Può uno scrittore napoletano smettere di prendere Napoli a scenario delle sue trame? Oppure come la voce manterrà la cadenza ironica e orgogliosa di quella città, anche la fantasia continuerà a frequentare i luoghi dove, per la prima volta si accese? La Napoli di questo romanzo è Fuorigrotta, vera protagonista di questo romanzo, vero personaggio a tutto tondo, fondale di una black comedy, ritratto grottesco di una società.
Un contesto piccolo borghese: una coppia di professori di scuola media superiore, a cui per primi la cultura non dice proprio nulla. Come per molti, dietro il titolo, il ruolo presunto, ci sono il vuoto e la frustrazione. I valori sono sempre e solo il denaro e l'apparire. Anche se, la protagonista, Laura, ama i fiori e l'albero del suo giardino e, di certo, è una creatura buona. Potenzialmente, almeno agli inizi, una vittima del marito e della figlia e una creatura di cui prendersi gioco nell'ambiente di lavoro.
Napoli di Fuorigrotta è, secondo come soffia il vento, odore di monnezza o di corpi che si decompongono dal vicino cimitero, un vicino stravagante che va in giro travestito da Cristo, una madre che ne è fiera: non siamo lontani dalle atmosfere di certo surrealismo alla Totò. Ma i tempi sono cambiati, ora ciò che è vero non è soltanto quello che appare agli occhi della gente, ma quello che si vede in televisione, e il finale a sorpresa è la rivelazione di una realtà non solo napoletana.
Come in una favola, l'autore ha rinunciato a scavare psicologie, per designare archetipi, marionette, incapaci di uscire dal personaggio che il burattinaio ha ritagliato per loro. Ma il congegno è perfetto, i tasselli di una storia incredibile ma proprio per questo possibile, alla fine trovano tutti il loro incastro.
Sulla copertina si baciano, perfetti e bugiardi, una coppia di sposi da un quadro di Giovanna Picciau, che a me ricorda perché aveva curato delle esposizioni di suoi quadri, una cara amica gallerista, Sandra Gerace, anche lei una vera napoletana trapiantata a Roma, una di quelle che il loro accento e la loro arguzia partenopea, dopo anni e le esperienze più varie, non li dismettono mai.
Piera Mattei
Rivista diretta da Piera Mattei --- La rivista pone in primo piano la natura delle cose, la sua indagine, dal punto di vista della scienza, della poesia, della filosofia e dell'arte --- Direttore responsabile: Piera Mattei --- Superstripes Press
domenica 25 maggio 2008
Piera Mattei – FILIPPO LA PORTA – Diario di un patriota perplesso negli USA
Forse non c'è occasione più adatta che quella di un soggiorno di media durata, sei mesi, per sapersi guardare intorno con occhi vivaci, facendo confronti. E' la situazione ideale. Può significare contrarre alcune abitudini, ma senza che spuntino radici, senza che si trasformino in una sorta di necessità che impedisce di ricordare quando i gesti, i panorami, le parole intorno, erano diverse. Significa tenere sempre presente la distanza che separa dal ritorno, e cercare di fare tesoro di esperienze nuove da riutilizzare una volta tornati.
Filippo La Porta, reduce da un soggiorno, di sei mesi appunto, a New York, ha pubblicato questo agile libro "civile". Mettendo per una volta da parte l'analisi dei titoli e dei linguaggi, ha voluto portare a casa qualcosa di utile e provare a rinnovare, anche scanzonatamente ma fermamente, la coscienza di un'identità.
Dal di fuori si nota meglio: sembra che davvero i tempi siano maturi per uscire dal vezzo dell'autodenigrazione e riconoscere, quello che tutti al di fuori ci riconoscono, una sostanziale unità nei difetti, e nei pregi anche, fortunatamente. Forse di nuovo, come altre volte in tempi confusi o difficili, voci originali senza scadere nella predica e nella retorica, sapranno dirlo. La proposta di Filippo La Porta così la riassumiamo: l'importanza, forse la necessità, di un mito positivo che, con la guida di Primo Levi e dei Simpson, individua nell’"amore per la bellezza". Certo c'è bello e bello. La Divina Commedia non è una Lamborghini, la moda e il design non sono la cura e la genialità nel ridisegnare il paesaggio. E tuttavia il nostro amore per la bellezza, "resta pur sempre un'influente, suggestiva narrazione, non importa quanto ancora empiricamente fondata, diffusa nel mondo." Dipende solo da noi non disprezzare la nostra eredità, non dissiparla nella costruzione di parchi giochi per turisti di tutto il mondo.
Questo libro, semplice, agile, lo consiglio particolarmente ai giovani e giovanissimi. Non costerebbe loro un'eccessiva fatica leggerlo e forse alzerebbe loro il morale, ne trarrebbero spunti per letture e conversazioni. Potrebbero scalfire l'inclinazione a scimmiottare, a scimmiottarsi, sempre in maschera, sempre annoiati, a imporsi di fare quello che la società globale spietatamente suggerisce.
I più impegnati, perché ancora ce ne sono, avrebbero la conferma di non essere soli.
Quelli che quando viaggiano si sentono rimproverare un'identità in cui non si riconoscono, avrebbero qualche strumento in più per non inabissarsi nella vergogna.
Piera Mattei
Filippo La Porta, reduce da un soggiorno, di sei mesi appunto, a New York, ha pubblicato questo agile libro "civile". Mettendo per una volta da parte l'analisi dei titoli e dei linguaggi, ha voluto portare a casa qualcosa di utile e provare a rinnovare, anche scanzonatamente ma fermamente, la coscienza di un'identità.
Dal di fuori si nota meglio: sembra che davvero i tempi siano maturi per uscire dal vezzo dell'autodenigrazione e riconoscere, quello che tutti al di fuori ci riconoscono, una sostanziale unità nei difetti, e nei pregi anche, fortunatamente. Forse di nuovo, come altre volte in tempi confusi o difficili, voci originali senza scadere nella predica e nella retorica, sapranno dirlo. La proposta di Filippo La Porta così la riassumiamo: l'importanza, forse la necessità, di un mito positivo che, con la guida di Primo Levi e dei Simpson, individua nell’"amore per la bellezza". Certo c'è bello e bello. La Divina Commedia non è una Lamborghini, la moda e il design non sono la cura e la genialità nel ridisegnare il paesaggio. E tuttavia il nostro amore per la bellezza, "resta pur sempre un'influente, suggestiva narrazione, non importa quanto ancora empiricamente fondata, diffusa nel mondo." Dipende solo da noi non disprezzare la nostra eredità, non dissiparla nella costruzione di parchi giochi per turisti di tutto il mondo.
Questo libro, semplice, agile, lo consiglio particolarmente ai giovani e giovanissimi. Non costerebbe loro un'eccessiva fatica leggerlo e forse alzerebbe loro il morale, ne trarrebbero spunti per letture e conversazioni. Potrebbero scalfire l'inclinazione a scimmiottare, a scimmiottarsi, sempre in maschera, sempre annoiati, a imporsi di fare quello che la società globale spietatamente suggerisce.
I più impegnati, perché ancora ce ne sono, avrebbero la conferma di non essere soli.
Quelli che quando viaggiano si sentono rimproverare un'identità in cui non si riconoscono, avrebbero qualche strumento in più per non inabissarsi nella vergogna.
Piera Mattei
domenica 11 maggio 2008
Piera Mattei –Leoni per agnelli
La testimonianza di Nicola Poccia, studente di Fisica, mi ha fatto tornare in mente, per contrasto, il recente film di Robert Redford "Leoni per agnelli", che si muove, in parte almeno, sui temi dell'impegno e della guerra.
Lì un non più giovane professore, con un passato non rinnegato di contestatore, cercava di scuotere l'abulìa di uno studente bravo, ma deciso al disimpegno, di cui il junk food consumato con passivo posizionamento davanti al teleschermo, era solo indigesto simbolo.
Qui, nel caso di Nicola Poccia trovo all'opposto uno studente, un cittadino, un uomo, che non vorrebbe accomodarsi, non vorrebbe restarsene seduto a farsi invadere dalle morbose curiosità scatenate dai più insulsi (ma pervasivi) programmi TV. Potrebbe farlo per disperazione, se non troverà il modo di uscire da un sentimento di delusione e di smarrimento. Non vorrebbe neppure farsi occupare da impulsi aggressivi, da ciò che chiamiamo in senso metaforico e reale, la guerra.
Sono diversa da Redford-professore. Nonostante che da decenni io non sia più una studentessa, mi sento di somigliare di più a Nicola, in questo preciso momento. Mi sento smarrita, perplessa e delusa, anche se sto cercando di rimettermi in forze, di vaccinarmi con dosi abbondanti d'ironia. Le buone maniere sono un grande valore, certo. Ma, sono d'accordo, non possono esprimere l'intera sostanza di quanto si dice, di quanto si progetta.
Vorrei continuare con Nicola Poccia, studente di Fisica, e con molti altri, a fare chiarezza, con interventi brevi ma puntuali, sul nostro presente, su quanto riteniamo giusto, senza volere imporlo a tutti gli altri, ma cercando, senza pregiudizi quegli "altri" con cui il dibattito sia condivisibile.
Gli ambiti in cui vorrei continuare il dibattito:
I. Etica, Religioni, Chiese
II. Etica, Lingue, Letterature
Lì un non più giovane professore, con un passato non rinnegato di contestatore, cercava di scuotere l'abulìa di uno studente bravo, ma deciso al disimpegno, di cui il junk food consumato con passivo posizionamento davanti al teleschermo, era solo indigesto simbolo.
Qui, nel caso di Nicola Poccia trovo all'opposto uno studente, un cittadino, un uomo, che non vorrebbe accomodarsi, non vorrebbe restarsene seduto a farsi invadere dalle morbose curiosità scatenate dai più insulsi (ma pervasivi) programmi TV. Potrebbe farlo per disperazione, se non troverà il modo di uscire da un sentimento di delusione e di smarrimento. Non vorrebbe neppure farsi occupare da impulsi aggressivi, da ciò che chiamiamo in senso metaforico e reale, la guerra.
Sono diversa da Redford-professore. Nonostante che da decenni io non sia più una studentessa, mi sento di somigliare di più a Nicola, in questo preciso momento. Mi sento smarrita, perplessa e delusa, anche se sto cercando di rimettermi in forze, di vaccinarmi con dosi abbondanti d'ironia. Le buone maniere sono un grande valore, certo. Ma, sono d'accordo, non possono esprimere l'intera sostanza di quanto si dice, di quanto si progetta.
Vorrei continuare con Nicola Poccia, studente di Fisica, e con molti altri, a fare chiarezza, con interventi brevi ma puntuali, sul nostro presente, su quanto riteniamo giusto, senza volere imporlo a tutti gli altri, ma cercando, senza pregiudizi quegli "altri" con cui il dibattito sia condivisibile.
Gli ambiti in cui vorrei continuare il dibattito:
I. Etica, Religioni, Chiese
II. Etica, Lingue, Letterature
Un'opposizione accomodante di Nicola Poccia
Accomodante. Un amico democratico è accomodante.
“Prego si accomodi, parliamone…”
E’ un’opposizione accomodante. Una volta adagiati, lo spettacolo può cominciare.
Sento di aver bisogno d’autorità e di cose scomode.
Proviamo quindi a pensare. Studiando la scienza ho imparato a mie spese che riflettere è faticoso e spesso non conduce da nessuna parte. Anzi è un perverso trastullo delle animose proteine del cervello.
Con una filosofia che patteggia per un quieto divenire, per un’opposizione accomodante, ogni pensiero converge verso il risparmio e allora perché non chiedermi dell’ultima ragazza di un Mario del Grande Fratello o dell’ultima esternazione del vip di turno?
E’ triste vivere quando non c’è più nulla da conquistare, quando un uomo che ama la pace, sente un subdolo richiamo alla guerra. C’è solo un orizzonte piatto senza opposizioni o rugosità; è una cosa che ci accomuna alla melanconia di un cane abbandonato.
Credetemi, dopotutto, non era questa la pace che volevo.
Nicola Poccia.
“Prego si accomodi, parliamone…”
E’ un’opposizione accomodante. Una volta adagiati, lo spettacolo può cominciare.
Sento di aver bisogno d’autorità e di cose scomode.
Proviamo quindi a pensare. Studiando la scienza ho imparato a mie spese che riflettere è faticoso e spesso non conduce da nessuna parte. Anzi è un perverso trastullo delle animose proteine del cervello.
Con una filosofia che patteggia per un quieto divenire, per un’opposizione accomodante, ogni pensiero converge verso il risparmio e allora perché non chiedermi dell’ultima ragazza di un Mario del Grande Fratello o dell’ultima esternazione del vip di turno?
E’ triste vivere quando non c’è più nulla da conquistare, quando un uomo che ama la pace, sente un subdolo richiamo alla guerra. C’è solo un orizzonte piatto senza opposizioni o rugosità; è una cosa che ci accomuna alla melanconia di un cane abbandonato.
Credetemi, dopotutto, non era questa la pace che volevo.
Nicola Poccia.
Iscriviti a:
Post (Atom)