, ovvero Massimo ha fatto di tutto perché quella sola, unica vita, risultasse, a sé e agli amici, invidiabile, perfetta? Ora, al punto in cui si colloca la storia, non è rimasto che ripercorrere il passato, cercando finalmente di comprenderlo, di fissare il tempo e i valori. Allora, insieme all'Amore, la scrittura si presenta come la sola efficace "trasgressione", consolazione e sollievo alla noia, non per nulla in epoche precedenti, durante il legame coniugale, sembrava unico vero motivo di gelosia per una moglie delusa e lontana. Di più, come nel Dolce Stile, Amore e scrittura si confondono, se la donna oggetto dell'Amore è anche protagonista privilegiata della maggior parte delle storie che Massimo ha scritto, e ragione stessa dello scrivere.
Perfetto nei quadri d'ambiente contadino e nelle situazioni conviviali, abile a intrecciare episodi anche molto lontani nel tempo, nel descrivere le contraddizioni nella sostanziale coerenza del suo protagonista, svariando nelle note dell'elegia e della favola, dell'ironia e della satira, della memoria e del mito, della riflessione e dell'onirico, Silvano Anania ci pone, in definitiva, di fronte a un romanzo di ascesa e purificazione. Partiti dalle bolge di una provincia annoiata, ce ne trasporta agli antipodi, in un clima simbolico e rarefatto. Si completa così un viaggio verso la conoscenza, verso il riconoscimento dell'appartenenza al Tutto, verso la vicinanza eterna all'Amore, che è non è stato concesso una volta per tutte, ma, dal primo incontro e poi contro le avversità, fortemente voluto e trattenuto.
Piera Mattei
Rivista diretta da Piera Mattei --- La rivista pone in primo piano la natura delle cose, la sua indagine, dal punto di vista della scienza, della poesia, della filosofia e dell'arte --- Direttore responsabile: Piera Mattei --- Superstripes Press
domenica 31 ottobre 2010
Cristiano Franceschi – Oltre vento e da nessun luogo – Ghenomena Edizioni, 2009
Un libro di poesie dedicato a una donna, non con un semplice esergo ma con l'acrostico che introduce la raccolta. Dunque, da subito, abbiamo la presentazione di un canzoniere (poesie d'amore e di lontananza), da subito il desiderio, la sensualità sono protagonisti, ma rinserrati in forme chiuse: sonetti e madrigali con stretto controllo dei metri e delle rime.
L'autore di queste poesie è lo stesso fotografo che, sulla copertina, colloca un'immagine notturna. Un luogo centrale di Roma, il ponte Duca d'Aosta, vi è quasi irriconoscibile, tanto la foto è limpida, perfetta, e l'immagine, nella sua perfezione, "altra" da quanto normalmente si vede. Sempre in quella foto un dettaglio inquietante: i fari accesi di un'automobile che sembra parcheggiata, sotto il ponte, in cima a un'ampia scalinata.
Ho riferito di quella foto in copertina perché vi leggo, come in altre opere fotografiche di Cristiano Franceschi, la metafora visiva della sua poesia, che costringe l'angoscia pulsante, l'enigma che assilla, nella misura del metro, nella forma accurata e netta.
Del resto la forma chiusa e la rima sono, nell'uso del poeta abile e accorto, per l'orecchio addestrato, lo strumento mediante il quale la lingua scopre da sé la via al discorso che urge, o addirittura lo suscita. Nella seconda strofa della poesia di pag. 11 c'è infatti il riferimento a un "cantare a braccio", anzi direi che l'intera strofa costituisce nel suo insieme una dichiarazione di poetica e un programma esistenziale: Come soltanto un verso preso al laccio / e a sopravvento per l'ostile intorno / delle mani e del mio cantare a braccio, / ho messo all'ancora il vagar del giorno / dov'è sicura la fonda e l'abbraccio / imbarchi il fuoco e il piacere adorno. Un programma esistenziale che avrà quale durata? "Ho messo all'ancora il vagar del giorno": per quanto tempo resterà agli ormeggi una vita che cerca da sempre, ma non riesce a trovare, il luogo dove sistemare i suoi Lari? I luoghi qui citati, vissuti, sono molti. A cominciare da Firenze: Santa Croce, gli Innocenti, Duccio, Via delle belle donne, ma anche la bassa Toscana, Chiusi, Siena, Bagno Vignoni, poi Roma, alla Stazione Termini. Tra i molti ancoraggi, il riferimento a un altrove linguistico nelle poesie in tedesco, idioma che potrebbe rivelare l'Heimat originale e insieme additare un altro termine delle molteplici, irrisolvibili contraddizioni. Nelle metafore, infine, il mare, le acque compaiono come atavico ricordo del viaggio, dell'espatrio, forse della fuga senza sapere verso cosa e a causa di chi: E' un porto come tutti gli altri, ma / pesantemente nei canali domina / quel muschio di bonaccia che si fa / nera insolenza […] E trascinato dai venti che fan- / no alla prima occasione cadere gomene / e sartie, l'ancora e i paranchi inutili / strumenti di salvezza.
Ancorarsi, o rifiutare di scendere a "un porto come tutti gli altri"? Speranza e disperazione si sovrappongono, fino a corteggiare la follia e la morte: Conviene l'omicidio, soluzione / di originale freschezza, modesta / come fanciulla irritabile, clone / del desiderio furioso di Vesta.[…] quel cielo capovolto e quelle fate / ranicchiate sull'angelo, cura- / no della morte anime disamate. Versi assai belli, che "curano" a loro volta la disperazione e, nella loro aperta cantabilità e chiarezza, contrastano con l'enigmaticità di molti versi dove la rima onnipresente spinge alla scoperta d'assonanze e immagini, anche strane.
Dovunque la parola è in caccia dell'amore, dell'eros, non come annientamento ma come ipotesi di rispecchiata identità e, finalmente, d'immobilità. Ma l'immobilità non è anche la fine, la morte? Bellissima fanciulla, / Dolce a veder non quale / La si dipinge la codarda gente, / Gode il fanciullo Amore / Accompagnar sovente. La citazione leopardiana dal canto Amore e Morte, che liberamente si affaccia, mi aiuta a definire lo stile e l'ispirazione di Cristiano Franceschi come poesia fondamentalmente classica, nella forma e anche nelle tematiche. Giudizio che rimane saldo, e non contraddice a un primo approccio con questi versi piuttosto aspro, difficile. Perchè l'armonia, come le fate che ho dianzi citato, è presente ma nascosta, e si richiede al lettore di andarla a stanare, mentre se lei se ne resta immobile, ranicchiata "sull'angelo".
Piera Mattei
L'autore di queste poesie è lo stesso fotografo che, sulla copertina, colloca un'immagine notturna. Un luogo centrale di Roma, il ponte Duca d'Aosta, vi è quasi irriconoscibile, tanto la foto è limpida, perfetta, e l'immagine, nella sua perfezione, "altra" da quanto normalmente si vede. Sempre in quella foto un dettaglio inquietante: i fari accesi di un'automobile che sembra parcheggiata, sotto il ponte, in cima a un'ampia scalinata.
Ho riferito di quella foto in copertina perché vi leggo, come in altre opere fotografiche di Cristiano Franceschi, la metafora visiva della sua poesia, che costringe l'angoscia pulsante, l'enigma che assilla, nella misura del metro, nella forma accurata e netta.
Del resto la forma chiusa e la rima sono, nell'uso del poeta abile e accorto, per l'orecchio addestrato, lo strumento mediante il quale la lingua scopre da sé la via al discorso che urge, o addirittura lo suscita. Nella seconda strofa della poesia di pag. 11 c'è infatti il riferimento a un "cantare a braccio", anzi direi che l'intera strofa costituisce nel suo insieme una dichiarazione di poetica e un programma esistenziale: Come soltanto un verso preso al laccio / e a sopravvento per l'ostile intorno / delle mani e del mio cantare a braccio, / ho messo all'ancora il vagar del giorno / dov'è sicura la fonda e l'abbraccio / imbarchi il fuoco e il piacere adorno. Un programma esistenziale che avrà quale durata? "Ho messo all'ancora il vagar del giorno": per quanto tempo resterà agli ormeggi una vita che cerca da sempre, ma non riesce a trovare, il luogo dove sistemare i suoi Lari? I luoghi qui citati, vissuti, sono molti. A cominciare da Firenze: Santa Croce, gli Innocenti, Duccio, Via delle belle donne, ma anche la bassa Toscana, Chiusi, Siena, Bagno Vignoni, poi Roma, alla Stazione Termini. Tra i molti ancoraggi, il riferimento a un altrove linguistico nelle poesie in tedesco, idioma che potrebbe rivelare l'Heimat originale e insieme additare un altro termine delle molteplici, irrisolvibili contraddizioni. Nelle metafore, infine, il mare, le acque compaiono come atavico ricordo del viaggio, dell'espatrio, forse della fuga senza sapere verso cosa e a causa di chi: E' un porto come tutti gli altri, ma / pesantemente nei canali domina / quel muschio di bonaccia che si fa / nera insolenza […] E trascinato dai venti che fan- / no alla prima occasione cadere gomene / e sartie, l'ancora e i paranchi inutili / strumenti di salvezza.
Ancorarsi, o rifiutare di scendere a "un porto come tutti gli altri"? Speranza e disperazione si sovrappongono, fino a corteggiare la follia e la morte: Conviene l'omicidio, soluzione / di originale freschezza, modesta / come fanciulla irritabile, clone / del desiderio furioso di Vesta.[…] quel cielo capovolto e quelle fate / ranicchiate sull'angelo, cura- / no della morte anime disamate. Versi assai belli, che "curano" a loro volta la disperazione e, nella loro aperta cantabilità e chiarezza, contrastano con l'enigmaticità di molti versi dove la rima onnipresente spinge alla scoperta d'assonanze e immagini, anche strane.
Dovunque la parola è in caccia dell'amore, dell'eros, non come annientamento ma come ipotesi di rispecchiata identità e, finalmente, d'immobilità. Ma l'immobilità non è anche la fine, la morte? Bellissima fanciulla, / Dolce a veder non quale / La si dipinge la codarda gente, / Gode il fanciullo Amore / Accompagnar sovente. La citazione leopardiana dal canto Amore e Morte, che liberamente si affaccia, mi aiuta a definire lo stile e l'ispirazione di Cristiano Franceschi come poesia fondamentalmente classica, nella forma e anche nelle tematiche. Giudizio che rimane saldo, e non contraddice a un primo approccio con questi versi piuttosto aspro, difficile. Perchè l'armonia, come le fate che ho dianzi citato, è presente ma nascosta, e si richiede al lettore di andarla a stanare, mentre se lei se ne resta immobile, ranicchiata "sull'angelo".
Piera Mattei
lunedì 25 ottobre 2010
Tre poesie inedite di Cristina Vidal Sparagana
Cristina Vidal Sparagana,è nata a Roma, il 1 novembre 1957. Laureata in lettere moderne all’Università di Losanna, è stata traduttrice di testi teatrali per la Radio Svizzera Italiana e di romanzi per l’Editore Rizzoli. Nel 1990 si è trasferita in Cile dove ha lavorato come funzionaria presso l’Istituto Italiano di Cultura di Santiago, e docente di letteratura italiana all’Università Cattolica di Valparaíso. In questo periodo ha fondato e diretto la rivista “Appunti Italo-cileni”e ha pubblicato il saggio “Tre poeti italiani: Bertolucci, Gatto, Penna”, (Istituto Italiano di Cultura). Tornata a Roma nel 2000, ha vinto il Premio Montale Inediti nel 2002, cui ha fatto seguito il Premio George Byron nel 2003, e ha cominciato a collaborare con la rivista “Poesia” di Nicola Crocetti per la quale ha realizzato traduzioni di numerosi poeti cileni e latinoamericani, fra cui Gonzalo Rojas, Armando Uribe, Oscar Hahn, e Vicente Garcia Huidobro. Nella primavera del 2006 è uscito presso le Edizioni del Giano, il suo libro di versi “Il demone gentile”, con prefazione di Plinio Perilli. Sue poesie e traduzioni sono state incluse nelle riviste cilene “Pluma y Pincel” e “Caballo de fuego” e nelle italiane “Polimnia”, di Dante Maffia, “La Mosca di Milano” di Gabriela Fantato, “Poesia” di Nicola Crocetti, “Poeti e Poesia” di Elio Pecora, “Testo a fronte”di Franco Buffoni, “Gradiva” (New York) di Luigi Fontanella, “Pagine” di Vincenzo Anania. È dello scorso anno un suo saggio - con relative traduzioni - su Gabriela Mistral, presente nel volume “Con la tua voce” ( “La vita felice”), mentre alcuni estratti del testo teatrale in versi “Drake” sono presenti nell’antologia di Roberto Mussapi “Bona Vox” (Jaka Book, Milano, 2010).
IL FALCO
Il falco non ha nulla
sotto le zampe.
Non un ramo di faggio,
non un arco, non la borsa di un angelo,
neppure
un cavaliere ammutolito, nulla
che sostenga nel vuoto la sua curva.
Il falco è appeso all’occhio di un defunto
come a un chiodo ficcato nella notte.
Ma non ha nulla sotto il corpo, solo
la luna che si sveste nei tre quarti
di uno specchio sul punto di cadere,
il negato, violento sopracciglio,
un dio vuoto, una lacrima, una spilla.
Non esiste
la terra. Il cielo è un sacco
strappato al vento,
un tramonto sbiancato a mezza via,
un silenzio di foglie che s’incrina
su ciò che è stato o non è stato, vibra
come nel ghiaccio.
E non ha nulla, il falco, che lo intinga
nell’inquieto confine della luce,
non un fischio, o una fiaccola o il brucare
di un gregge assente.
Nulla che regga il suo orologio immenso,
il bersaglio crudele dello sguardo,
la profonda sentenza. Solo un chiaro profilo
che si volge
per scomparire oltre la sabbia, solo
il rifiuto dell’anima, la ferma
traccia del tempo.
MARE MORTO
Il mare è morto a fine agosto,
è morto
come un astro staccato
dal suo ramo
o un suggello di plancton,
e le esequie sommergono le rocce.
Funerali profondi, chiazze gialle
su lunghi colli:
simili a cigni tolti al capezzale
le bagnanti galleggiano, ridenti.
(Radar che sembrano fotografare
l’incrociata barriera e le sue leghe,
lunghi tubi che solcano le onde).
La città è un firmamento.
Le stelle sono i pacchi,
i brevi gong dei tacchi a spillo, i lampi
dei semafori usciti dalla fitta
cecità dell’estate.
Le galassie, gli uffici spalancati
a divorare strappi di cappello
e di giornali arrotolati come
cannocchiali di carta.
Ogni gonna
si unisce a una candela.
Ogni amante ha sognato di morire.
Ha sognato che il vuoto più crudele
era un coltello tra le labbra, un bacio
precipitato dal balcone, destinato
a sventolare come una bandiera
tra cicale di porpora.
Messe in piega si drizzano nel mare
appese a colli sconosciuti,
neri, gialli, marrone.
Il mare è morto, eppure
sigarette lo pungono, segnali
di nuova vita svolgono il suo letto
come nastri adesivi, mani grasse
lo posano su un rogo
di sorrisi e di perle, di conchiglie
nate all’ombra del polso.
Le teste non si piegano,
i colli come tubi
hanno smesso di stridere al tramonto
in un piccolo bosco di persone
strette a una tana di civetta. Tutti
porgono il mento all’aglio e al vino.
Tutti
sgorgano a tempo.
Sotto la guancia di un bambino il mare
è morto a fine agosto. Sotto
la caviglia nervosa di una vecchia
troppo remota al fiotto della lana,
che alza lo sguardo verso il cielo come
se cadesse una palla.
Sotto tre gelidi silenzi alti
come bagnini nerboruti. Il mare
si ritrae dal suo sasso.
Sballottato da venti di regalo,
trascinato alla raffica, sepolto
da sua stessa vertigine. Verranno
altre rinascite,
culle piene di paglia,
buoi dalla lingua come cani, nuovi
colpi di zappa.
Verranno sedie fitte nella luna,
pelli rosse di vespe, pelli tese
tra zanzara ed incudine. Da quando
il mare tornerà a gridare
come un ragazzo dei giornali, come
una bocca d’uccello, come un topo
dalla zampa divisa, come un nido
rovesciato dal vischio.
UNA GOCCIA DEL CUORE DEL TOPO
Una goccia del cuore del topo. Una goccia
come cento altre gocce. Buco
ficcato in polvere vermiglia,
sangue, lancio di scheggia,
pioggia lieve
su frazioni di capsula, canzone
svociata in pezzi di campane, lame
dentro la pietra.
Fra stinchi e soffi di rovina, giace
ciò che resta del topo: un occhio nero
come quello di un pugile, una coda
simile al dito di un guerriero, un duro
getto di calce.
Il topo unto nel veleno, il topo
essiccato dall’urlo,
beatificato nella colla, zampa
e demonio, avvolge tutto questo
in minuscolo lutto.
Pure, c’è chi si sporge sulla terra
per vederlo morire, chi stropiccia
la sua crosta di sangue fra le dita.
C’è chi posa la mano sulla tenue
brevità del suo sonno, chi lo addita
tra cipresso e letargo.
IL FALCO
Il falco non ha nulla
sotto le zampe.
Non un ramo di faggio,
non un arco, non la borsa di un angelo,
neppure
un cavaliere ammutolito, nulla
che sostenga nel vuoto la sua curva.
Il falco è appeso all’occhio di un defunto
come a un chiodo ficcato nella notte.
Ma non ha nulla sotto il corpo, solo
la luna che si sveste nei tre quarti
di uno specchio sul punto di cadere,
il negato, violento sopracciglio,
un dio vuoto, una lacrima, una spilla.
Non esiste
la terra. Il cielo è un sacco
strappato al vento,
un tramonto sbiancato a mezza via,
un silenzio di foglie che s’incrina
su ciò che è stato o non è stato, vibra
come nel ghiaccio.
E non ha nulla, il falco, che lo intinga
nell’inquieto confine della luce,
non un fischio, o una fiaccola o il brucare
di un gregge assente.
Nulla che regga il suo orologio immenso,
il bersaglio crudele dello sguardo,
la profonda sentenza. Solo un chiaro profilo
che si volge
per scomparire oltre la sabbia, solo
il rifiuto dell’anima, la ferma
traccia del tempo.
MARE MORTO
Il mare è morto a fine agosto,
è morto
come un astro staccato
dal suo ramo
o un suggello di plancton,
e le esequie sommergono le rocce.
Funerali profondi, chiazze gialle
su lunghi colli:
simili a cigni tolti al capezzale
le bagnanti galleggiano, ridenti.
(Radar che sembrano fotografare
l’incrociata barriera e le sue leghe,
lunghi tubi che solcano le onde).
La città è un firmamento.
Le stelle sono i pacchi,
i brevi gong dei tacchi a spillo, i lampi
dei semafori usciti dalla fitta
cecità dell’estate.
Le galassie, gli uffici spalancati
a divorare strappi di cappello
e di giornali arrotolati come
cannocchiali di carta.
Ogni gonna
si unisce a una candela.
Ogni amante ha sognato di morire.
Ha sognato che il vuoto più crudele
era un coltello tra le labbra, un bacio
precipitato dal balcone, destinato
a sventolare come una bandiera
tra cicale di porpora.
Messe in piega si drizzano nel mare
appese a colli sconosciuti,
neri, gialli, marrone.
Il mare è morto, eppure
sigarette lo pungono, segnali
di nuova vita svolgono il suo letto
come nastri adesivi, mani grasse
lo posano su un rogo
di sorrisi e di perle, di conchiglie
nate all’ombra del polso.
Le teste non si piegano,
i colli come tubi
hanno smesso di stridere al tramonto
in un piccolo bosco di persone
strette a una tana di civetta. Tutti
porgono il mento all’aglio e al vino.
Tutti
sgorgano a tempo.
Sotto la guancia di un bambino il mare
è morto a fine agosto. Sotto
la caviglia nervosa di una vecchia
troppo remota al fiotto della lana,
che alza lo sguardo verso il cielo come
se cadesse una palla.
Sotto tre gelidi silenzi alti
come bagnini nerboruti. Il mare
si ritrae dal suo sasso.
Sballottato da venti di regalo,
trascinato alla raffica, sepolto
da sua stessa vertigine. Verranno
altre rinascite,
culle piene di paglia,
buoi dalla lingua come cani, nuovi
colpi di zappa.
Verranno sedie fitte nella luna,
pelli rosse di vespe, pelli tese
tra zanzara ed incudine. Da quando
il mare tornerà a gridare
come un ragazzo dei giornali, come
una bocca d’uccello, come un topo
dalla zampa divisa, come un nido
rovesciato dal vischio.
UNA GOCCIA DEL CUORE DEL TOPO
Una goccia del cuore del topo. Una goccia
come cento altre gocce. Buco
ficcato in polvere vermiglia,
sangue, lancio di scheggia,
pioggia lieve
su frazioni di capsula, canzone
svociata in pezzi di campane, lame
dentro la pietra.
Fra stinchi e soffi di rovina, giace
ciò che resta del topo: un occhio nero
come quello di un pugile, una coda
simile al dito di un guerriero, un duro
getto di calce.
Il topo unto nel veleno, il topo
essiccato dall’urlo,
beatificato nella colla, zampa
e demonio, avvolge tutto questo
in minuscolo lutto.
Pure, c’è chi si sporge sulla terra
per vederlo morire, chi stropiccia
la sua crosta di sangue fra le dita.
C’è chi posa la mano sulla tenue
brevità del suo sonno, chi lo addita
tra cipresso e letargo.
domenica 24 ottobre 2010
Boston: dai vetri di un decimo piano
Boston, dalle finestre della casa che mi ospita, dall'alba al tramonto.
Un giorno prima del rapido tornado del 14 ottobre, nell'edificio dove abito, undici piani con pareti parzialmente a vetrate, avevano deciso la pulizia esterna delle finestre.
L'anno scorso, nello stesso periodo dell'anno, mi ero trovata in una circostanza simile e, di mattina, con grande sorpresa (perché non avevo letto l'avviso) avevo visto calare dall'alto, con secchio e spazzole, gli uomini specializzati in quel genere di pulizia, una sorta di funamboli, una vita appesa alle corde. Quest'anno, mi sono fatta trovare con le tende tirate, così da catturare dall'interno il rapido passaggio delle loro ombre.
L'ho poi incontrato a piano terra quello che era scivolato davanti alle mie finestre: i muscoli tesi sulle braccia, simili alle spesse corde che porta su un carrello, arrotolate nei secchi come sepenti addormentati, e una imprevedibile coda di cavallo che avevo intravisto e che squilla ora nell'altrio del palazzo come segnale di riconoscimento. Sul viso ancora meno prevedibili spessi occhiali. Così ho pensato che il buon equilibrio, l'assenza di vertigini, necessari a svolgere quel lavoro, potrebbero paradossalemente derivare in lui da una cattiva vista.
Un giorno prima del rapido tornado del 14 ottobre, nell'edificio dove abito, undici piani con pareti parzialmente a vetrate, avevano deciso la pulizia esterna delle finestre.
L'anno scorso, nello stesso periodo dell'anno, mi ero trovata in una circostanza simile e, di mattina, con grande sorpresa (perché non avevo letto l'avviso) avevo visto calare dall'alto, con secchio e spazzole, gli uomini specializzati in quel genere di pulizia, una sorta di funamboli, una vita appesa alle corde. Quest'anno, mi sono fatta trovare con le tende tirate, così da catturare dall'interno il rapido passaggio delle loro ombre.
L'ho poi incontrato a piano terra quello che era scivolato davanti alle mie finestre: i muscoli tesi sulle braccia, simili alle spesse corde che porta su un carrello, arrotolate nei secchi come sepenti addormentati, e una imprevedibile coda di cavallo che avevo intravisto e che squilla ora nell'altrio del palazzo come segnale di riconoscimento. Sul viso ancora meno prevedibili spessi occhiali. Così ho pensato che il buon equilibrio, l'assenza di vertigini, necessari a svolgere quel lavoro, potrebbero paradossalemente derivare in lui da una cattiva vista.
Boston Book Festival – Copley
Il pittore Copley, dal suo piedistallo di bronzo, la tavolozza di una mano, osserva la folla variopinta che riempie il grande spazio, il giardino ancora fiorito, su cui si affacciano due chiese e la monumentale Biblioteca Pubblica, dove per ottenere il prestito occorre essere residenti, ma per sedersi nella grande sala a leggere i propri libri o lavorare al computer non è necessaria alcuna formalità.
Boston Book Festival - Ritmi e consuetudini dell'autunno in Massachusset
Sabato, 16 ottobre, su Copley Square, per l'annuale Boston Book Festival. Il giorno precedente una tempesta con vento dell'intensità di un tornado, alberi spezzati e sradicati, allagamenti. L'anno precedente, nella stessa data, un fenomeno meteorologico simile, eppure ancora per quest'anno si parla di un episodio eccezionale, di un repentino sbalzo di pressione che ha prodotto una vera "bomba"atmosferica. Il giorno dopo un'aria luminosa e pungente, una folla festosa sulla piazza che porta il nome di un noto ritrattista e paesaggista del settecento, Copley appunto, per l'annuale festival del libro, che vede la presentazione di autori anche di fama internazionale. L' organizzatrice della giornata, costante a dispetto della crisi, è Deborah Porter
mercoledì 13 ottobre 2010
Ricevo a Boston da Biagio Propato per Giulia Perroni
Giulia Perroni Lo scoiattolo e l’ermellino Edizioni Del Leone 2009
UN POEMA INFINITO E SEMPRE AL SUO INIZIO
“ Inizierò non da qui, ma da lontano,
inizierò dalla fine, che è anche l’inizio.
Il mondo era il mondo. E questo significava
tutto ciò che volete in questo mondo.”
Come la poetessa russa Bella Achmadùlina, comincia la sua poesia “ In memoria di Boris Pasternack”, iniziando dalla fine, cosi anche noi inizieremo con una lettura “ A rebours”, dell’opera precipua di Giulia Perroni. Viaggio Totale, senza fine, che investe tutto l’esperibile dai sensi e va oltre, denudandosi del suo carico, simile al leggero e pesante rimbaudiano battello, per cercare il porto, la meta, un Ararat sulle cui cime posare la chiglia per contemplare i rigurgiti dei marosi, ormai lontani, dopo il diluvio, dopo la divina catartica tempesta. L’arca su cui naviga la poetessa non teme scogli, bufere, s’inerpica sino alle altezze e scende sino agli abissi, lasciandosi trascinare senza opporre resistenza, anzi, cercando di accogliere ogni cosa in sé, in un mistico afflato tantrico, in un abbraccio berniniano. A volte, il timoniere abbandona per un lasso il suo timone e guarda il legno cavo scorrere tra le correnti, verso un dove ignoto, tutto da vedere.
“ Guarderò la polvere nei tuoi occhi
per vedervi chiara la vita
e come l’estasi del viaggio
possa frantumare l’attesa
e come non siamo portati a comprendere
che il mistero è una vita più grande
quando in punta di piedi
per l’iniziativa del maestro
si raccapriccia il sondaggio
delle nuvole basse
della corona.”
Agile come uno scoiattolo e innocente e puro come un ermellino, il pensiero smette di pensare e ritorna alle origini, al Giardino, mai perduto interamente, per poi ripartire, in una sorta di viatico interminabile, che reca in sé il germe dell’eterno divenire, sia pur affondando, naufragando, morendo ogni giorno, ogni istante, ma risorgendo sempre.
Quando parliamo della novità, e ci lamentiamo per la sua assenza, dovremmo invece estinguere la pigrizia che ci costringe a non vedere ciò che accade dentro e intorno, per accorgerci subito che tutto è sempre in moto, nuovo.
Novità aggiunge al vecchio preesistente, questa opera potente, onnicomprensiva di Giulia Perroni, che cerca in modo strenuo la bellezza… e la trova.
“Solo la bellezza eguaglia i campi di viole
quando le punte si affidano ai miraggi
e come una domanda il paradiso si allarga
nel deserto che neanche il questurino
riesce a dimenticare.”
Che cerca in modo instancabile Poesia… e la trova, ma deve continuamente ricercare, per ritrovare.
“ La poesia
è una proposta di sangue
sotto al gelso abitudinario,
per sette corone
ha devastato l’istante
e le ho detto resisti
anima della luna.”
Il flusso di coscienza è irrefrenabile, spinge ogni natura dell’autrice a completarsi nella totalità e si ferma solo per riprendere fiato, abbeverandosi alle fonti primigenie, da dove l’umano è scaturito, discende.
Inizio è fine coincidono, come in un ciclo entropico, hegeliano, eliotiano. Sembra che il frutto proibito, anche se staccato, mangiato e digerito, non sia stato mai veramente colto, sembra non vi sia bisogno di un’Apokatàstasis panthon, poiché l’innocenza originaria permane, e se il male imperversa , funesto, elefantiaco e devastante, è solo per una tantrica assenza di bene, per una agostiniana “Privatio boni.”
“Se l’origine è l’Eden
da quel giardino non ci siamo mai mossi
tutto ciò che di vero e di bello
spasima e canta
è frutto della sua ombra deliziosa e da quell’ombra il fianco non s’è scucito
guarda con stupore il male
e dice questo certo non mi appartiene
il lupo malvagio non mi prenderà.
L’agilità e la velocità dello Scoiattolo, simbolo dell’esperienza, come la Tigre, per William Blake ne “ I canti dell’esperienza”, fa compiere a Giulia Perroni un andare a ritroso, per riportarla al Giardino incontaminato, dove ritrova l’ermellino, con la sua mitezza, con la sua innata purezza, simbolo dell’innocenza, come l’Agnello per William Blake, ne “ I canti dell’innocenza”, come se nulla nel mondo fosse avvenuto, cambiato. L’Eva primèva si ricongiunge al suo ambiente e continua a generare frutti di umanità. Si legge, nella prima poesia biblica, per voce di Enàsh, Adamo, in Genesi 2, versetto 23 :
“ Questa è finalmente osso delle
mie ossa
E’ carne della mia carne.
Questa sarà chiamata Donna,
perché dall’ uomo questa è stata tratta.”
Giulia Perroni ribalta totalmente questa visione maschiocentrica, invertendo i ruoli, e la prerogativa di chi è fonte generatrice di vita, con questi versi gnomici, apodittici, che non lasciano spazi a confutazioni, tale è la decisione e la certezza, l’energia intensa con cui sono stati pensati, pronunciati, cantati, danzati, dipinti, scolpiti, incisi, e scritti.
“ E l’inizio fu donna
fu maestrale
dalla donna si genera la donna
dall’uomo non può sorgere nessuno
nemmeno la tempesta.
Il libro, diviso in undici movimenti, è un affresco in continuo sviluppo, differente, a volte, per stilemi, tematiche, lessico e visioni combinatorie, dai cinque o sei precedenti volumi, che aggiunge e sottrae, sovrappone rimembranze, nel suo farsi opera totale, che vuole non essere mai Hortus Conclus, Conventio ad excludentur, ma un Segno sempre aperto agli altri. Luoghi, persone, personaggi, antenati, fiori, piante, odori e colori isolani, storia e fiaba, si intrecciano in un connubio indissolubile, in cui tutto è sempre sospeso e sotteso da un Rùach invisibile, che continua ad alitare: permanente, immanente, trascendente, immantinente, imminente.
La hishshàh, La DONNA edenica, Generatrice e Conservatrice della Specie, assume un ruolo portante, riproponendo una lettura della storia, al femminile, facendo tutto dalla sua creatività discendere”, mentre “la teologia è maschio”, è il continuo ritornello connettivo che vuole denunciare l’ingiustizia e lo squilibrio dei ruoli nella storia.
L’autrice de “ Lo scoiattolo e l’ermellino”, si ribella a tutto ciò, dal profondo della sua consapevolezza, cerca di ripristinare la verità, contro la realtà schiacciante e opprimente, che vede la supremazia dell’uomo-maschio sui simili, sugli elementi e sulle cose.
Non è una ribellione femminista, ma una rivolta dell’anima contro l’Animus, dello Ying contro lo Yang, tesa a stabilire equilibri, armonie, eludendo alla fine, e superando la dicotomia dei sessi con una gnosi ossimorica, con lo Spirito, che non ha sesso, ma solo ali per volare e dissolvere le diatribe e le opposizioni consumate perennemente negli oscuri, fangosi e puzzolenti ipogei della storia personale e sociale.
“Lo scoiattolo e l’Ermellino", è il frutto e il compimento del primo volume “ La libertà negata”.
L’iniziazione alla poesia, il meticoloso apprendistato, l’auscultazione continua, hanno forgiato l’esperienza di Giulia Perroni facendole acquistare conoscenza e sapienza. Ella, come Rut ha saputo rinunciare ai suoi idoli, ai suoi meticci, come Naomi, ha saputo accogliere l’altro e continuando a spigolare nei campi di grano di Boaz, ha conosciuto le virtù della donna. Ha urlato il suo amore, taciuto il suo odio, seguendo l’ispirazione di Saffo, delle sorelle Bronte, di Emily Dickinson, di Jane Austen, di Virginia Woolf, di Marceline Desbordes Valmore, di Giorgina Rossetti, di K. Mansfield Beauchamp, di Edith Sitwell, di Anna Achmàtova, di Irina Cvetaeva, di Cristina Campo, di Atonia Pozzi, di Amelia Rosselli, di Marcia Theophilo, Lucianna Argentino e tante tante altre singolari nobili voci, che continuano a sussurrare in questo piccolo Rione dell’universo, che è la terra, il loro esserci state, il loro esserci.
Ma chi può veramente dire che tutto è compiuto? Il Gran Poema di Giulia, incede, sa che deve arrotolare con sé tutto ciò che ancora gli è ancòra ignoto , affinché ogni cosa ritorni al punto iniziale, come il salmone che affronta rapide controcorrente e morsi di orsi, per ritrovare il luogo di nascita: deporre le uova. Perire. Quindi il Viaggio. In altro. Eterno. Continuare…
“ Il ripetersi muta
il rito dell’acque ha una pace
di sovrumano silenzio
il piede d’alabastro
una meta per il ritorno
l’inizio folgorante del sempre.
Mi inoltro
il cammino è lucido di anemoni
la sospensione dura come un ricordo
ho più fiaccole al grido
che non questa sera struggente:
nel viola depongo le rose
vesti allucinate per il ritorno.
Avrò paura d’essermi avventurata lì dove l’acqua muta?
Il gorgoglio cammina fino a notte nel misurato senno
ma chi amando il silenzio si sarà fatta oscura
avrà rose a settembre? “
Biagio Propato
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