Rivista diretta da Piera Mattei --- La rivista pone in primo piano la natura delle cose, la sua indagine, dal punto di vista della scienza, della poesia, della filosofia e dell'arte --- Direttore responsabile: Piera Mattei --- Superstripes Press
giovedì 17 febbraio 2011
In fondo al nostro andare si apre una crescente luce, sull'autobiografia di uomo e scienziato di Giorgio Salvini
Scrivere una breve nota sul libro di Giorgio Salvini,"L'uomo un insieme aperto, la mia vita di fisico" proprio oggi che ricorre la data del rogo di Giordano Bruno, mi sembra un' ottima coincidenza. Il nome del grande filosofo e poeta nolano non ricorre nel libro di Salvini, tuttavia il senso d'appartenenza a un processo aperto e in qualche modo infinito, che il libro esprime con passione, ha un profondo sapore bruniano: In fondo al nostro andare, scrive Salvini, di decine e di centinaia di generazioni, si apre una crescente luce, che è il progresso della conoscenza scientifica e del nostro pensare.
Questo libro può anche essere letto come la storia di un ottimista, un uomo che ha saputo cogliere la sua fortuna, anche dalle situazioni più tragiche. Come quando, durante la guerra e il suo servizio nell'esercito, viene richiamato, perché le mura della sua casa sono state demolite e bruciate. Egli vede quella licenza per "distruzione dell'abitazione", proprio in coincidenza dell' 8 settembre,come il caso fortunato che gli risparmiò la fine crudele che toccò invece a moltissimi altri, al nord, dopo l'armistizio.
E' la storia di un uomo che ha avuto forti ambizioni, anche al di fuori della scienza, e che è stato capace di ridimensionarle, dov'era il caso. Ci piace ascoltare una voce sincera, quasi innocente, nel raccontare i suoi inizi come maestro elementare, mentre nel periodo di storia in cui la sorte gli aveva concesso di crescere e maturare, insegnava a classi numerosissime di ragazzini, lui poco più che ragazzino. Intanto preparava agli esami di licenza liceale. Oppure, di nuovo non risparmiandosi e lavorando, è il caso di dirlo, su due fronti, faceva il soldato o si teneva nascosto ai tedeschi e ai repubblichini, presso la facoltà di Fisica di Milano, mentre completava gli studi universitari o con l'aiuto di altri volenterosi, si apriva nuovi orizzonti di ricerca. Qualcun altro avrebbe fatto di quegli anni un intenso romanzo d'avventura, Salvini si contenta di indicare gli svincoli della sua fortunata, rapidissima carriera.
La vita gli ha riservato il ruolo di presidente dell' Istituto Nazionale di Fisica Nucleare a soli trentasei anni, un'età in cui oggi molti ancora si trascinano da una borsa di studio all'altra, certo per mancanza di migliori proposte ma anche per una "culturale" mancanza di spirito d'iniziativa. Professore Universitario al Roma per lunghissimi anni, Presidente dell'Accademia dei Linci, Ministro dell' Università e della ricerca scientifica (sotto il governo Dini1995-1996), Cavaliere di Gran Croce per nomina di Luigi Scalfaro, per non citare che alcuni dei più impegnativi e importanti ruoli e riconoscimenti, è singolare che nel paragrafo "Morte, immortalità" voglia presentare, come esempio di quanto è stato e resta pertanto, nell'oceano dell'essere, indistruttibile, il ricordo del suo maestro di scuola elementare, di cui fa il nome, Carlo Fontana: Mi regalò un libro, con una bella dedica, "Il teatro dei burattini" di Yambo, che conservo ancora, e forse saprei ripetere a memoria.
PIERA MATTEI
17 febbraio 2011: 411esimo anniversario del rogo di Giordano Bruno su Campo de' fiori
AL MAL CONTENTO
Se dal cinico dente sei trafitto,
lamentati di te barbaro perro:
Ch'in van mi mostri tuo bastone e ferro,
se non ti guardi da farmi dispitto.
Per che col torto mi venisti a dritto,
però tua pelle straccio e ti disserro:
e s'indi accade ch'il mio corpo atterro,
tuo vituperio è nel diamante scritto.
Non andar nudo a tòrre all'api il mèle
non morder se non sai s'è pietra o pane.
Non gir discalzo a seminar le spine.
Non spregiar, mosca, d'aragne le tele.
Se sorce sei, non seguitar le rane;
fuggi le volpi, o sangue di galline.
E credi all'Evangelo che dice di buon zelo:
dal nostro campo miete penitenza,
chi vi gittò d'errori la semenza.
(Sonetto introduttivo a "La cena delle ceneri" Londra 1584)
lunedì 14 febbraio 2011
roma 13 febbraio 2011: i volti delle donne (e dei loro compagni)
Una piccola galleria di volti, di persone presenti alla manifestazione di ieri a Roma, di donne che hanno issato cartelli, mostrato immagini inequivocabili. Una manifestazione al di sopra di ogni più ottimistica aspettativa, che dovremo scrivere come tappa iniziale di un processo di liberazione.
Liberazione, ben inteso, dall'ombra ingombrante, dalla strapotenza offensiva di un solo individuo sulla vita politica, culturale e ideale del nostro paese. Sì, vogliamo tornare ad avere ideali, prospettive. Come ha gridato dal palco la Camusso dovremo riappropriarci del senso delle parole, ripulirle dalla patina che le ha rese opache. Basta credere nelle bugie: l'interesse di un vecchio per le minorenni non è filantropismo, è malattia. Bloccare il parlamento o farlo funzionare ( a spese del contribuente) per sfuggire alla giustizia è fatto assai più grave: è un delitto contro lo Stato. A cui certo non pensa di appartenere chi allo stato intende fare causa.
Che dunque si volti pagina e che siano proprio quelle donne che mai riuscirebbe a comprare a farlo cadere dal piedistallo dove si è insediato, che scenda dal piedistallo e dalle sue scarpette. Che poi, infine, se proprio vuole, si dia, da privato cittadino, non più come rappresentante di un'intera nazione, agli svaghi che preferisce!
venerdì 11 febbraio 2011
Fare la poesia onesta: su "Il dono della notte"di Emilio Coco
Nel 1911 la rivista La Voce rifiutò la pubblicazione di un intervento di Umberto Saba dal titolo “Quel che resta da fare ai poeti”. Lo scritto, ritrovato fra le carte del poeta e pubblicato nel 1959, inizia rispondendo, senza preamboli o giri di parole, alla questione posta dal titolo: “ai poeti resta da fare la poesia onesta.” Il concetto di poesia onesta è stato preso a prestito da più di un autore come formula critica buona per ogni stagione, adattabile, anche oltre le intenzioni del poeta triestino, per smascherare presunte o reali disonestà in versi. La nozione di poesia onesta, vaga di per sé, lo diventa assai meno se riferita a quegli autori presi ad esempio da Saba, l’onesto Manzoni e il disonesto D’Annunzio. La falsità di quest’ultimo, in particolare, si esplicherebbe nel momento in cui “si esagera o addirittura si finge passioni e ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento; e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso.” In tale affermazione emerge un concetto che critici e poeti sembrano temere ed evitare con cura, quel “peccato contro lo spirito”, quella falsità interiore, quella menzogna dell’essere se stessi, che sarebbe causa e conseguenza allo stesso tempo di una poesia disonesta. Si chiederebbero, dunque, al lettore di versi, sia esso o meno un critico di professione, un’esperienza umana, un palpito ineffabile, la messa a nudo di sentimenti, dolori, passioni, esperienze dello spirito prima di un’analisi chirurgica del verso. Insomma la poesia onesta è quella che si abbevera alla verità di un sentimento, riversando questa scossa, questa extrasistole nell’anima di chi legge. Immagino più di un sopracciglio alzarsi di fronte a queste parole (nella poesia contemporanea anima e spirito fanno più paura di tramonti e gabbiani), eppure non si possono non tenere a mente certe affermazione nel prendere in mano “Il dono della notte” del grande ispanista, traduttore e poeta pugliese Emilio Coco, pubblicato da Passigli nel 2009, con prefazione di Vincenzo Ananìa.
Libro pericoloso, che brucia, da maneggiare con cura perché scritto con il dolore della morte sui polpastrelli, da leggere e commentare senza falsi pudori o eroismi, con la compostezza di chi ha vegliato un fratello, Michele Coco, malato terminale e ne ha dato degna sepoltura. Scrive Vincenzo Ananìa nell’introduzione: “questo diario, in forma poetica, della fulminante malattia e dell’agonia e morte di Michele Coco, è un vero e proprio canto d’amore, di riconoscenza e di acuta nostalgia con accenti di inconsueta intensità.” Un diario dunque, scritto la notte al capezzale, ascoltando i tremiti e aspettando il passaggio delle giovani infermiere, un tempo fatto di umanità e canto, che è dono di poesia: “Aspettavo la notte come un dono,/ come il libro più bello da sfogliare/ insieme a te, e soffermarci a leggere/ io le tue traduzioni di Catullo,/ tu le mie dei baschi e catalani./ […]/ Ma la notte era interamente nostra,/ al buio con la nostra solitudine,/ e temevo il rintocco delle ore,/ pregavo Dio che l’alba non spuntasse.”
Il libro, testo dopo testo, è scandito dal rintocco delle ore notturne, dall’avvicendarsi dei turni al capezzale di parenti e medici, attraversando i reparti d’ospedale nel progredire della malattia. Ogni reparto è una sezione del libro: “Reparto neurochirurgia”, “Reparto geriatria e isolamento”, “Reparto lunga degenza”, fino a “Corpo assente” dove i versi si raccolgono per l’ultimo saluto. Eppure, anche nell’infinito dolore della perdita, questo è un testo pulito della retorica dello strazio. Vi è un’adesione meditata e consapevole all’endecasillabo come esercizio e preghiera, come adesione a una compostezza umana e letteraria che si esprime nella veglia solitaria e silenziosa sfidando sonno e fatica; e che in poesia è forma chiusa. Un verso, tuttavia, che è anche omaggio al fratello Michele, anello di trasmissione, insegnamento e condivisione di una passione che: “So che più non sarà com’era prima./ Anche se con ritardo ti ringrazio/ per avermi insegnato che in poesia/ è questione di musica e di ritmo./ […]/ M’iniziasti ai segreti di quel metro/ che amavi tanto: il bell’endecasillabo./ […]/ Tu con grande pazienza correggevi/ i miei versi insonori e un poco zoppi/ ed io mi tormentavo tutto il giorno/ a contare le sillabe battendo/ con le dita sul petto e sulla gamba./ So che più non sarà com’era prima.” Vi è dunque da notare che “Il dono della notte” è libro composto completamente da endecasillabi, cesellati con precisione e nettezza, come omaggio al fratello fine traduttore dei classici e maestro di metrica da una parte, ma anche come mezzo per decodificare e cristallizzare il dolore attraverso la sequenza obbligata di sillabe e accenti dall’altra. Si tratta di un testo che è totalmente onesto, non solo perché distilla la verità biografica della sofferenza e del distacco, ma in quanto non la esibisce cercando l’effetto iperbolico, fintamente ridotto a un minimalismo da stabat mater da condominio, lo si mette sulla carta con la stessa lucida determinazione delle lacrime sul fazzoletto. Si tratta di un rigore e una compostezza che appartengono all’uomo Emilio Coco, al professore e al traduttore, prima ancora che al poeta e alla sua metrica; che lo oppongono alla devastazione della malattia e della morte con una presenza fisica fatta di un amore silenzioso e ostinato. Si vedano i versi nei quali la corona delle persone intorno al capezzale del malato sembra costituire una barriera reale contro l’avanzare della morte: “Non le lasciamo spazio. Ci stringiamo/ tutt’intorno al tuo letto. Siamo cinque:/ […]/ formiamo tutti insieme una barriera/ per sbarrarle il passaggio e siamo vigili.”. È questa, in fondo, una funzione affidata alla poesia stessa, compagna fedele, a tratti contrapposta alla vacuità formale delle immagini sacre (campeggia spesso la figura del Santo di Pietrelcina) appese sopra i letti dei malati, ai quali non si risparmiano critiche per il business che vi gira intorno: “questa notte ho deciso di tradirti,/ di sostituirti nelle mie preghiere/ con un povero santo sconosciuto/ che ha pochissimi fans, forse nessuno,/ che non muove le folle e fa felici/ tour leaders, cappuccini e albergatori./ San Pellegrino Maria Laziosi/ è il nome del mio nuovo intercessore.” Emerge un rapporto complesso con il sacro e la tradizione nel quale si può essere con Dio (“Ti affido a lei e prego che ti accolga/ nel suo grembo dolente come il Cristo.” oppure “intercedi, ti prego, presso Dio/ perché quest’uomo cessi di soffrire”) o contro Dio (“Infermiere, li stacchi da quel muro,/ li porti via, li faccia scomparire./ Più non sopporto il loro sguardo idiota,” oppure “Non voglio più pregarti. Sono stanco./ È la mia decisione irrevocabile.” e oltre “Li miro e li rimiro nella luce/ che viene dalla Chiesa illuminata./ Che ci fate qui dentro? Basto io.”), ma mai senza. Poesia come preghiera (sincera, vera, spesso rotta in pianto), come compagna, come ultima testimonianza, come dono, e come riflessione sul sacro e sul mistero indecifrabile della vita, che proprio all’ultimo metro sembra rivelare un bagliore di luce. In tale contesto non è esclusa una prospettiva teleologica, affidata alla dimensione del ritrovarsi, nella poesia che chiude il libro: “Torneremo a incontrarci in quel paese/ dove il sole risplende tutto il giorno/ […]/ Lì resteremo eternamente giovani,/ faremo un girotondo coi poeti/ […]/ Ci apparteremo, mano nella mano,/ ricordando sciocchezze d’altri tempi,/ lontano dal frastuono della terra.”
I versi, soprattutto quelli maggiormente calcati sui classici tradotti dal fratello Michele, sono la lente per interpretarne gli eventi di una vita, il temperamento, le gesta, attraverso un immediato evemerismo familiare – e dolcissimo – nel quale il malato, al momento del trapasso, assume i caratteri di divinità olimpica: “Conteso da due donne, adori l’una,/ dall’altra sei bramato. E se quest’ultima/ per te sospira languida, ti burli/ del suo amore e insaziabile divori/ le labbra della prima. Ma l’inganno/ non dura a lungo e quando se ne accorge,/ sospinta da un’insana gelosia,/ medita come fartela pagare.”, versi nei quali echeggiano l’amata antologia palatina, Catullo, Saffo, Anacreonte, Alceo spesso citati, ma nei quali è adombrato il micidiale duello in corso fra la vita e la morte; un duello continuo, nella raccolta, come ha modo di rilevare Vincenzo Ananìa nella prefazione, sottolineando come la vita sia “in più punti del poema, in rapporto dialettico con la morte incombente.” Si tratta di versi che ne celebrano la bellezza divina, contesa, come si è visto, dalle donne: “Ragazzo, t’adoravo come un dio,/ un portentoso dio dai capelli/ ondulati e lucenti. Imbaldanzivi,/ corteggiato da tutte le ragazze/ dalla piazza di sopra a Santa chiara.” Oppure versi che calcano quelli di Mimnermo sulla “vecchiaia tremenda” come anticamera della morte: “Grigie le tempie e bianca la tua testa./ Poco tempo t’avanza, ma non temi/ il doloroso Tartaro, ché ancora/ l’amore t’irretisce coi suoi giochi.” Ne emerge il quadro di un uomo fuori dal comune, non solo per bellezza e statura, per le qualità umane, per la fame di vita, bellezza e giovinezza che non lo lasciano neanche nei momenti estremi, ma anche per le finissime qualità intellettuali di traduttore e letterato. Non è un caso che, mentre la raccolta si chiude con il testo “Torneremo a incontrarci in quel paese” già citato, incentrato sull’incontro fra i due fratelli dopo la morte, il penultimo testo è rivolto al rapporto di Michele con i suoi libri: “Che faranno i tuoi libri nello studio?/ È così che chiamavi quel garage/ di oltre sessanta metri che comprasti/ per ospitarli tutti in bella fila/ nei lucidi scaffali allineati/ fino al soffitto lungo le pareti./ […]/ Avvertirà qualcuno la mancanza/ di una carezza lieve sul suo dorso?/ Ti piangeranno i classici latini,/ il tuo amato Catullo, soprattutto?” Come a dire che subito prima dell’amore fraterno, vi è il legame tenacissimo instaurato con e attraverso la letteratura. Un legame che il lettore troverà nella personale esperienza di attraversamento di questo testo, lucido e disarmante nella sua bellezza esente di retorica: un dono di poesia del quale essere grati.
Luca Benassi
Libro pericoloso, che brucia, da maneggiare con cura perché scritto con il dolore della morte sui polpastrelli, da leggere e commentare senza falsi pudori o eroismi, con la compostezza di chi ha vegliato un fratello, Michele Coco, malato terminale e ne ha dato degna sepoltura. Scrive Vincenzo Ananìa nell’introduzione: “questo diario, in forma poetica, della fulminante malattia e dell’agonia e morte di Michele Coco, è un vero e proprio canto d’amore, di riconoscenza e di acuta nostalgia con accenti di inconsueta intensità.” Un diario dunque, scritto la notte al capezzale, ascoltando i tremiti e aspettando il passaggio delle giovani infermiere, un tempo fatto di umanità e canto, che è dono di poesia: “Aspettavo la notte come un dono,/ come il libro più bello da sfogliare/ insieme a te, e soffermarci a leggere/ io le tue traduzioni di Catullo,/ tu le mie dei baschi e catalani./ […]/ Ma la notte era interamente nostra,/ al buio con la nostra solitudine,/ e temevo il rintocco delle ore,/ pregavo Dio che l’alba non spuntasse.”
Il libro, testo dopo testo, è scandito dal rintocco delle ore notturne, dall’avvicendarsi dei turni al capezzale di parenti e medici, attraversando i reparti d’ospedale nel progredire della malattia. Ogni reparto è una sezione del libro: “Reparto neurochirurgia”, “Reparto geriatria e isolamento”, “Reparto lunga degenza”, fino a “Corpo assente” dove i versi si raccolgono per l’ultimo saluto. Eppure, anche nell’infinito dolore della perdita, questo è un testo pulito della retorica dello strazio. Vi è un’adesione meditata e consapevole all’endecasillabo come esercizio e preghiera, come adesione a una compostezza umana e letteraria che si esprime nella veglia solitaria e silenziosa sfidando sonno e fatica; e che in poesia è forma chiusa. Un verso, tuttavia, che è anche omaggio al fratello Michele, anello di trasmissione, insegnamento e condivisione di una passione che: “So che più non sarà com’era prima./ Anche se con ritardo ti ringrazio/ per avermi insegnato che in poesia/ è questione di musica e di ritmo./ […]/ M’iniziasti ai segreti di quel metro/ che amavi tanto: il bell’endecasillabo./ […]/ Tu con grande pazienza correggevi/ i miei versi insonori e un poco zoppi/ ed io mi tormentavo tutto il giorno/ a contare le sillabe battendo/ con le dita sul petto e sulla gamba./ So che più non sarà com’era prima.” Vi è dunque da notare che “Il dono della notte” è libro composto completamente da endecasillabi, cesellati con precisione e nettezza, come omaggio al fratello fine traduttore dei classici e maestro di metrica da una parte, ma anche come mezzo per decodificare e cristallizzare il dolore attraverso la sequenza obbligata di sillabe e accenti dall’altra. Si tratta di un testo che è totalmente onesto, non solo perché distilla la verità biografica della sofferenza e del distacco, ma in quanto non la esibisce cercando l’effetto iperbolico, fintamente ridotto a un minimalismo da stabat mater da condominio, lo si mette sulla carta con la stessa lucida determinazione delle lacrime sul fazzoletto. Si tratta di un rigore e una compostezza che appartengono all’uomo Emilio Coco, al professore e al traduttore, prima ancora che al poeta e alla sua metrica; che lo oppongono alla devastazione della malattia e della morte con una presenza fisica fatta di un amore silenzioso e ostinato. Si vedano i versi nei quali la corona delle persone intorno al capezzale del malato sembra costituire una barriera reale contro l’avanzare della morte: “Non le lasciamo spazio. Ci stringiamo/ tutt’intorno al tuo letto. Siamo cinque:/ […]/ formiamo tutti insieme una barriera/ per sbarrarle il passaggio e siamo vigili.”. È questa, in fondo, una funzione affidata alla poesia stessa, compagna fedele, a tratti contrapposta alla vacuità formale delle immagini sacre (campeggia spesso la figura del Santo di Pietrelcina) appese sopra i letti dei malati, ai quali non si risparmiano critiche per il business che vi gira intorno: “questa notte ho deciso di tradirti,/ di sostituirti nelle mie preghiere/ con un povero santo sconosciuto/ che ha pochissimi fans, forse nessuno,/ che non muove le folle e fa felici/ tour leaders, cappuccini e albergatori./ San Pellegrino Maria Laziosi/ è il nome del mio nuovo intercessore.” Emerge un rapporto complesso con il sacro e la tradizione nel quale si può essere con Dio (“Ti affido a lei e prego che ti accolga/ nel suo grembo dolente come il Cristo.” oppure “intercedi, ti prego, presso Dio/ perché quest’uomo cessi di soffrire”) o contro Dio (“Infermiere, li stacchi da quel muro,/ li porti via, li faccia scomparire./ Più non sopporto il loro sguardo idiota,” oppure “Non voglio più pregarti. Sono stanco./ È la mia decisione irrevocabile.” e oltre “Li miro e li rimiro nella luce/ che viene dalla Chiesa illuminata./ Che ci fate qui dentro? Basto io.”), ma mai senza. Poesia come preghiera (sincera, vera, spesso rotta in pianto), come compagna, come ultima testimonianza, come dono, e come riflessione sul sacro e sul mistero indecifrabile della vita, che proprio all’ultimo metro sembra rivelare un bagliore di luce. In tale contesto non è esclusa una prospettiva teleologica, affidata alla dimensione del ritrovarsi, nella poesia che chiude il libro: “Torneremo a incontrarci in quel paese/ dove il sole risplende tutto il giorno/ […]/ Lì resteremo eternamente giovani,/ faremo un girotondo coi poeti/ […]/ Ci apparteremo, mano nella mano,/ ricordando sciocchezze d’altri tempi,/ lontano dal frastuono della terra.”
I versi, soprattutto quelli maggiormente calcati sui classici tradotti dal fratello Michele, sono la lente per interpretarne gli eventi di una vita, il temperamento, le gesta, attraverso un immediato evemerismo familiare – e dolcissimo – nel quale il malato, al momento del trapasso, assume i caratteri di divinità olimpica: “Conteso da due donne, adori l’una,/ dall’altra sei bramato. E se quest’ultima/ per te sospira languida, ti burli/ del suo amore e insaziabile divori/ le labbra della prima. Ma l’inganno/ non dura a lungo e quando se ne accorge,/ sospinta da un’insana gelosia,/ medita come fartela pagare.”, versi nei quali echeggiano l’amata antologia palatina, Catullo, Saffo, Anacreonte, Alceo spesso citati, ma nei quali è adombrato il micidiale duello in corso fra la vita e la morte; un duello continuo, nella raccolta, come ha modo di rilevare Vincenzo Ananìa nella prefazione, sottolineando come la vita sia “in più punti del poema, in rapporto dialettico con la morte incombente.” Si tratta di versi che ne celebrano la bellezza divina, contesa, come si è visto, dalle donne: “Ragazzo, t’adoravo come un dio,/ un portentoso dio dai capelli/ ondulati e lucenti. Imbaldanzivi,/ corteggiato da tutte le ragazze/ dalla piazza di sopra a Santa chiara.” Oppure versi che calcano quelli di Mimnermo sulla “vecchiaia tremenda” come anticamera della morte: “Grigie le tempie e bianca la tua testa./ Poco tempo t’avanza, ma non temi/ il doloroso Tartaro, ché ancora/ l’amore t’irretisce coi suoi giochi.” Ne emerge il quadro di un uomo fuori dal comune, non solo per bellezza e statura, per le qualità umane, per la fame di vita, bellezza e giovinezza che non lo lasciano neanche nei momenti estremi, ma anche per le finissime qualità intellettuali di traduttore e letterato. Non è un caso che, mentre la raccolta si chiude con il testo “Torneremo a incontrarci in quel paese” già citato, incentrato sull’incontro fra i due fratelli dopo la morte, il penultimo testo è rivolto al rapporto di Michele con i suoi libri: “Che faranno i tuoi libri nello studio?/ È così che chiamavi quel garage/ di oltre sessanta metri che comprasti/ per ospitarli tutti in bella fila/ nei lucidi scaffali allineati/ fino al soffitto lungo le pareti./ […]/ Avvertirà qualcuno la mancanza/ di una carezza lieve sul suo dorso?/ Ti piangeranno i classici latini,/ il tuo amato Catullo, soprattutto?” Come a dire che subito prima dell’amore fraterno, vi è il legame tenacissimo instaurato con e attraverso la letteratura. Un legame che il lettore troverà nella personale esperienza di attraversamento di questo testo, lucido e disarmante nella sua bellezza esente di retorica: un dono di poesia del quale essere grati.
Luca Benassi
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