Pensavamo di aver chiuso per quest'anno. Eppure, proprio oggi, 31 dicembre, l'anno allo stremo ce ne propone un'altra.
L'immutabilità, l'immobilità.
Già Galilei aveva avuto a che fare con questi concetti.
"Eppur si muove!" sembra abbia esclamato.
Ma se d'immutabilità si deve parlare,
che rapporto c'è tra la chiesa di oggi, la sua ricchezza, il suo potere, le sue guardie del corpo, i suoi cappelli bordati d'ermellino
e i semplici amici e discepoli di Cristo, paghi e presi dal suo esempio e dalla sua parola, così come ce li descrivono i Vangeli?
Rivista diretta da Piera Mattei --- La rivista pone in primo piano la natura delle cose, la sua indagine, dal punto di vista della scienza, della poesia, della filosofia e dell'arte --- Direttore responsabile: Piera Mattei --- Superstripes Press
mercoledì 31 dicembre 2008
giovedì 25 dicembre 2008
Piera Mattei - OGGI, 25 DICEMBRE 2008
Sono nati di sesso maschile i bambini che hanno fatto tremare il mondo di gioia.
Eppure la novità di un sacro bambino è apportatrice di mutamenti non incruenti. Un bambino sacro trascina nel suo manto regale il sole e le stelle, ma anche la sfera del mondo.
Chi quella sfera guardasse dall'alto vedrebbe il rosso di cui si tinge il corpo volatile intorno. Rosso del sangue che, ogni giorno, quasi dovunque, cola dai corpi di creature delle quali la vita col sangue si versa. Nei mattatoi (ah, con quale sicurezza d'innocenza!) e, con variate ammissioni di colpa, sulle strade, nei cantieri, nei bracci stretti di mare, infine nelle città, sui ponti e le strade, sotto le bombe, corpi viventi mirati da fucili o pistole, impiccati.
Tutto quel sangue esala e si specchia nella nostra rossa atmosfera. Al di sotto di quella, dalla solida sfera del mondo, si solleva il grido orgoglioso. Anche nel nome del sacro bambino, con santità ipocrita gridano: " Io sono il migliore, il più forte, il più nobile e ricco. Io combatterò per il Bene, in nome di Colui che è il Santo. Combatterò quelli che non sono simili a me e combatterò anche quelli simili, perché sia evidente che io sono il migliore."
In nome del Santo?
Il sacro bambino non sa dire, la sua bocca non articola suoni. E tuttavia è riconoscibile anche dal pianto. Perché il bambino sacro, se ha fame, ha un solo modo per chiedere. Un pianto già degno di profondo rispetto.
Una stella mossa da quelle note di infantile richiesta, devia dal suo percorso. Da capitali diverse si mettono in cammino i tre re astronomi. Il cielo racconta la corrispondenza tra i moti degli astri e gli eventi del mondo. Ma i maghi non sono paghi del racconto. Con pupille ansiose vogliono vedere. Anche se presto la morte cancellerà in loro il ricordo. Sono vecchi, sono giovani, i re maghi? Sempre presto giunge la fine e cancellare i ricordi.
Un'immagine resterà di loro, adulti e gravi, genuflessi a un bambino. L'orgoglio, le ginocchia dolenti non impediranno quel gesto. Davanti a un neonato s'inginocchiano. Intorno al capo gli dispongono un'aureola di luce. Il bambino è sereno. Mai, durante la lunga stupita adorazione, ride infantilmente o infantilmente si compiace dei doni che profumano e brillano.
La madre – deve mantenere un segreto – lo guarda mentre succhia il suo latte. Il suo bambino, neonato, ha nella struttura qualcosa di completo. Presto articola parole, senza sbagliare.
Alla circoncisione esplode in un grido, poi più nulla, neppure quel calmo pigolare che emettono i bambini per farsi coraggio. Perché della legge lui sa, che bisogna obbedirle. Un bambino a cui la madre amorosa deterge il sangue sul piccolo pene.
Anche la nascita di Maria si era annunciata eccezionale, perché allietava la vita di due vecchi.
L'iconografia ha descritto, parlando di quella nascita, la premura delle donne, l'accoglienza femminile degli interni. Le fasce, i bacili, il letto, nessuna miracolosa presenza, nessun estraneo che da lontano sappia, riconosca l'eccezionalità dell'evento.
Poi il fidanzamento, la visita dell'Angelo. Il segreto. Perché non poteva gridare, annunciare lei stessa di chi fosse figlio suo figlio? Un destino tutto e solo femminile. Il figlio che tiene al seno. Quante tele la ritraggono in quell'atteggiamento, non solo di nutrice, ma di colonna, sulle gambe salde un bambino robusto incapace di camminare, ancora incapace, per molti mesi, e nudo. Poi lo ritroviamo, il divino fanciullo, disobbediente, allontanato dalla vista dei genitori: "vedi, tua madre e io ti andavamo cercando..."
Tua madre.
Lei, più tardi, da sola, accanto al figlio a suggerire, a spingere al passo di denunciarsi al mondo, nella sua identità assoluta. "Vinum non habent". Coraggio, aiutali, che bevano tutti gli invitati alla festa di nozze. Perché la madre è ancora così prossima? Suggerisce comportamenti al figlio già adulto. E lui perché non si sposa? Lui che benedice le nozze di altri.
Una madre si pone queste domande con un misto di orgoglio e paura: perché il figlio non si allontana? Perché si fa notare con la madre, ai banchetti?
Presto di lei si dimentica. Mai di lei fa cenno nei discorsi con cugini e discepoli. Lei non è presente alla cena, quando consapevole della tragedia imminente, con i suoi lui condivide il pane e il vino.
Lo ritrova su una croce, punito con morte di croce, tra due malviventi. Torna a tenerlo in braccio livido e senza vita.
Non è con le donne che lo hanno visto risorto. Nelle immagini medioevali, il figlio tornerà quando lei si troverà sul letto di morte, per accogliere tra le braccia l'anima di lei: l'anima di sua madre, una bambina in fasce. E allora finalmente la madre potrà riposare, tornata piccola e protetta, figlia del suo stesso figlio.
Eppure la novità di un sacro bambino è apportatrice di mutamenti non incruenti. Un bambino sacro trascina nel suo manto regale il sole e le stelle, ma anche la sfera del mondo.
Chi quella sfera guardasse dall'alto vedrebbe il rosso di cui si tinge il corpo volatile intorno. Rosso del sangue che, ogni giorno, quasi dovunque, cola dai corpi di creature delle quali la vita col sangue si versa. Nei mattatoi (ah, con quale sicurezza d'innocenza!) e, con variate ammissioni di colpa, sulle strade, nei cantieri, nei bracci stretti di mare, infine nelle città, sui ponti e le strade, sotto le bombe, corpi viventi mirati da fucili o pistole, impiccati.
Tutto quel sangue esala e si specchia nella nostra rossa atmosfera. Al di sotto di quella, dalla solida sfera del mondo, si solleva il grido orgoglioso. Anche nel nome del sacro bambino, con santità ipocrita gridano: " Io sono il migliore, il più forte, il più nobile e ricco. Io combatterò per il Bene, in nome di Colui che è il Santo. Combatterò quelli che non sono simili a me e combatterò anche quelli simili, perché sia evidente che io sono il migliore."
In nome del Santo?
Il sacro bambino non sa dire, la sua bocca non articola suoni. E tuttavia è riconoscibile anche dal pianto. Perché il bambino sacro, se ha fame, ha un solo modo per chiedere. Un pianto già degno di profondo rispetto.
Una stella mossa da quelle note di infantile richiesta, devia dal suo percorso. Da capitali diverse si mettono in cammino i tre re astronomi. Il cielo racconta la corrispondenza tra i moti degli astri e gli eventi del mondo. Ma i maghi non sono paghi del racconto. Con pupille ansiose vogliono vedere. Anche se presto la morte cancellerà in loro il ricordo. Sono vecchi, sono giovani, i re maghi? Sempre presto giunge la fine e cancellare i ricordi.
Un'immagine resterà di loro, adulti e gravi, genuflessi a un bambino. L'orgoglio, le ginocchia dolenti non impediranno quel gesto. Davanti a un neonato s'inginocchiano. Intorno al capo gli dispongono un'aureola di luce. Il bambino è sereno. Mai, durante la lunga stupita adorazione, ride infantilmente o infantilmente si compiace dei doni che profumano e brillano.
La madre – deve mantenere un segreto – lo guarda mentre succhia il suo latte. Il suo bambino, neonato, ha nella struttura qualcosa di completo. Presto articola parole, senza sbagliare.
Alla circoncisione esplode in un grido, poi più nulla, neppure quel calmo pigolare che emettono i bambini per farsi coraggio. Perché della legge lui sa, che bisogna obbedirle. Un bambino a cui la madre amorosa deterge il sangue sul piccolo pene.
Anche la nascita di Maria si era annunciata eccezionale, perché allietava la vita di due vecchi.
L'iconografia ha descritto, parlando di quella nascita, la premura delle donne, l'accoglienza femminile degli interni. Le fasce, i bacili, il letto, nessuna miracolosa presenza, nessun estraneo che da lontano sappia, riconosca l'eccezionalità dell'evento.
Poi il fidanzamento, la visita dell'Angelo. Il segreto. Perché non poteva gridare, annunciare lei stessa di chi fosse figlio suo figlio? Un destino tutto e solo femminile. Il figlio che tiene al seno. Quante tele la ritraggono in quell'atteggiamento, non solo di nutrice, ma di colonna, sulle gambe salde un bambino robusto incapace di camminare, ancora incapace, per molti mesi, e nudo. Poi lo ritroviamo, il divino fanciullo, disobbediente, allontanato dalla vista dei genitori: "vedi, tua madre e io ti andavamo cercando..."
Tua madre.
Lei, più tardi, da sola, accanto al figlio a suggerire, a spingere al passo di denunciarsi al mondo, nella sua identità assoluta. "Vinum non habent". Coraggio, aiutali, che bevano tutti gli invitati alla festa di nozze. Perché la madre è ancora così prossima? Suggerisce comportamenti al figlio già adulto. E lui perché non si sposa? Lui che benedice le nozze di altri.
Una madre si pone queste domande con un misto di orgoglio e paura: perché il figlio non si allontana? Perché si fa notare con la madre, ai banchetti?
Presto di lei si dimentica. Mai di lei fa cenno nei discorsi con cugini e discepoli. Lei non è presente alla cena, quando consapevole della tragedia imminente, con i suoi lui condivide il pane e il vino.
Lo ritrova su una croce, punito con morte di croce, tra due malviventi. Torna a tenerlo in braccio livido e senza vita.
Non è con le donne che lo hanno visto risorto. Nelle immagini medioevali, il figlio tornerà quando lei si troverà sul letto di morte, per accogliere tra le braccia l'anima di lei: l'anima di sua madre, una bambina in fasce. E allora finalmente la madre potrà riposare, tornata piccola e protetta, figlia del suo stesso figlio.
sabato 13 dicembre 2008
Socrates – L'editore, le problematiche
Ho conosciuto da qualche tempo una donna intelligente e coraggiosa e anche, non in ultimo, giustamente ambiziosa. Il suo nome è Louise Read ed è l'editrice Socrates. Forse il requisito dell'intelligenza potrebbe sembrare scontato, imprescindibile, per una categoria che si occupa dell'industria culturale. Purtroppo non è così. Molti degli editori che nascono ogni giorno, vogliono essere più che intelligenti, astuti, e con questa scelta finiscono per tradire la cultura.
A Louise Read piace scovare i suoi libri, e scavare intorno a temi scottanti. Uno dei più recenti è un'indagine sull'uso della tortura nei paesi così detti "civili", o meglio, di punta nella civiltà occidentale. Metodi d'interrogatorio "irresistibili" elaborati purtroppo anche nell'ambito delle università. Ma Socrates pubblica anche libri di più facile lettura, seleziona e acquista diritti di traduzione per romanzi che uniscono, alla piacevolezza della scrittura, critiche indirette e non banali delle società che sottintendono.
Mi riferisco in particolare al libro di Kathleen Ferguson, un'autrice contemporanea irlandese, "Storia di una perpetua", nella traduzione di Roberto Bertoni. La voce narrante è quella di una ragazza, educata in un orfanotrofio. Uscita di lì, per trentatré anni è la perpetua di un prete che protegge e platonicamente ama, quasi come fosse un figlio. Fino a che la demenza del suo "Padre" non la fa ritrovare senza casa e senza lavoro, ma finalmente, per la prima volta, mentalmente e fisicamente libera. E' un libro che parla di un cattolicesimo stantìo, in zona di confine confessionale – il confronto è sempre con la responsabilità individuale della mentalità protestante. Infatti protestante è il padre della perpetua, un uomo passionale che contro la moglie che lo esasperava col suo fanatismo cattolico ha usato la violenza fino a procurarne la morte e paga la sua colpa ormai in un manicomio criminale, lucido tuttavia abbastanza per analizzare le sue colpe e quelle della società in cui vive.
E' di questo personaggio una battuta che mi è sembrata in qualche modo adattarsi a quella che è ancora oggi, ma forse più violenta che mai, la polemica cattolica sulla famiglia. Dice l'uomo:
"Non hanno il coraggio di fare dei figli, perciò tengono sotto controllo i figli degli altri".
Direi, più ampiamente, la fertilità degli altri.
Pensavo al libro della Ferguson ieri, mentre ascoltavo alla radio l'espressione "sterminio di bambini non nati", registrando mentalmente un raro esempio di logica ossimorica. Come si può infatti uccidere, o addirittura sterminare, chi non è nato? E sono sopratutto le donne, queste sterminatrici, le nostre madri e nonne, noi stesse forse?
Volendo essere conseguenti, se l'imperativo morale è quello della riproduzione, dovrebbe valere per tutti. Nessuno dovrebbe pensare più conveniente per sé, addirittura più giusto e più santo, di astenersi dalla vita riproduttiva, per stabilirne poi le leggi valide per gli altri, come anche afferma, nel romanzo, il personaggio di Mr. Keen. Kantianamente insomma la massima delle azioni del singolo dovrebbe poter valere come legge universale.
Nel libro della Ferguson il cattolicesimo è una pesante coperta gettata sulla mente e la sensibilità dell'individuo in formazione, un obbligo che ha motivazioni fuori della responsabilità individuale e risiede nell'obbedienza a un ordine di cose di cui la protagonista conosce, dal di dentro e dettagliatamente come domestica di un prete, tutta la falsità.
Un bel libro, triste, ma anche, con tutta naturalezza, umoristico. Serve a riflettere sulla mentalità "educatrice" cattolica, che pretende di essere, dalle sue gerarchie, la voce stessa di Dio.
Piera Mattei
A Louise Read piace scovare i suoi libri, e scavare intorno a temi scottanti. Uno dei più recenti è un'indagine sull'uso della tortura nei paesi così detti "civili", o meglio, di punta nella civiltà occidentale. Metodi d'interrogatorio "irresistibili" elaborati purtroppo anche nell'ambito delle università. Ma Socrates pubblica anche libri di più facile lettura, seleziona e acquista diritti di traduzione per romanzi che uniscono, alla piacevolezza della scrittura, critiche indirette e non banali delle società che sottintendono.
Mi riferisco in particolare al libro di Kathleen Ferguson, un'autrice contemporanea irlandese, "Storia di una perpetua", nella traduzione di Roberto Bertoni. La voce narrante è quella di una ragazza, educata in un orfanotrofio. Uscita di lì, per trentatré anni è la perpetua di un prete che protegge e platonicamente ama, quasi come fosse un figlio. Fino a che la demenza del suo "Padre" non la fa ritrovare senza casa e senza lavoro, ma finalmente, per la prima volta, mentalmente e fisicamente libera. E' un libro che parla di un cattolicesimo stantìo, in zona di confine confessionale – il confronto è sempre con la responsabilità individuale della mentalità protestante. Infatti protestante è il padre della perpetua, un uomo passionale che contro la moglie che lo esasperava col suo fanatismo cattolico ha usato la violenza fino a procurarne la morte e paga la sua colpa ormai in un manicomio criminale, lucido tuttavia abbastanza per analizzare le sue colpe e quelle della società in cui vive.
E' di questo personaggio una battuta che mi è sembrata in qualche modo adattarsi a quella che è ancora oggi, ma forse più violenta che mai, la polemica cattolica sulla famiglia. Dice l'uomo:
"Non hanno il coraggio di fare dei figli, perciò tengono sotto controllo i figli degli altri".
Direi, più ampiamente, la fertilità degli altri.
Pensavo al libro della Ferguson ieri, mentre ascoltavo alla radio l'espressione "sterminio di bambini non nati", registrando mentalmente un raro esempio di logica ossimorica. Come si può infatti uccidere, o addirittura sterminare, chi non è nato? E sono sopratutto le donne, queste sterminatrici, le nostre madri e nonne, noi stesse forse?
Volendo essere conseguenti, se l'imperativo morale è quello della riproduzione, dovrebbe valere per tutti. Nessuno dovrebbe pensare più conveniente per sé, addirittura più giusto e più santo, di astenersi dalla vita riproduttiva, per stabilirne poi le leggi valide per gli altri, come anche afferma, nel romanzo, il personaggio di Mr. Keen. Kantianamente insomma la massima delle azioni del singolo dovrebbe poter valere come legge universale.
Nel libro della Ferguson il cattolicesimo è una pesante coperta gettata sulla mente e la sensibilità dell'individuo in formazione, un obbligo che ha motivazioni fuori della responsabilità individuale e risiede nell'obbedienza a un ordine di cose di cui la protagonista conosce, dal di dentro e dettagliatamente come domestica di un prete, tutta la falsità.
Un bel libro, triste, ma anche, con tutta naturalezza, umoristico. Serve a riflettere sulla mentalità "educatrice" cattolica, che pretende di essere, dalle sue gerarchie, la voce stessa di Dio.
Piera Mattei
sabato 29 novembre 2008
L'abito e il monaco
L'altro ieri, a Milano, dopo il seminario su Antonia Pozzi, mi sono ritrovata con una monaca anziana nell'antibagno della toilette dell'aula conferenze dell'Università Statale. Lei si sistemava la cuffia davanti allo specchio. Mi è venuto fatto di chiedermi a cosa pensano i preti, quelli che indossano gli abiti delle alte gerarchie, quando si guardano allo specchio.
giovedì 27 novembre 2008
Piera Mattei – A proposito dei Dialoghi italo-israeliani
Ai Dialoghi partecipano, in questo fine novembre 2008, scrittori, critici, letterati e traduttori dei due paesi. La letteratura è un universo che rispecchia realtà diverse che conducono "a un'apertura verso più verità date e verso più verità possibili (Ferroni-Lezione d'apertura)".
Niente di più evidente, in una terra di differenze e conflitti che non potranno risolversi se non nel riconoscimento della reciproca alterità e nel rispetto di quanto quell' alterità rappresenta. Tuttavia la particolare situazione della letteratura in Israele diventa emblematica del ruolo della letteratura, sempre, nei confronti dei dogmatismi e delle verità assolute.
Ogni autore "pensante" ( si sarebbe detto in altri tempi "impegnato" ma da molto tempo il termine è caduto in disgrazia), mediante la pubblicazione, si assume la responsabilità di rendere accessibile ad altri il suo pensiero, con l'implicita certezza di enunciare "una" diversa verità, o almeno un senso altrimenti nascosto o celato di quella. S'impegna inoltre a sollecitare, in ogni suo lettore, il consenso su "quel" pensiero che aveva chiesto di essere espresso, quasi lui stesso ne fosse non il creatore ma, l'inventore (in senso etimologico) e il diffusore.
L'assunzione di verità assolute, dogmatiche, è d'ostacolo a questo processo d'invenzione e ricerca, sia che la sua realizzazione avvenga attraverso l'arte che con i metodi della scienza.
Rispetto al Bello e al Vero (alla BellezzaVerità), a livelli diversi, l'adeguamento acritico a modelli imperanti, la delega a chi si assume la responsabilità di interpretare per tutti gli altri la verità – chiese di varia natura – porta al sonno della creatività, della ricerca.
Piera Mattei
Niente di più evidente, in una terra di differenze e conflitti che non potranno risolversi se non nel riconoscimento della reciproca alterità e nel rispetto di quanto quell' alterità rappresenta. Tuttavia la particolare situazione della letteratura in Israele diventa emblematica del ruolo della letteratura, sempre, nei confronti dei dogmatismi e delle verità assolute.
Ogni autore "pensante" ( si sarebbe detto in altri tempi "impegnato" ma da molto tempo il termine è caduto in disgrazia), mediante la pubblicazione, si assume la responsabilità di rendere accessibile ad altri il suo pensiero, con l'implicita certezza di enunciare "una" diversa verità, o almeno un senso altrimenti nascosto o celato di quella. S'impegna inoltre a sollecitare, in ogni suo lettore, il consenso su "quel" pensiero che aveva chiesto di essere espresso, quasi lui stesso ne fosse non il creatore ma, l'inventore (in senso etimologico) e il diffusore.
L'assunzione di verità assolute, dogmatiche, è d'ostacolo a questo processo d'invenzione e ricerca, sia che la sua realizzazione avvenga attraverso l'arte che con i metodi della scienza.
Rispetto al Bello e al Vero (alla BellezzaVerità), a livelli diversi, l'adeguamento acritico a modelli imperanti, la delega a chi si assume la responsabilità di interpretare per tutti gli altri la verità – chiese di varia natura – porta al sonno della creatività, della ricerca.
Piera Mattei
martedì 18 novembre 2008
Piera Mattei –A proposito di vita e amore, di libertà e chiesa, della voce di grandi poeti e di quella di poeti intrusi
Vogliamo vivere pienamente umani, liberi da costrizioni che altri uomini, i Potenti, vorrebbero imporre alle nostre menti, con offesa per la libertà e la dignità della vita.
In questi giorni di grandi dibattiti, su quale limite segni il trapasso e cosa richieda la dignità del trapasso, mi hanno raggiunto le parole di Keats e Shelley. I veri poeti hanno voce in proposito.
Questa è la speranza: che anche in tempi lunghissimi, ma subito nella mente e nel cuore di molti, i veri poeti, non gli intrusi spacciatori di insulsa poesia e di falsa pietà, celebrino il loro trionfo.
_______________
I loved–elas! our live is love;
But when we cease to breathe and move
I do suppose love ceases too.
…..
Ahimé, ho amato, la nostra vita è amore.
Ma quando cessa il movimento e il respiro
penserò che cessi anche l'amore.
…..
(P. B. Shelley – Canto per "Tasso")
The church bells toll a melancholy round
[…]
Still, still they toll, and I sould feel a damp,
A chill as from a tomb, did I not know
That they are going like an outburnt lamp;
That 'tis their sighing, wailing ere they go
Into oblivion; that fresh flowers will grow,
And many glories of immortal stamp.
Rintoccano le campane della chiesa una ronda malinconica
[…]
ancora e ancora rintoccano e dovrei sentire un'oppressione
un freddo come esalato da una tomba, se non sapessi
che vanno come una lanterna allo stremo;
che questo è il sospiro, il lamento mentre
scendono nell'oblio; che freschi fiori cresceranno
e ancora glorie di natura immortale.
(J. Keats – Written in disgust of vulgar superstition)
Piera Mattei
In questi giorni di grandi dibattiti, su quale limite segni il trapasso e cosa richieda la dignità del trapasso, mi hanno raggiunto le parole di Keats e Shelley. I veri poeti hanno voce in proposito.
Questa è la speranza: che anche in tempi lunghissimi, ma subito nella mente e nel cuore di molti, i veri poeti, non gli intrusi spacciatori di insulsa poesia e di falsa pietà, celebrino il loro trionfo.
_______________
I loved–elas! our live is love;
But when we cease to breathe and move
I do suppose love ceases too.
…..
Ahimé, ho amato, la nostra vita è amore.
Ma quando cessa il movimento e il respiro
penserò che cessi anche l'amore.
…..
(P. B. Shelley – Canto per "Tasso")
The church bells toll a melancholy round
[…]
Still, still they toll, and I sould feel a damp,
A chill as from a tomb, did I not know
That they are going like an outburnt lamp;
That 'tis their sighing, wailing ere they go
Into oblivion; that fresh flowers will grow,
And many glories of immortal stamp.
Rintoccano le campane della chiesa una ronda malinconica
[…]
ancora e ancora rintoccano e dovrei sentire un'oppressione
un freddo come esalato da una tomba, se non sapessi
che vanno come una lanterna allo stremo;
che questo è il sospiro, il lamento mentre
scendono nell'oblio; che freschi fiori cresceranno
e ancora glorie di natura immortale.
(J. Keats – Written in disgust of vulgar superstition)
Piera Mattei
mercoledì 5 novembre 2008
2. Piera Mattei – OBAMA: SODDISFAZIONE E AUTOCRITICA
Finalmente possiamo sperare in un'America che realizzi i suoi principi democratici. Già lo svolgimento di queste elezioni sembra darne una prova. Sono andata ripetendo per anni che la politica mondiale poteva cambiare solo se l'America dal suo interno avesse prodotto un cambiamento profondo. Ricordo nel 1991 un lite violentissima con un amico, un noto giornalista che porta l'America nel cuore, a cui questa mia dichiarazione sembrò forse un augurio di rivoluzione civile. Sembra invece che un CHANGE, sia possibile seguendo fedelmente le regole democratiche, anzi attivandole. E mi sento orgogliosa d'averlo atteso quel cambiamento e di vederne oggi le solide premesse.
Infine noi, l' Italia, serva Italia di dolore ostello! Noi, caduti nella recidiva di un governo Berlusconi, noi e la Lega delle piccole rivendicazioni di gravi conseguenze, dei minuscoli paricolarismi che rendono gretta la nostra politica e la nostra cultura, che è stata in altri periodi storici, universale e universalistica. Noi, che oggi festeggiamo l'evento storico di questa elezione, ci sentiamo al confronto umiliati, perché costretti a rendere nel mondo un'immagine meschina e talvolta risibile.
Noi che quando vogliamo ispirarci all'America democratica facciamo cattive traduzioni. "Yes, we can" è: "Sì, noi possiamo farlo" (riempiendo di contenuti quel suffisso pronominale). "Si può fare" che è stata la traduzione prescelta in campagna elettorale dal nostro Partito democratico, è una cattiva traduzione perché introduce una sfumatura bonacciona e accomodante, quella italianità, mi permetto di dire, in cui non mi riconosco, che ci danneggia e che dobbiamo, sì, se vogliamo sopravvivere, veramente CAMBIARE.
Infine noi, l' Italia, serva Italia di dolore ostello! Noi, caduti nella recidiva di un governo Berlusconi, noi e la Lega delle piccole rivendicazioni di gravi conseguenze, dei minuscoli paricolarismi che rendono gretta la nostra politica e la nostra cultura, che è stata in altri periodi storici, universale e universalistica. Noi, che oggi festeggiamo l'evento storico di questa elezione, ci sentiamo al confronto umiliati, perché costretti a rendere nel mondo un'immagine meschina e talvolta risibile.
Noi che quando vogliamo ispirarci all'America democratica facciamo cattive traduzioni. "Yes, we can" è: "Sì, noi possiamo farlo" (riempiendo di contenuti quel suffisso pronominale). "Si può fare" che è stata la traduzione prescelta in campagna elettorale dal nostro Partito democratico, è una cattiva traduzione perché introduce una sfumatura bonacciona e accomodante, quella italianità, mi permetto di dire, in cui non mi riconosco, che ci danneggia e che dobbiamo, sì, se vogliamo sopravvivere, veramente CAMBIARE.
1. Piera Mattei – OBAMA E MARTIN LUTHER KING
Alcuni anni fa mi trovai a Miami, durante il Martin Luther King day. Si celebra, dal 1986, tutti gli anni come una festa di tutta la nazione americana, al terzo lunedì di gennaio, in memoria del giorno in cui il leader nero nacque, il 15 gennaio. Certo Miami non è Atalanta, ma rimasi delusa dall'atmosfera: sfilavano i carri con la scritta "I have a dream", le majorettes con la banda, ma non c'era entusiasmo, sembrava la ripetizione di un rituale in cui nessuno credeva più.
Ecco invece la sorpresa di questo nuovo Presidente di colore. Lo ha eletto anche la Florida, lo hanno eletto la grande maggioranza dei cittadini in tutti gli Stati dell'America, e inoltre porta con sé alla Casa Bianca una moglie bella, colta, lei sì discendente degli afroamericani, nata nella Chicago del gelido vento e del jazz.
Oggi Barack Obama, nuovo Presidente degli Stati Uniti, di origine americana e keniota – non proprio quello che s'intende per afroamericano, lui – porta i suoi 47 anni con l'agilità di un atleta con la grazia naturale di un ragazzo. Ha il sorriso e l'atteggiamento di un uomo coraggioso e libero.
Esattamente quarant'anni fa, quando venne ucciso il più grande leader dell'uguaglianza tra bianchi e neri d'America, nessuno pensò allora che fosse stato ucciso un giovane uomo, ma Luther King aveva nel 1968 solo 39 anni essendo nato nel 1929. Il suo viso non ha il fascino che emana Obama, forse perché nel suo sguardo c'è ancora tutta la sofferenza dei discendenti da quegli africani che furono portati in America come schiavi.
Il colore della pelle di Obama non rimanda invece in nessun modo al crudele sfruttamento dell'uomo bianco. Lo stesso nome che si pronuncia proprio com'è scritto, un nome africano che oggi non richiede neppure di essere adattato alla pronuncia anglosassone è un nome da portare con orgoglio, come americano, come Presidente degli Stati Uniti. Questo permette di vedere in Obama il simbolo di un'apertura che non conosce il risentimento, che gli consentirà d'interpretare, come ha promesso, le esigenze di tutti, di portare avanti la concreta realizzazione al di sopra delle parti, dei DIRITTI UMANI, nella sua nazione e di conseguenza nel mondo.
Ecco invece la sorpresa di questo nuovo Presidente di colore. Lo ha eletto anche la Florida, lo hanno eletto la grande maggioranza dei cittadini in tutti gli Stati dell'America, e inoltre porta con sé alla Casa Bianca una moglie bella, colta, lei sì discendente degli afroamericani, nata nella Chicago del gelido vento e del jazz.
Oggi Barack Obama, nuovo Presidente degli Stati Uniti, di origine americana e keniota – non proprio quello che s'intende per afroamericano, lui – porta i suoi 47 anni con l'agilità di un atleta con la grazia naturale di un ragazzo. Ha il sorriso e l'atteggiamento di un uomo coraggioso e libero.
Esattamente quarant'anni fa, quando venne ucciso il più grande leader dell'uguaglianza tra bianchi e neri d'America, nessuno pensò allora che fosse stato ucciso un giovane uomo, ma Luther King aveva nel 1968 solo 39 anni essendo nato nel 1929. Il suo viso non ha il fascino che emana Obama, forse perché nel suo sguardo c'è ancora tutta la sofferenza dei discendenti da quegli africani che furono portati in America come schiavi.
Il colore della pelle di Obama non rimanda invece in nessun modo al crudele sfruttamento dell'uomo bianco. Lo stesso nome che si pronuncia proprio com'è scritto, un nome africano che oggi non richiede neppure di essere adattato alla pronuncia anglosassone è un nome da portare con orgoglio, come americano, come Presidente degli Stati Uniti. Questo permette di vedere in Obama il simbolo di un'apertura che non conosce il risentimento, che gli consentirà d'interpretare, come ha promesso, le esigenze di tutti, di portare avanti la concreta realizzazione al di sopra delle parti, dei DIRITTI UMANI, nella sua nazione e di conseguenza nel mondo.
domenica 26 ottobre 2008
Piera Mattei – LA PRIMA LEZIONE DI FISICA
Domenica 26, Università la Sapienza. Ancora una bella giornata, quasi estiva. Il cielo vede con compiacimento questa protesta. E di domenica, senza le automobili parcheggiate all'interno, nello sfondo del cielo azzurro e dei sempreverdi, la città universitaria mostra la sua particolare bellezza. Si fa lezione di fisica ai bambini delle elementari. Chi insegna – studenti, ricercatori e professori – si divertono anche loro. Mi diverto anch'io: le facce dei bambini sono intente, a tratti preoccupate di capire fenomeni che sembrano magici, ma sono in realtà l'effetto, innocente (senza trucco), di onnipresenti forze della materia.
Poi, dopo l'una e mezza, quando i bambini sciamano per uno spuntino sul prato, intercetto Laura Caccianini, una delle responsabili del movimento.
Si ferma volentieri a parlare con me. E' una ragazza di Pescara, dell'ultimo anno della laurea triennale, gentile, semplice, carina. Certo non corrisponde al modello di bella ragazza che è diventato di moda da quando si è affermato Berlusconi, il tipo velina per intenderci, ma neppure somiglia alle dure e ideologizzate "compagne" del sessantotto. La sua sicurezza la intuisci attraverso la trama di un linguaggio prudente e molto preciso. Mi dice:
"La prima cosa che abbiamo fatto è stato stampare la legge per studiarla e conoscerla a fondo, codice civile alla mano, con studenti di diritto, per capire l'entità del danno".
Parla con molto rispetto della facoltà di Fisica di Roma: "Avrei potuto iscrivermi a L'Aquila, mi dice, ma qui è un'altra cosa, qui l'atmosfera è più stimolante, i professori sono eccellenti, questa è la punta di diamante della ricerca. Noi difendiamo questa qualità di studio, non è una dimostrazione di forza. E non è vero che siamo manovrati. Io stessa, come molti di noi, non abbiamo mai fatto parte dei collettivi e con i professori ci siamo trovati "di fatto", non programmaticamente, a condividere gli obbiettivi di lotta. Proseguiamo con un calendario di lezioni in piazza, di cui noi di Fisica siamo stati gli ispiratori, ma che molte altre facoltà stanno seguendo. Altre facoltà sono ugualmente occupate o in mobilitazione, anche quelle tradizionalmente impermeabili alla contestazione come Ingegneria, Medicina, Economia".
Laura proviene da un Liceo Classico, me lo dice con semplicità, anche se intuisco un orgoglio, discreto, di appartenenza a quella cultura, e gli anni del liceo non sono passati poi da così tanto! Ma, poi, cosa prevede dopo la laurea?
"Prevedo un'emigrazione forzata. Certo un periodo di studio all'estero lo mettevo volentieri in conto, ma con la prospettiva di tornare. Ora questa prospettiva si fa confusa…"
Ci raggiunge una ricercatrice, che ha appena concluso una bella lezione ai bambini dimostrando, sull'esperienza di un sughero a galla in una bacinella, che non sempre il parere della maggioranza è quello giusto. Per capire ciò che è giusto occorre sottoporre la nostra intuizione all'esperimento. Bella lezione, anche di etica, da parte di una sperimentale! Si chiama Barbara Sciascia, lavora ai Laboratori di Frascati, ma si vedrà scadere il contratto il prossimo giugno.
"Si vogliono tagliare i settori che potrebbero fare da volano per la ripresa dell'economia" dice,"la ricerca, poi, non può essere incanalata solo in obbiettivi pratici. Tra l'altro alcune scoperte, vedi la PET, che si è dimostra adatta e utilissima a scoprire alcuni tipi di cancro, sono state del tutto casuali".
Nel frattempo arrivano le telecamere di Mediaset e discretamente mi allontano. Spero che queste ragazze tengano duro, anche per la loro futura carriera di scienziate. E che intanto, oggi, trovino parole pacate ma convincenti per le affollate platee del padrone di Mediaset.
Poi, dopo l'una e mezza, quando i bambini sciamano per uno spuntino sul prato, intercetto Laura Caccianini, una delle responsabili del movimento.
Si ferma volentieri a parlare con me. E' una ragazza di Pescara, dell'ultimo anno della laurea triennale, gentile, semplice, carina. Certo non corrisponde al modello di bella ragazza che è diventato di moda da quando si è affermato Berlusconi, il tipo velina per intenderci, ma neppure somiglia alle dure e ideologizzate "compagne" del sessantotto. La sua sicurezza la intuisci attraverso la trama di un linguaggio prudente e molto preciso. Mi dice:
"La prima cosa che abbiamo fatto è stato stampare la legge per studiarla e conoscerla a fondo, codice civile alla mano, con studenti di diritto, per capire l'entità del danno".
Parla con molto rispetto della facoltà di Fisica di Roma: "Avrei potuto iscrivermi a L'Aquila, mi dice, ma qui è un'altra cosa, qui l'atmosfera è più stimolante, i professori sono eccellenti, questa è la punta di diamante della ricerca. Noi difendiamo questa qualità di studio, non è una dimostrazione di forza. E non è vero che siamo manovrati. Io stessa, come molti di noi, non abbiamo mai fatto parte dei collettivi e con i professori ci siamo trovati "di fatto", non programmaticamente, a condividere gli obbiettivi di lotta. Proseguiamo con un calendario di lezioni in piazza, di cui noi di Fisica siamo stati gli ispiratori, ma che molte altre facoltà stanno seguendo. Altre facoltà sono ugualmente occupate o in mobilitazione, anche quelle tradizionalmente impermeabili alla contestazione come Ingegneria, Medicina, Economia".
Laura proviene da un Liceo Classico, me lo dice con semplicità, anche se intuisco un orgoglio, discreto, di appartenenza a quella cultura, e gli anni del liceo non sono passati poi da così tanto! Ma, poi, cosa prevede dopo la laurea?
"Prevedo un'emigrazione forzata. Certo un periodo di studio all'estero lo mettevo volentieri in conto, ma con la prospettiva di tornare. Ora questa prospettiva si fa confusa…"
Ci raggiunge una ricercatrice, che ha appena concluso una bella lezione ai bambini dimostrando, sull'esperienza di un sughero a galla in una bacinella, che non sempre il parere della maggioranza è quello giusto. Per capire ciò che è giusto occorre sottoporre la nostra intuizione all'esperimento. Bella lezione, anche di etica, da parte di una sperimentale! Si chiama Barbara Sciascia, lavora ai Laboratori di Frascati, ma si vedrà scadere il contratto il prossimo giugno.
"Si vogliono tagliare i settori che potrebbero fare da volano per la ripresa dell'economia" dice,"la ricerca, poi, non può essere incanalata solo in obbiettivi pratici. Tra l'altro alcune scoperte, vedi la PET, che si è dimostra adatta e utilissima a scoprire alcuni tipi di cancro, sono state del tutto casuali".
Nel frattempo arrivano le telecamere di Mediaset e discretamente mi allontano. Spero che queste ragazze tengano duro, anche per la loro futura carriera di scienziate. E che intanto, oggi, trovino parole pacate ma convincenti per le affollate platee del padrone di Mediaset.
sabato 25 ottobre 2008
Piera Mattei-PIAZZA MONTECITORIO: LEZIONE DI FISICA
Venerdì 24 ottobre. La giornata, a dispetto delle previsioni, era bellissima. Roma, nella cornice di Piazza di Montecitorio, splendida. Li ascoltavo, lo sguardo fisso sul meraviglioso obelisco, interrogandomi sui pittogrammi, ma non rinunciando a seguirli, i geniali professori di Fisica della Sapienza. Facevano la loro lezione all'aperto, usando parole semplici, comprensibili anche da chi, trovandosi a passare, si fosse messo ad ascoltarli.
Non avevano l'aria di facinorosi, né di "cattivi maestri", i professori.
Erano quieti da suscitare meraviglia le decine di studenti seduti sui duri sampietrini, alcuni con il blocco degli appunti. Del resto il materiale a disposizione per la lezione consisteva in niente più che un paio di lavagne e un sacchetto di gessi.
Materiale che ha usato per la sua lezione sulla materia (e la materia oscura) Paolo Lipari, ma che non è servito poi né a Giovanni Jona Lasinio né a Giorgio Parisi che hanno fatto lezioni eccellenti semplicemente parlando al loro pubblico, senza bisogno di scrivere formule. Ma, attenzione, nessuno di loro voleva affermare che due lavagne e dei gessi, o solo un microfono, sia di quanto la scienza ha bisogno per avanzare. La scienza anzi per avanzare, lo hanno tutti sottolineato, richiede di far uscire dal precariato chi vi lavora, richiede investimenti, per frenare quella che, talvolta con fatalismo e freddezza, viene chiamata "fuga di cervelli", l'espatrio a cui sono costretti i nostri giovani di talento.
Paolo Lipari ha un entusiasmo, un'enfasi felice che certamente trascina gli studenti. Sono arrivata un po' in ritardo sul suo discorso, ma ho potuto notare una passione e una comunicativa specialissimi.
Di Jona Lasinio abbiamo già parlato su questa rivista. E' una delle grandi menti della Fisica Italiana, parla con originale eleganza, ma – gli altoparlanti non funzionano alla perfezione – la sua voce discreta non risuona nella piazza. Parla dello sviluppo della conoscenza da Keplero, a Kant a Maxwell, dell'analogia come categoria della ricerca e io rifletto (non so quanto correttamente) che c'è una somiglianza tra analogia in fisica e metafora in poesia.
Continua Jona Lasinio: parla di linguaggi, della "cross-fertilization" avvenuta negli ultimi trentacinque anni tra i linguaggi della fisica della materia condensata e la fisica delle particelle. Perché la superspecializzazione, anche necessaria, mi pare di capire, finisce per tramutare ambiti distinti e separati in giardini inaccessibili per chi non se ne sia procurata la chiave. Che i linguaggi s'incrocino e si fecondino a vicenda, non solo entro i vari ambiti della Fisica, ma anche tra scienza e letteratura, mi sembra necessario. Poi Jona Lasinio spiega cos'è una rottura di simmetria. Non credo mi sia sfuggito: non fa un minimo accenno al fatto che su questo argomento aveva nei suoi vent'anni firmato un articolo che al coautore è valso l'ultimo Nobel per la Fisica.
E' quindi la volta dell'altro grande, Giorgio Parisi, diventato, negli ultimi anni, popolare anche tra il pubblico non specialistico. Svolge una lezione bella e insospettabilmente "facile" su Einstein, con risvolti anche aneddotici, veramente felice. Conclude affermando con passione che il "diritto alla ricerca" è scritto nella nostra Costituzione e che non è possibile calpestarlo con tanta leggerezza.
Frattanto il bellissimo palazzo che si stagliava dietro alle lavagne, come spesso di questi tempi, restava chiuso, sordo e incapace di rimandare risposte o echi.
Occorre insistere. La prossima settimana si continua con le lezioni in piazza e spero faccia bel tempo.
Piera Mattei
Non avevano l'aria di facinorosi, né di "cattivi maestri", i professori.
Erano quieti da suscitare meraviglia le decine di studenti seduti sui duri sampietrini, alcuni con il blocco degli appunti. Del resto il materiale a disposizione per la lezione consisteva in niente più che un paio di lavagne e un sacchetto di gessi.
Materiale che ha usato per la sua lezione sulla materia (e la materia oscura) Paolo Lipari, ma che non è servito poi né a Giovanni Jona Lasinio né a Giorgio Parisi che hanno fatto lezioni eccellenti semplicemente parlando al loro pubblico, senza bisogno di scrivere formule. Ma, attenzione, nessuno di loro voleva affermare che due lavagne e dei gessi, o solo un microfono, sia di quanto la scienza ha bisogno per avanzare. La scienza anzi per avanzare, lo hanno tutti sottolineato, richiede di far uscire dal precariato chi vi lavora, richiede investimenti, per frenare quella che, talvolta con fatalismo e freddezza, viene chiamata "fuga di cervelli", l'espatrio a cui sono costretti i nostri giovani di talento.
Paolo Lipari ha un entusiasmo, un'enfasi felice che certamente trascina gli studenti. Sono arrivata un po' in ritardo sul suo discorso, ma ho potuto notare una passione e una comunicativa specialissimi.
Di Jona Lasinio abbiamo già parlato su questa rivista. E' una delle grandi menti della Fisica Italiana, parla con originale eleganza, ma – gli altoparlanti non funzionano alla perfezione – la sua voce discreta non risuona nella piazza. Parla dello sviluppo della conoscenza da Keplero, a Kant a Maxwell, dell'analogia come categoria della ricerca e io rifletto (non so quanto correttamente) che c'è una somiglianza tra analogia in fisica e metafora in poesia.
Continua Jona Lasinio: parla di linguaggi, della "cross-fertilization" avvenuta negli ultimi trentacinque anni tra i linguaggi della fisica della materia condensata e la fisica delle particelle. Perché la superspecializzazione, anche necessaria, mi pare di capire, finisce per tramutare ambiti distinti e separati in giardini inaccessibili per chi non se ne sia procurata la chiave. Che i linguaggi s'incrocino e si fecondino a vicenda, non solo entro i vari ambiti della Fisica, ma anche tra scienza e letteratura, mi sembra necessario. Poi Jona Lasinio spiega cos'è una rottura di simmetria. Non credo mi sia sfuggito: non fa un minimo accenno al fatto che su questo argomento aveva nei suoi vent'anni firmato un articolo che al coautore è valso l'ultimo Nobel per la Fisica.
E' quindi la volta dell'altro grande, Giorgio Parisi, diventato, negli ultimi anni, popolare anche tra il pubblico non specialistico. Svolge una lezione bella e insospettabilmente "facile" su Einstein, con risvolti anche aneddotici, veramente felice. Conclude affermando con passione che il "diritto alla ricerca" è scritto nella nostra Costituzione e che non è possibile calpestarlo con tanta leggerezza.
Frattanto il bellissimo palazzo che si stagliava dietro alle lavagne, come spesso di questi tempi, restava chiuso, sordo e incapace di rimandare risposte o echi.
Occorre insistere. La prossima settimana si continua con le lezioni in piazza e spero faccia bel tempo.
Piera Mattei
domenica 12 ottobre 2008
Piera Mattei-DUE PROFESSORI DELLA SAPIENZA HANNO RISCHIATO IL NOBEL
Avevamo aperto questa rivista lo scorso gennaio, protagonisti i professori della facoltà di Fisica della Sapienza. Nonostante solo pochi mesi siano trascorsi, forse non sarà inutile ricordare: avevano firmato una lettera di protesta al rettore, per difendere l'inaugurazione dell'anno accademico da inopportune sovraesposizioni mediatiche e dall' intromissione del Papa. Per questo furono attaccati da ogni lato, persino – e Lucreziana lo notò con rincrescimento e un'ombra di sdegno – da illustri colleghi di altre facoltà.
Da allora molte cose sono cambiate e quel che molti temevano è avvenuto: il ritorno al governo di una classe politica che di fronte alla parola cultura fa smorfie, arriccia il naso e, concretamente poi, taglia i fondi all'Università e alla scuola. Anche di recente, esponenti di spicco del governo hanno colto l'occasione per difendere e elogiare le veline, loro sì!, contro i detrattori, gli "snob", "gli arroganti" esponenti della cultura.
Tuttavia i professori della facoltà di Fisica della Sapienza non sono scomparsi. Tornano a far discutere, a occupare le pagine dei giornali perché hanno rischiato, in due, ma per ricerche diverse, di vedersi aggiudicato il Nobel. Uno si chiama Giovanni Jona Lasinio ed è cofirmatario col giapponese Joichiro Nambu di un articolo scritto a Chicago nel 1961 per la scoperta del meccanismo di rottura spontanea della simmetria nella fisica subatomica. L'altro è Nicola Cabibbo: infatti è universalmente noto che la formula di fisica (il CKM mixing) per cui sono stati premiati "solo" i due scienziati giapponesi Kobayashi e Maskawa porta "anche" il il suo nome.
Lucreziana qui s'interroga sul motivo per cui gli scienziati italiani sono stati tenuti fuori dal premio. Si è voluto, per motivi pratici evitare di dividere il premio tra due nazioni? ovvero la pessima immagine dell'Italia si è ripercossa sulla scelta svedese, e proprio loro, i fisici da Nobel, ne hanno pagato il prezzo?
Da allora molte cose sono cambiate e quel che molti temevano è avvenuto: il ritorno al governo di una classe politica che di fronte alla parola cultura fa smorfie, arriccia il naso e, concretamente poi, taglia i fondi all'Università e alla scuola. Anche di recente, esponenti di spicco del governo hanno colto l'occasione per difendere e elogiare le veline, loro sì!, contro i detrattori, gli "snob", "gli arroganti" esponenti della cultura.
Tuttavia i professori della facoltà di Fisica della Sapienza non sono scomparsi. Tornano a far discutere, a occupare le pagine dei giornali perché hanno rischiato, in due, ma per ricerche diverse, di vedersi aggiudicato il Nobel. Uno si chiama Giovanni Jona Lasinio ed è cofirmatario col giapponese Joichiro Nambu di un articolo scritto a Chicago nel 1961 per la scoperta del meccanismo di rottura spontanea della simmetria nella fisica subatomica. L'altro è Nicola Cabibbo: infatti è universalmente noto che la formula di fisica (il CKM mixing) per cui sono stati premiati "solo" i due scienziati giapponesi Kobayashi e Maskawa porta "anche" il il suo nome.
Lucreziana qui s'interroga sul motivo per cui gli scienziati italiani sono stati tenuti fuori dal premio. Si è voluto, per motivi pratici evitare di dividere il premio tra due nazioni? ovvero la pessima immagine dell'Italia si è ripercossa sulla scelta svedese, e proprio loro, i fisici da Nobel, ne hanno pagato il prezzo?
lunedì 6 ottobre 2008
Alessandro Centinaro-LA RAGIONERIA DEL SESSO
LA RAGIONERIA DEL SESSO
Papa Benedetto XVI è tornato sull’argomento della contraccezione, ribadendo con forza il punto di vista ecclesiale secondo cui l’uso degli strumenti contraccettivi è moralmente illecito e peccaminoso, ritenendo che non si possa “esporre all’arbitrio degli uomini la missione di generare la vita”, e che l’atto sessuale sia lecito unicamente se finalizzato alla procreazione: in tale ottica si è pure ribadito che l’unica forma lecita di controllo delle nascite è il cosiddetto “metodo Ogino-Knaus”, ossia la osservazione dei periodi di fertilità della donna (quindi la astensione dal coito durante i periodi di fertilità, e la pratica dei coito nei periodi di non fertilità).
Bene, ogni dottrina – compresa quella tradizionalistica sopra richiamata- è meritevole di rispetto; tuttavia crediamo che l’intelligenza umana dovrebbe sempre ed almeno esser rispettosa di sé stessa, e degli elementari principi logici che la governano, se è vero che l’intelletto umano è un “riflesso” di quello divino, cosicchè ogni ragionamento viziato da intima contraddizione logica dovrebbe considerarsi una offesa a quella “fonte” soprannaturale dell’umano intelligere: fatta tale premessa, è assai facile dimostrare che il proibire, da un lato, gli strumenti contraccettivi, e consentire, dall’altro, il cosiddetto “metodo Ogino Knaus” (osservazione dei periodi di fertilità della donna, ed esercizio della sessualità limitatamente a tali periodi) è frutto di un percorso contraddittorio sia logicamente che moralmente.
Il principio, riaffermato dalla dottrina ecclesiale, è che sia “male” perseguire il sesso come fine a sé stesso, e quindi praticare il sesso non finalizzato alla procreazione, poiché il sesso sarebbe, moralmente e naturalmente, solo il tramite per la propagazione del dono della vita; orbene, non occorre scomodare alcun filosofo per capire una verità elementare, ossia che chi pratica il metodo “Ogino-Knaus” (pratica del coito limitata ai periodi di non fertilità della donna) altro non fa che un puntiglioso ed egoistico calcolo da ragioniere, finalizzato unicamente a godersi la libidine del coito, accuratamente evitando- e così causalmente impedendo- di far seguire, a tale piacere, il doveroso frutto della procreazione.
I filosofi, non meno dei giuristi, hanno sempre saputo che dal punto di vista della causalità e della responsabilità, una condotta causalmente “omissiva” equivale in tutto e per tutto ad una condotta causalmente “commissiva”.
Chi usa uno strumento “fisicamente” contraccettivo, quale un normale profilattico, interpone, fra il flusso seminale ed il suo naturale alveo di affluenza, un diaframma di lattice, ossia interpone, fra la libidine del coito e la procreazione, una barriera per così dire “idraulica”; chi pratica il metodo “Ogino Knaus” non interpone, rispetto al fine procreativo, una barriera “fisica” o “idraulica”, bensì interpone un altro tipo di barriera, la “premeditata” barriera di un calcolo statistico e ragionieristico, il cui scopo è però pur sempre quello di assicurarsi un piacere sessuale “puro” e fine a sé stesso, il coito per il coito, preordinando la elusione della procreazione: in entrambi i casi, e con entrambi i metodi (il lattice o il calcolo) vi è una “colpevole” e deliberata dispersione del “bonum seminale” (un dono che sarebbe stato concesso all’uomo non per il suo piacere, ma per il dovere di procreare), con l’unica differenza che chi pratica il metodo “Ogino-Knaus” potrebbe esser forse moralmente più colpevole, avendo, di solito, “premeditato” (con una paziente e prolungato “monitoraggio” dei periodi di non fertilità) un atto sessuale elusivo della procreazione, laddove invece l’utente del lattice potrebbe, chissà, aver ceduto ad un impulso occasionale, non premeditato!
Insomma, si al ragioniere, no all’idraulico: l’assurdo, si sa, sconfina sovente nel comico.
Varrebbe forse la pena di approfondire un po’ meglio la riflessione sul rapporto dell’individuo umano con il bene (e con i beni) della vita; vero è (dal punto di vista sia del credente che del laico) che la vita “passa” attraverso l’individuo umano, che ne è – per natura – custode in nome dell’umanità, la quale deve conservarsi e proiettarsi nell’avvenire; vero è anche che stiamo parlando della vita “umana”, nel cui orizzonte spirituale (riflesso, dicono i credenti, del divino intelletto) la bellezza (cui la umana “libido” appartiene “naturaliter”) è anche valore in sé e fine in sè, in quanto intellegibile evocazione e tensione al “senso” dell’universo nel suo essere e divenire: ragionare diversamente (considerando la “libido” umana non come varco spirituale alla bellezza ma come mera e brutale spinta istintuale meccanicamente ordinata alla riproduzione) ci dovrebbe indurre, coerentemente, a concepirci solo come bovini da allevamento e riproduzione (con tutto il rispetto per i sereni animali).
Papa Benedetto XVI è tornato sull’argomento della contraccezione, ribadendo con forza il punto di vista ecclesiale secondo cui l’uso degli strumenti contraccettivi è moralmente illecito e peccaminoso, ritenendo che non si possa “esporre all’arbitrio degli uomini la missione di generare la vita”, e che l’atto sessuale sia lecito unicamente se finalizzato alla procreazione: in tale ottica si è pure ribadito che l’unica forma lecita di controllo delle nascite è il cosiddetto “metodo Ogino-Knaus”, ossia la osservazione dei periodi di fertilità della donna (quindi la astensione dal coito durante i periodi di fertilità, e la pratica dei coito nei periodi di non fertilità).
Bene, ogni dottrina – compresa quella tradizionalistica sopra richiamata- è meritevole di rispetto; tuttavia crediamo che l’intelligenza umana dovrebbe sempre ed almeno esser rispettosa di sé stessa, e degli elementari principi logici che la governano, se è vero che l’intelletto umano è un “riflesso” di quello divino, cosicchè ogni ragionamento viziato da intima contraddizione logica dovrebbe considerarsi una offesa a quella “fonte” soprannaturale dell’umano intelligere: fatta tale premessa, è assai facile dimostrare che il proibire, da un lato, gli strumenti contraccettivi, e consentire, dall’altro, il cosiddetto “metodo Ogino Knaus” (osservazione dei periodi di fertilità della donna, ed esercizio della sessualità limitatamente a tali periodi) è frutto di un percorso contraddittorio sia logicamente che moralmente.
Il principio, riaffermato dalla dottrina ecclesiale, è che sia “male” perseguire il sesso come fine a sé stesso, e quindi praticare il sesso non finalizzato alla procreazione, poiché il sesso sarebbe, moralmente e naturalmente, solo il tramite per la propagazione del dono della vita; orbene, non occorre scomodare alcun filosofo per capire una verità elementare, ossia che chi pratica il metodo “Ogino-Knaus” (pratica del coito limitata ai periodi di non fertilità della donna) altro non fa che un puntiglioso ed egoistico calcolo da ragioniere, finalizzato unicamente a godersi la libidine del coito, accuratamente evitando- e così causalmente impedendo- di far seguire, a tale piacere, il doveroso frutto della procreazione.
I filosofi, non meno dei giuristi, hanno sempre saputo che dal punto di vista della causalità e della responsabilità, una condotta causalmente “omissiva” equivale in tutto e per tutto ad una condotta causalmente “commissiva”.
Chi usa uno strumento “fisicamente” contraccettivo, quale un normale profilattico, interpone, fra il flusso seminale ed il suo naturale alveo di affluenza, un diaframma di lattice, ossia interpone, fra la libidine del coito e la procreazione, una barriera per così dire “idraulica”; chi pratica il metodo “Ogino Knaus” non interpone, rispetto al fine procreativo, una barriera “fisica” o “idraulica”, bensì interpone un altro tipo di barriera, la “premeditata” barriera di un calcolo statistico e ragionieristico, il cui scopo è però pur sempre quello di assicurarsi un piacere sessuale “puro” e fine a sé stesso, il coito per il coito, preordinando la elusione della procreazione: in entrambi i casi, e con entrambi i metodi (il lattice o il calcolo) vi è una “colpevole” e deliberata dispersione del “bonum seminale” (un dono che sarebbe stato concesso all’uomo non per il suo piacere, ma per il dovere di procreare), con l’unica differenza che chi pratica il metodo “Ogino-Knaus” potrebbe esser forse moralmente più colpevole, avendo, di solito, “premeditato” (con una paziente e prolungato “monitoraggio” dei periodi di non fertilità) un atto sessuale elusivo della procreazione, laddove invece l’utente del lattice potrebbe, chissà, aver ceduto ad un impulso occasionale, non premeditato!
Insomma, si al ragioniere, no all’idraulico: l’assurdo, si sa, sconfina sovente nel comico.
Varrebbe forse la pena di approfondire un po’ meglio la riflessione sul rapporto dell’individuo umano con il bene (e con i beni) della vita; vero è (dal punto di vista sia del credente che del laico) che la vita “passa” attraverso l’individuo umano, che ne è – per natura – custode in nome dell’umanità, la quale deve conservarsi e proiettarsi nell’avvenire; vero è anche che stiamo parlando della vita “umana”, nel cui orizzonte spirituale (riflesso, dicono i credenti, del divino intelletto) la bellezza (cui la umana “libido” appartiene “naturaliter”) è anche valore in sé e fine in sè, in quanto intellegibile evocazione e tensione al “senso” dell’universo nel suo essere e divenire: ragionare diversamente (considerando la “libido” umana non come varco spirituale alla bellezza ma come mera e brutale spinta istintuale meccanicamente ordinata alla riproduzione) ci dovrebbe indurre, coerentemente, a concepirci solo come bovini da allevamento e riproduzione (con tutto il rispetto per i sereni animali).
venerdì 19 settembre 2008
5. Piera Mattei– MILOS FORMAN, GOYA's GHOSTS
A proposito di libertà – o di libero arbitrio, se si usa la terminologia dei filosofi e dei teologi – mi è tornato in mente il film di Milos Forman, Goya's Ghosts uscito in Italia nel 2006 col titolo l'"Ultimo Inquisitore". Alla bella Ines è stata estorta con la tortura l'affermazione che un certo suo comportamento fosse originato dalla sua segreta identità "marrana". Il padre della ragazza invita a cena il prete che predica con grande capacità oratoria i metodi che ogni buon cristiano deve usare per smascherare, dai minimi gesti, l'ebreo nascosto. Al padre che gli fa presente come sua figlia, del tutto ignara delle sue lontane origini giudee, poteva confessare qualsiasi cosa per sottrarsi all'insopportabile dolore, il prete ribadisce con teologica sicurezza che anche sotto il condizionamento della tortura (la corda) agiva tuttavia in Ines il libero arbitrio. Il padre allora fa appendere il frate al lampadario della sala, e gli dimostra sulla sua viva carne che le condizioni diminuiscono fino a ridorre a zero la libertà di dire o non dire quello che gli altri vogliono sentire da te.
Film bellissimo, interpretazioni straordinarie, miseria e violenza della storia, delle idee, delle religioni, degli uomini.
Piera Mattei
Film bellissimo, interpretazioni straordinarie, miseria e violenza della storia, delle idee, delle religioni, degli uomini.
Piera Mattei
4.Piera Mattei-Una questione di tortura Alfred W. Mc Coy Edizioni Socrates
In proposito proprio domani, sabato venti settembre, alle 17,30, alla Casa delle Letterature verrà presentato dalle edizioni Socrates "Una questione di tortura" di Alfred W. McCoy, un libro inchiesta dello storico americano sulle forme di tortura "studiate" e applicate negli ultimi cinquant'anni. Questi metodi di tortura, scrive, sono stati affinati con l'apporto più o meno consapevole delle maggiori università americane e canadesi. Dopo l'11 settembre 2001 la tortura psicologica come "deprivazione sensoriale" e "dolore autoinflitto" è diventata l'arma principale della CIA nella guerra al terrorismo.
Quindi lo studio dei meccanismi psicologici e cerebrali è fondamentale. Serve sia a chi vuole condizionare fino a eliminare nell'altro ogni libertà di scegliere, sia a chi riconosce il metodo e, con tutti i mezzi a sua disposizione, cerca di contrastarlo.
Quindi lo studio dei meccanismi psicologici e cerebrali è fondamentale. Serve sia a chi vuole condizionare fino a eliminare nell'altro ogni libertà di scegliere, sia a chi riconosce il metodo e, con tutti i mezzi a sua disposizione, cerca di contrastarlo.
3. Piera Mattei-Dov'è la libertà?
L'occasione mi porta a ribadire un concetto che forse attiene più alla filosofia etica che al commento estemporaneo di film e articoli sullo studio dei meccanismi cerebrali. Dov'è la libertà? chiede Annino. Già in molti se lo sono chiesto nei secoli. In molti hanno affermato che la libertà umana è sempre "in condizione". E' dovere umano far sì che questi condizionamenti siano meno costrittivi possibile, è quella che si chiama ricerca di libertà sul piano personale, sociale e politico. Libertà e condizionamenti vanno insieme. Libertà è ricerca, realizzazione sempre mobile della propria umanità, nasce dalla conoscenza, insieme alla dolorosa responsabilità che quella porta con sé. Dai tempi dell'Eden?
Per difendere la libertà, bisogna essere coscienti dei meccanismi anche occulti di persuasione, che non sono certo un'invenzione di oggi. La scienza ci dà certezza di quanto già sapevamo. Oggi sono cambiati i metodi. Ci sono modi di condizionare compiacendo, le menti degli uomini.
Oggi non siamo ai tempi dell'Inquisizione. I condizionamenti raramente sono violenti, raramente sono cruenti. Raramente? mi chiedo tuttavia.
Piera Mattei
Per difendere la libertà, bisogna essere coscienti dei meccanismi anche occulti di persuasione, che non sono certo un'invenzione di oggi. La scienza ci dà certezza di quanto già sapevamo. Oggi sono cambiati i metodi. Ci sono modi di condizionare compiacendo, le menti degli uomini.
Oggi non siamo ai tempi dell'Inquisizione. I condizionamenti raramente sono violenti, raramente sono cruenti. Raramente? mi chiedo tuttavia.
Piera Mattei
2.Cristina Annino, scrittrice e amica.
Ospito qui una breve nota critica di Cristina Annino al mio commento a "La rabbia" di Pasolini:
Che il presentimento di Pasolini si sia trasformato in certezza è innegabile, come è accaduto con tanti altri suoi timori. Che la televisione- padre- nostro ci propini per lo più squallore, è indubitabile. D'accordo anche con l'informazione scientifica che il bombardamento di notizie possa creare, in chi le assorbe, nuovi neuroni, ecc. Ma spero che ciò sia limitato a fatti di costume, non specificatamente ideologici. Se fosse vera questa ipotesi, l'allarme sarebbe pari a una guerra fredda tra due "menti". Nel senso che:1° , toglierebbe coscienza all'individuo, non solo conoscenza che, al più, può essere distorta. 2°, negherebbe speranza sull'individuo.
Si dovrebbe credere allora alla realtà di un essere umano talmente passivo che se si sostituisse un tipo di informazione con un altro di pari intensità ma contrario, egli reagirebbe allo stesso modo. In entrambi i casi, in un modo cioè programmato. Rimanendo quale unica scelta chi premerà il bottone di comando. Allora, addio libertà!
Per quanto mi riguarda, preferisco leggere nelle parole di Pasolini un effettivo rischio, confermato poi dagli anni che stiamo vivendo, tenendo però presente che oggi usufruiamo di più canali informativi rispetto agli anni 50 o 60 e che se anche si assiste a un indiscutibile livellamento comportamentale in senso lato, non si può nascondere la verticalità di un pensiero fortunatamente ancora presente. Togliere questa fiducia mi sembrerebbe un pericoloso meccanismo di inconscia volontà di sostituzione, ma non l' eliminazione del problema.
Cristina Annino
Che il presentimento di Pasolini si sia trasformato in certezza è innegabile, come è accaduto con tanti altri suoi timori. Che la televisione- padre- nostro ci propini per lo più squallore, è indubitabile. D'accordo anche con l'informazione scientifica che il bombardamento di notizie possa creare, in chi le assorbe, nuovi neuroni, ecc. Ma spero che ciò sia limitato a fatti di costume, non specificatamente ideologici. Se fosse vera questa ipotesi, l'allarme sarebbe pari a una guerra fredda tra due "menti". Nel senso che:1° , toglierebbe coscienza all'individuo, non solo conoscenza che, al più, può essere distorta. 2°, negherebbe speranza sull'individuo.
Si dovrebbe credere allora alla realtà di un essere umano talmente passivo che se si sostituisse un tipo di informazione con un altro di pari intensità ma contrario, egli reagirebbe allo stesso modo. In entrambi i casi, in un modo cioè programmato. Rimanendo quale unica scelta chi premerà il bottone di comando. Allora, addio libertà!
Per quanto mi riguarda, preferisco leggere nelle parole di Pasolini un effettivo rischio, confermato poi dagli anni che stiamo vivendo, tenendo però presente che oggi usufruiamo di più canali informativi rispetto agli anni 50 o 60 e che se anche si assiste a un indiscutibile livellamento comportamentale in senso lato, non si può nascondere la verticalità di un pensiero fortunatamente ancora presente. Togliere questa fiducia mi sembrerebbe un pericoloso meccanismo di inconscia volontà di sostituzione, ma non l' eliminazione del problema.
Cristina Annino
lunedì 15 settembre 2008
1. Piera Mattei-La Rabbia di Pasolini e la nostra rabbia
Indagare, riflettere, scrivere, pensare, sono alcune attività che contraddistinguono gli individui della nostra specie. Essere uomo significa muovere la mente verso queste attività. Chi consegna la sua mente ad altri, tradisce la specie, tradisce il suo destino di uomo, tradisce la ricerca di verità e di bellezza.
Vedevo in questi giorni, restaurato e reintegrato da Giuseppe Bertolucci, il film La Rabbia, realizzato da Pasolini nel 1963 con materiali di cinegiornale, che coprono gli anni cinquanta fino agli inizi degli anni sessanta. Realizzazione ottima, commovente. Giusta la proposizione delle voci di due poeti-intelletuali di oggi, Giuseppe Bertolucci e Valerio Magrelli, come "speakers" per la parte reintegrata-reinventata, in parallelo con Giorgio Bassani e di Renato Guttuso, già a suo tempo scelti come voci fuori campo da Pasolini.
Il mondo è cambiato. La moda, è cambiata, i corpi poi! Neppure i grassi oggi hanno più quell'aspetto compatto e imponente di una volta. I grassi di oggi trasudano tremula infelicità. Anche la bellezza aveva più luminosi diritti, una sua divina eccezionalità. Marilyn Monroe, per quanto creatura e vittima sacrificale del cinema, appare inconfondibile. Il suo sorriso – le labbra semichiuse, gli occhi strizzati – le sue forme, sono la bellezza, non la riproducono in serie, come negli inflazionati corpi di oggi. Spettacolare anche la felicità, che non sembra finzione per la cinepresa, delle folle russe al rientro dell'eroe dello spazio Gagarin, il passo di lui di volata a superare i gradini del palco dove ingoffato nel suo cappottone lo attende per un abbraccio il compagno Kruscev. Immagini di guerra, terribili. Di quelle oggi non ne mancano. Si è introdotta anzi una pigra assuefazione e sembrano ingenui gli appelli alla pace. Chi tenta una risposta all'interrogativo che il poeta, con questo film, propone: Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall'angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?
Mi ha colpito, ancora, lo spirito profetico, tragico quindi, di Pasolini a proposito della realizzazione della prima televisione in Italia. Ne parla come di una calamità, un pericolo che incombe sulla libera ricerca intellettuale, sull'educazione.
Pensare, umanamente, con la propria testa. Dovremmo fare in modo di renderlo possibile.
Torno quindi al tradimento della specie, a chi si lascia manovrare, coinvolgere in quel tradimento. Certo non considero gli istinti distruttivi e autodistruttivi facilmente eliminabili, ma considero dovere umano non adeguarsi, nutrire il nostro risentimento, la nostra rabbia.
A conferma del tragico presentimento di Pasolini leggo in questi giorni (La Stampa di sabato 13 settembre) che le immagini – quindi anche le ossessive immagini che i programmi televisivi e i notiziari mettono davanti agli occhi di milioni di spettatori – creano nuovi neuroni, nuove cellule cerebrali, associazioni indelebili nel cervello. Uniformare le associazioni mentali, ecco realizzato il sogno di poter mobilitare e manovrare masse con una semplice parola d'ordine, facendo appello ad associazioni mentali preformate, creare artificialmente ciò che sembrerà indiscutibilmente vero, senza costringere nessuno, facendo persino un uso moderato di leggi liberticide.
Come questo accada – questa è la notizia – è ora visibile con i mezzi della tecnologia scientifica, con non invasive indagini dei movimenti cerebrali, ma già lo sapevano i padroni dei mezzi di comunicazione, in particolare quelli che si dedicano alla politica.
La poesia che commenta in quel film le immagini, retorica talvolta ma sempre vera, mi ha portato a rileggere in questi giorni i libri di poesia di Pasolini.
Ha sempre voluto essere innanzitutto un poeta, e anche un Maestro, anche quando stava realizzando un film. Scelgo perciò di chiudere qui citando il messaggio poetico-pedagogico con cui si apre "Il pianto della scavatrice" in "Le ceneri di Gramsci". Messaggio che sento vero rispetto all'amore per le persone, ma anche per le idee:
Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
Piera Mattei
Vedevo in questi giorni, restaurato e reintegrato da Giuseppe Bertolucci, il film La Rabbia, realizzato da Pasolini nel 1963 con materiali di cinegiornale, che coprono gli anni cinquanta fino agli inizi degli anni sessanta. Realizzazione ottima, commovente. Giusta la proposizione delle voci di due poeti-intelletuali di oggi, Giuseppe Bertolucci e Valerio Magrelli, come "speakers" per la parte reintegrata-reinventata, in parallelo con Giorgio Bassani e di Renato Guttuso, già a suo tempo scelti come voci fuori campo da Pasolini.
Il mondo è cambiato. La moda, è cambiata, i corpi poi! Neppure i grassi oggi hanno più quell'aspetto compatto e imponente di una volta. I grassi di oggi trasudano tremula infelicità. Anche la bellezza aveva più luminosi diritti, una sua divina eccezionalità. Marilyn Monroe, per quanto creatura e vittima sacrificale del cinema, appare inconfondibile. Il suo sorriso – le labbra semichiuse, gli occhi strizzati – le sue forme, sono la bellezza, non la riproducono in serie, come negli inflazionati corpi di oggi. Spettacolare anche la felicità, che non sembra finzione per la cinepresa, delle folle russe al rientro dell'eroe dello spazio Gagarin, il passo di lui di volata a superare i gradini del palco dove ingoffato nel suo cappottone lo attende per un abbraccio il compagno Kruscev. Immagini di guerra, terribili. Di quelle oggi non ne mancano. Si è introdotta anzi una pigra assuefazione e sembrano ingenui gli appelli alla pace. Chi tenta una risposta all'interrogativo che il poeta, con questo film, propone: Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall'angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?
Mi ha colpito, ancora, lo spirito profetico, tragico quindi, di Pasolini a proposito della realizzazione della prima televisione in Italia. Ne parla come di una calamità, un pericolo che incombe sulla libera ricerca intellettuale, sull'educazione.
Pensare, umanamente, con la propria testa. Dovremmo fare in modo di renderlo possibile.
Torno quindi al tradimento della specie, a chi si lascia manovrare, coinvolgere in quel tradimento. Certo non considero gli istinti distruttivi e autodistruttivi facilmente eliminabili, ma considero dovere umano non adeguarsi, nutrire il nostro risentimento, la nostra rabbia.
A conferma del tragico presentimento di Pasolini leggo in questi giorni (La Stampa di sabato 13 settembre) che le immagini – quindi anche le ossessive immagini che i programmi televisivi e i notiziari mettono davanti agli occhi di milioni di spettatori – creano nuovi neuroni, nuove cellule cerebrali, associazioni indelebili nel cervello. Uniformare le associazioni mentali, ecco realizzato il sogno di poter mobilitare e manovrare masse con una semplice parola d'ordine, facendo appello ad associazioni mentali preformate, creare artificialmente ciò che sembrerà indiscutibilmente vero, senza costringere nessuno, facendo persino un uso moderato di leggi liberticide.
Come questo accada – questa è la notizia – è ora visibile con i mezzi della tecnologia scientifica, con non invasive indagini dei movimenti cerebrali, ma già lo sapevano i padroni dei mezzi di comunicazione, in particolare quelli che si dedicano alla politica.
La poesia che commenta in quel film le immagini, retorica talvolta ma sempre vera, mi ha portato a rileggere in questi giorni i libri di poesia di Pasolini.
Ha sempre voluto essere innanzitutto un poeta, e anche un Maestro, anche quando stava realizzando un film. Scelgo perciò di chiudere qui citando il messaggio poetico-pedagogico con cui si apre "Il pianto della scavatrice" in "Le ceneri di Gramsci". Messaggio che sento vero rispetto all'amore per le persone, ma anche per le idee:
Solo l'amare, solo il conoscere
conta, non l'aver amato,
non l'aver conosciuto. Dà angoscia
il vivere di un consumato
amore. L'anima non cresce più.
Piera Mattei
giovedì 24 luglio 2008
Piera Mattei-Residenze Estive 2 Diario-cronaca di una partecipante
Residenze Estive 2008
IX Edizione
4–8 luglio 2008
Anche quest'anno Gabriella Musetti, è riuscita infine a organizzare questa "collegiale" occasione d'incontro, nella cornice misteriosa e ancora intatta dove echeggiano la poesia di Rilke, le due guerre mondiali, i più recenti propositi di pace.
Fulcro di Duino è il castello della famiglia che, italianizzando definitivamente il suo nome si chiamò, dall'inizio degli anni venti del secolo scorso, della Torre e Tasso.
A picco sul mare è circondata da un parco "asburgicamente" fiorito. All'esterno è ancora visibile il tavolo di marmo al quale il poeta stese la prima versione delle Elegie. Ma si possono visitare anche i bunker, ostili difese durante la prima guerra mondiale, scavate nella roccia con sbocchi "vista mare". Gli alleati della seconda guerra mondiale, dopo avere occupato le stanze e i saloni del castello, costringendo in una tenda il legittimo proprietario, avevano infine destinato quei profondi cunicoli a deposito di munizioni. Lì, all'ingresso del bunker, trovi una dichiarazione della nuova Germania nata dalla sconfitta, che si giustifica (cito a memoria) "per dodici anni di dittatura e barbarie che non possono e non debbono pesare come giudizio sull'intera storia del popolo tedesco", e pertanto giura fedeltà ai principi di convivenza tra i popoli.
La passeggiata "Rilke" è uno stretto sentiero che corre al bordo degli scogli (prediletti dai suicidi, c'informa Gabriella) e s'insinua nella macchia in direzione di Trieste. Si fregia di questo nome anche se la stessa Contessa della Torre in un suo vivace libro di memorie, bestseller alla biglietteria del castello, c'informa che il poeta raramente s'incamminava in quella direzione. Percorrerlo concede certamente un'esperienza estetica singolare, soprattutto in compagnia di persone amiche e poeti, specialmente se a un piccolo slargo si può fare tappa, per improvvisare una lettura di testi, la faccia rivolta al mare.
Una diversa emozione, durante il soggiorno a Duino, può darla anche il sapore di una "coda di rospo" molto fresca, cucinata semplicemente alla griglia, gustata sotto un pigro pergolato, alla trattoria "Il pescatore", sempre in compagnia degli amici (ho di fronte Biancamaria Frabotta e Gabriella, di lato Loriano Macchiavelli) con un gattino grigio striato accoccolato sotto il tavolo nella esplicita richiesta di partecipare se non alla conversazione, almeno alla degustazione.
Gabriella Musetti è di quelle donne che dentro una struttura fisica minuta e morbida, racchiude un'energia eccezionale. Durante le cinque giornate di Residenze Estive non ha mai un'espressione stanca o contrariata, sembra che lasci che le cose vadano, per così dire, lungo la corrente, come se tutto non fosse già accortamente previsto e accuratamente progettato.
E' lei l'organizzatrice "in capo" e l'anima stessa di queste giornate.
venerdì 4 luglio
La prima sera ci ritroviamo a San Canzian d'Isonzo, in provincia di Gorizia, i microfoni sistemati su un prato attiguo alla Chiesa dei santi Martiri Canziani. Martiri delle persecuzioni di Diocleziano, il sito è archeologico.
Legge Diego Zandel, scrittore figlio di profughi istriani, che per quanto non possa avere memoria diretta dell'esodo, tuttavia non può dimenticarlo. Scrive trame che a quel tema si riallacciano, e nel dibattito che segue alla lettura, parla di sé che è cresciuto a Roma e ha una moglie greca, si augura un superamento dei nazionalismi, nella conservazione delle diversità. Il suo discorso è seguito dai suoni e dalle voci di un duo originale, Erica e Gabriele Benfatto, lei soprattutto dotata di una gamma vocale eccezionalmente estesa, con note scure molto particolari. Canta le sue poesie in dialetto del luogo, il bisiàc, che, secondo la definizione che mutuo da una nota di Ivan Crico, è un raro “sermo rusticus” di tipo arcaico veneto - ma che al suo interno contiene anche numerosi termini ladini, sloveni, tedeschi e francesi - parlato ancora nei paesi del monfalconese. Interessante: l'uso corrente del termine è di recente acquisizione.
Poi, dopo la musica e il canto, succede che la corrente elettrica s'interrompe in tutto il paese: niente luce (sono alle dieci di sera), niente microfoni e siamo all'aperto. Così, nel buio e senza microfono, il poeta di turno (sono io) recita a memoria, nel buio, qualche poesia, fiduciosa che la corrente ritorni. Invano, solo la casa del prete è illuminata, probabilmente grazie all'istallazione di un gruppo elettrogeno. Privilegio che merita commenti vivaci e perplessi, in una zona di forte tradizione cattolica.
Infine si desiste, non resta che appressarsi a cenare, al lume di candele.
sabato 5
La mattina seguente, giornalisti, poeti, accademici si ritrovano nella Lecture room del collegio del Mondo Unito. Il tema è "Poesia e memoria: raccontare il presente". Si finisce a parlare della speranza, nella nostra situazione politica così disperata. Su questo concetto si segnalano l'intervento di Maria Inversi, autrice e regista di teatro al femminile, che cita in proposito (e la riporto come la ricordo) l'espressione dell'Antigone di Anouilh "non so cosa farmene della vostra sporca speranza". Anche Loriano Macchiavelli, notissimo autore di noir-politici, afferma con un sorriso forse un po' amaro, che solo da quando ha smesso di sperare, i progetti si sono realizzati per lui. E forse si riferisce al successo editoriale che meritatamente gode, non ai progetti politici per un mondo meno ingiusto. La speranza, intesa però come virtù attiva, viene da altri relatori considerata imprescindibile, non solo come virtù teologale.
Al pomeriggio è programmata un'escursione in Slovenia, alla casa-museo del poeta Srecko Kosovel, nel piccolissimo paese di Tomaj. Ci offrono frutta, bevande, dolci. Siamo nell'area europea (dell'euro) e a pochi kilometri da Trieste, ma si avverte che, volontariamente, l'Italia è tenuta a distanza. Ci conducono a vedere dove il poeta, morto a soli ventidue anni, nacque e dove è sepolto con il resto della sua famiglia. Ci mostrano, nella credenza della casa-museo, un servizio di piatti da dodici (o forse sedici) persone, ed altri ingenui oggetti il cui solo privilegio è quello di essere appartenuto alla famiglia Kosovel. Sui commenti di Diego Zandel a questa esperienza e agli incontri di quella stessa sera, nella casa carsica, rimando al sito della sua newsletter DIEGOZANDEL.IT - 09/07/2008 - NAZIONALISMI
Per quanto riguarda la lettura dei poeti di turno quella sera, devo dire che mi ha colpito, per la forza e la semplicità dell' interpretazione e della scrittura, la bellunese Serena Dal Borgo. Mi ha interessato inoltre la chiave filosofico-satirica della poesia di Franco Insalaco, persona discreta, disponibile, aperta, che si dedica a temi molto seri con preziosa leggerezza. Paolo Ruffilli, atteso, giustificava la sua assenza per motivi di salute.
Domenica 6
La mattina della domenica è dedicata alla Passeggiata Rilke, di cui ho già accennato. Il castello avevo avuto modo di visitarlo la mattina di sabato e devo dire che il parco e il panorama sono le caratteristiche che lo rendono imperdibile, oltre ai documenti della famiglia, custoditi in bacheche, su cui si legge parte della storia di Trieste e la politica italiana dell'ultimo secolo sul confine orientale.
Concludiamo la bellissima mattinata facendo tappa alle risorgive del Timavo. La gente è in chiesa, con gli abiti della domenica. Il luogo è sacro già da prima dell'inizio dell'era cristiana. Noi poeti, tra cui Alberto Bertoni e la sua bella compagna Anna, Bianca Garavelli, aspettando i solerti pulmini che vengano a prenderci, ci siamo un po' sparsi per il sito, sostiamo sulle lastre di pietra dell'antico cimitero, chiacchierando dei nostri progetti.
Dopo il pranzo, come sempre generoso, ci ritroviamo di nuovo, nel tardo pomeriggio, sotto gli ippocastani del piccolo parco dell'albergo Ples per conversazioni letterarie. Poiché ha preso la parola Maria Inversi, introducendo il progetto che porta avanti da anni sul teatro al femminile, Isabella Panfido le risponde, definendo il progetto ormai "desueto". Si apre quindi un dibattito piuttosto acceso di cui si fa anima Biancamaria Frabotta. Ma davvero come afferma anche Franco Insalaco, i diritti delle donne sono ormai acquisiti? Qualcuno (sono io) cita l'attuale rappresentanza femminile nel nostro Parlamento per confutare anche solo l'impressione di tale "raggiunta parità", almeno da noi, in Italia. Il fervore del dibattito dimostra che l'argomento è ancora, e sarà per molto, materia scottante.
La sera ci trasferiamo a Trieste, nel parco di S. Giovanni, ex-ospedale psichiatrico. Il cielo sta preparando un temporale. Così la lettura si sposta sotto il colonnato prospiciente la chiesa. Fa da cornice un cielo nero squarciato da lampi e, a tratti, piove a dirotto. Bello sfondo per una serata dedicata a Alberto Bertoni (le sue belle e tristi poesie sull'Alzheimer, al padre!), a Claudio Grisancich e a Maarja Kangro.
Maarja è una donna di aspetto gentile. Certo la sua forza è intuibile. Ma quando legge, la sua poesia è una sorpresa per l'originalità e la totale mancanza di ogni leziosità liricheggiante. Credo che in questa serata lei e Grisancich costituiscano i due opposti: lui, molto noto ma soprattutto a un pubblico triestino, lei estone, quindi non conosciuta qui, personalità internazionale, ampiamente poliglotta. Non solo conosce la lingua italiana quasi perfettamente, ma è traduttrice in estone di alcuni tra i maggiori nostri poeti contemporanei, tra cui Magrelli e Zanzotto (grato regalo questi suoi libri di traduzioni con testo a fronte). La sera si conclude – da un certo punto di vista ha il suo apice – con una conversazione-intervista a Loriano Macchiavelli, autore che, a differenza della maggior parte dei partecipanti, è riuscito a scalare le classifiche delle vendite. E infatti l'incontro è ripreso dalla televisione triestina. Loriano ci parla degli inizi, dei progetti, sciorina aneddoti. E' un maestro, forse il maestro per gli scrittori di noir, ma la sua personalità è tutt'altro che tenebrosa.
Intanto ha spiovuto e, molto compostamente sciamiamo verso Il posto delle fragole, per un ristoro.
Lunedì 7
Questa giornata ha il suo culmine, nuovamente a Trieste, al Giardino di Androna degli Orti. La manifestazione si tiene in collaborazione con l'Associazione di volontariato culturale Luna e l'Altra e col Progetto Donna Salute Mentale. Siamo all'aperto, dove è allestito uno schermo per la proiezione di un film del 1993 su Alda Merini. Il vento agita il telone, e muove anche le palanche di un vicino ponteggio. Ma a Trieste non ci sia scompone per questo. Biancamaria Frabotta apre la serata, magistrale come sempre nella sua lettura, anche di testi recenti, di tema politico, il tono tra ironia e biasimo. Chiude una conversazione con Pino Roveredo, ancora un autore originario di qui, che ha raggiunto fama nazionale con racconti anche autobiografici di emarginazione e riscatto.
Martedì 8
E' dedicato a un viaggio in Croazia, presso la Comunità degli Italiani di Rovigno. La mattina a Trieste il mare sembra agitato. Del resto avevo già deciso di restare a terra, perché, per usare un eufemismo, non amo l'aliscafo.
A Trieste lungo le Rive il vento ha una bella forza, ma il gruppo dei poeti, di ritorno, mi assicura invece che la navigazione è stata piacevole, che a Rovigno splendeva il sole e l'accoglienza era calorosa.
Per concludere la giornata e definitivamente siglare il soggiorno, Cristina Benussi, dell'Università di Trieste, presenta l'ultimo libro edito dal Ramo d'oro e curato da Gabriella Musetti, sull'esperienza della Società delle Letterate.
Sotto gli alberi, riprendo il filo della lettura che avevo dovuto interrompere per mancanza di luce, la prima sera, sul prato dei santi Canziani. Vorrei mostrare (ci riesco) la relazione tra i temi del mio ultimo libro "Melanconia animale" e il filo rosso dell'idea di vita, "una" nelle sue diverse epifanie, che lega molte delle mie poesie. Tra il mio pubblico, silenziosi ma infreddoliti, i ragazzi di un Istituto Tecnico serbo che si preparano a cantare canzoni popolari della loro tradizione, Maarja Kangro, Loriano Macchiavelli, e molti altri. Sembrano gradire le mie parole, i miei versi, i grandi ippocastani, gli alberi, protagonisti di tanta mia poesia.
IX Edizione
4–8 luglio 2008
Anche quest'anno Gabriella Musetti, è riuscita infine a organizzare questa "collegiale" occasione d'incontro, nella cornice misteriosa e ancora intatta dove echeggiano la poesia di Rilke, le due guerre mondiali, i più recenti propositi di pace.
Fulcro di Duino è il castello della famiglia che, italianizzando definitivamente il suo nome si chiamò, dall'inizio degli anni venti del secolo scorso, della Torre e Tasso.
A picco sul mare è circondata da un parco "asburgicamente" fiorito. All'esterno è ancora visibile il tavolo di marmo al quale il poeta stese la prima versione delle Elegie. Ma si possono visitare anche i bunker, ostili difese durante la prima guerra mondiale, scavate nella roccia con sbocchi "vista mare". Gli alleati della seconda guerra mondiale, dopo avere occupato le stanze e i saloni del castello, costringendo in una tenda il legittimo proprietario, avevano infine destinato quei profondi cunicoli a deposito di munizioni. Lì, all'ingresso del bunker, trovi una dichiarazione della nuova Germania nata dalla sconfitta, che si giustifica (cito a memoria) "per dodici anni di dittatura e barbarie che non possono e non debbono pesare come giudizio sull'intera storia del popolo tedesco", e pertanto giura fedeltà ai principi di convivenza tra i popoli.
La passeggiata "Rilke" è uno stretto sentiero che corre al bordo degli scogli (prediletti dai suicidi, c'informa Gabriella) e s'insinua nella macchia in direzione di Trieste. Si fregia di questo nome anche se la stessa Contessa della Torre in un suo vivace libro di memorie, bestseller alla biglietteria del castello, c'informa che il poeta raramente s'incamminava in quella direzione. Percorrerlo concede certamente un'esperienza estetica singolare, soprattutto in compagnia di persone amiche e poeti, specialmente se a un piccolo slargo si può fare tappa, per improvvisare una lettura di testi, la faccia rivolta al mare.
Una diversa emozione, durante il soggiorno a Duino, può darla anche il sapore di una "coda di rospo" molto fresca, cucinata semplicemente alla griglia, gustata sotto un pigro pergolato, alla trattoria "Il pescatore", sempre in compagnia degli amici (ho di fronte Biancamaria Frabotta e Gabriella, di lato Loriano Macchiavelli) con un gattino grigio striato accoccolato sotto il tavolo nella esplicita richiesta di partecipare se non alla conversazione, almeno alla degustazione.
Gabriella Musetti è di quelle donne che dentro una struttura fisica minuta e morbida, racchiude un'energia eccezionale. Durante le cinque giornate di Residenze Estive non ha mai un'espressione stanca o contrariata, sembra che lasci che le cose vadano, per così dire, lungo la corrente, come se tutto non fosse già accortamente previsto e accuratamente progettato.
E' lei l'organizzatrice "in capo" e l'anima stessa di queste giornate.
venerdì 4 luglio
La prima sera ci ritroviamo a San Canzian d'Isonzo, in provincia di Gorizia, i microfoni sistemati su un prato attiguo alla Chiesa dei santi Martiri Canziani. Martiri delle persecuzioni di Diocleziano, il sito è archeologico.
Legge Diego Zandel, scrittore figlio di profughi istriani, che per quanto non possa avere memoria diretta dell'esodo, tuttavia non può dimenticarlo. Scrive trame che a quel tema si riallacciano, e nel dibattito che segue alla lettura, parla di sé che è cresciuto a Roma e ha una moglie greca, si augura un superamento dei nazionalismi, nella conservazione delle diversità. Il suo discorso è seguito dai suoni e dalle voci di un duo originale, Erica e Gabriele Benfatto, lei soprattutto dotata di una gamma vocale eccezionalmente estesa, con note scure molto particolari. Canta le sue poesie in dialetto del luogo, il bisiàc, che, secondo la definizione che mutuo da una nota di Ivan Crico, è un raro “sermo rusticus” di tipo arcaico veneto - ma che al suo interno contiene anche numerosi termini ladini, sloveni, tedeschi e francesi - parlato ancora nei paesi del monfalconese. Interessante: l'uso corrente del termine è di recente acquisizione.
Poi, dopo la musica e il canto, succede che la corrente elettrica s'interrompe in tutto il paese: niente luce (sono alle dieci di sera), niente microfoni e siamo all'aperto. Così, nel buio e senza microfono, il poeta di turno (sono io) recita a memoria, nel buio, qualche poesia, fiduciosa che la corrente ritorni. Invano, solo la casa del prete è illuminata, probabilmente grazie all'istallazione di un gruppo elettrogeno. Privilegio che merita commenti vivaci e perplessi, in una zona di forte tradizione cattolica.
Infine si desiste, non resta che appressarsi a cenare, al lume di candele.
sabato 5
La mattina seguente, giornalisti, poeti, accademici si ritrovano nella Lecture room del collegio del Mondo Unito. Il tema è "Poesia e memoria: raccontare il presente". Si finisce a parlare della speranza, nella nostra situazione politica così disperata. Su questo concetto si segnalano l'intervento di Maria Inversi, autrice e regista di teatro al femminile, che cita in proposito (e la riporto come la ricordo) l'espressione dell'Antigone di Anouilh "non so cosa farmene della vostra sporca speranza". Anche Loriano Macchiavelli, notissimo autore di noir-politici, afferma con un sorriso forse un po' amaro, che solo da quando ha smesso di sperare, i progetti si sono realizzati per lui. E forse si riferisce al successo editoriale che meritatamente gode, non ai progetti politici per un mondo meno ingiusto. La speranza, intesa però come virtù attiva, viene da altri relatori considerata imprescindibile, non solo come virtù teologale.
Al pomeriggio è programmata un'escursione in Slovenia, alla casa-museo del poeta Srecko Kosovel, nel piccolissimo paese di Tomaj. Ci offrono frutta, bevande, dolci. Siamo nell'area europea (dell'euro) e a pochi kilometri da Trieste, ma si avverte che, volontariamente, l'Italia è tenuta a distanza. Ci conducono a vedere dove il poeta, morto a soli ventidue anni, nacque e dove è sepolto con il resto della sua famiglia. Ci mostrano, nella credenza della casa-museo, un servizio di piatti da dodici (o forse sedici) persone, ed altri ingenui oggetti il cui solo privilegio è quello di essere appartenuto alla famiglia Kosovel. Sui commenti di Diego Zandel a questa esperienza e agli incontri di quella stessa sera, nella casa carsica, rimando al sito della sua newsletter DIEGOZANDEL.IT - 09/07/2008 - NAZIONALISMI
Per quanto riguarda la lettura dei poeti di turno quella sera, devo dire che mi ha colpito, per la forza e la semplicità dell' interpretazione e della scrittura, la bellunese Serena Dal Borgo. Mi ha interessato inoltre la chiave filosofico-satirica della poesia di Franco Insalaco, persona discreta, disponibile, aperta, che si dedica a temi molto seri con preziosa leggerezza. Paolo Ruffilli, atteso, giustificava la sua assenza per motivi di salute.
Domenica 6
La mattina della domenica è dedicata alla Passeggiata Rilke, di cui ho già accennato. Il castello avevo avuto modo di visitarlo la mattina di sabato e devo dire che il parco e il panorama sono le caratteristiche che lo rendono imperdibile, oltre ai documenti della famiglia, custoditi in bacheche, su cui si legge parte della storia di Trieste e la politica italiana dell'ultimo secolo sul confine orientale.
Concludiamo la bellissima mattinata facendo tappa alle risorgive del Timavo. La gente è in chiesa, con gli abiti della domenica. Il luogo è sacro già da prima dell'inizio dell'era cristiana. Noi poeti, tra cui Alberto Bertoni e la sua bella compagna Anna, Bianca Garavelli, aspettando i solerti pulmini che vengano a prenderci, ci siamo un po' sparsi per il sito, sostiamo sulle lastre di pietra dell'antico cimitero, chiacchierando dei nostri progetti.
Dopo il pranzo, come sempre generoso, ci ritroviamo di nuovo, nel tardo pomeriggio, sotto gli ippocastani del piccolo parco dell'albergo Ples per conversazioni letterarie. Poiché ha preso la parola Maria Inversi, introducendo il progetto che porta avanti da anni sul teatro al femminile, Isabella Panfido le risponde, definendo il progetto ormai "desueto". Si apre quindi un dibattito piuttosto acceso di cui si fa anima Biancamaria Frabotta. Ma davvero come afferma anche Franco Insalaco, i diritti delle donne sono ormai acquisiti? Qualcuno (sono io) cita l'attuale rappresentanza femminile nel nostro Parlamento per confutare anche solo l'impressione di tale "raggiunta parità", almeno da noi, in Italia. Il fervore del dibattito dimostra che l'argomento è ancora, e sarà per molto, materia scottante.
La sera ci trasferiamo a Trieste, nel parco di S. Giovanni, ex-ospedale psichiatrico. Il cielo sta preparando un temporale. Così la lettura si sposta sotto il colonnato prospiciente la chiesa. Fa da cornice un cielo nero squarciato da lampi e, a tratti, piove a dirotto. Bello sfondo per una serata dedicata a Alberto Bertoni (le sue belle e tristi poesie sull'Alzheimer, al padre!), a Claudio Grisancich e a Maarja Kangro.
Maarja è una donna di aspetto gentile. Certo la sua forza è intuibile. Ma quando legge, la sua poesia è una sorpresa per l'originalità e la totale mancanza di ogni leziosità liricheggiante. Credo che in questa serata lei e Grisancich costituiscano i due opposti: lui, molto noto ma soprattutto a un pubblico triestino, lei estone, quindi non conosciuta qui, personalità internazionale, ampiamente poliglotta. Non solo conosce la lingua italiana quasi perfettamente, ma è traduttrice in estone di alcuni tra i maggiori nostri poeti contemporanei, tra cui Magrelli e Zanzotto (grato regalo questi suoi libri di traduzioni con testo a fronte). La sera si conclude – da un certo punto di vista ha il suo apice – con una conversazione-intervista a Loriano Macchiavelli, autore che, a differenza della maggior parte dei partecipanti, è riuscito a scalare le classifiche delle vendite. E infatti l'incontro è ripreso dalla televisione triestina. Loriano ci parla degli inizi, dei progetti, sciorina aneddoti. E' un maestro, forse il maestro per gli scrittori di noir, ma la sua personalità è tutt'altro che tenebrosa.
Intanto ha spiovuto e, molto compostamente sciamiamo verso Il posto delle fragole, per un ristoro.
Lunedì 7
Questa giornata ha il suo culmine, nuovamente a Trieste, al Giardino di Androna degli Orti. La manifestazione si tiene in collaborazione con l'Associazione di volontariato culturale Luna e l'Altra e col Progetto Donna Salute Mentale. Siamo all'aperto, dove è allestito uno schermo per la proiezione di un film del 1993 su Alda Merini. Il vento agita il telone, e muove anche le palanche di un vicino ponteggio. Ma a Trieste non ci sia scompone per questo. Biancamaria Frabotta apre la serata, magistrale come sempre nella sua lettura, anche di testi recenti, di tema politico, il tono tra ironia e biasimo. Chiude una conversazione con Pino Roveredo, ancora un autore originario di qui, che ha raggiunto fama nazionale con racconti anche autobiografici di emarginazione e riscatto.
Martedì 8
E' dedicato a un viaggio in Croazia, presso la Comunità degli Italiani di Rovigno. La mattina a Trieste il mare sembra agitato. Del resto avevo già deciso di restare a terra, perché, per usare un eufemismo, non amo l'aliscafo.
A Trieste lungo le Rive il vento ha una bella forza, ma il gruppo dei poeti, di ritorno, mi assicura invece che la navigazione è stata piacevole, che a Rovigno splendeva il sole e l'accoglienza era calorosa.
Per concludere la giornata e definitivamente siglare il soggiorno, Cristina Benussi, dell'Università di Trieste, presenta l'ultimo libro edito dal Ramo d'oro e curato da Gabriella Musetti, sull'esperienza della Società delle Letterate.
Sotto gli alberi, riprendo il filo della lettura che avevo dovuto interrompere per mancanza di luce, la prima sera, sul prato dei santi Canziani. Vorrei mostrare (ci riesco) la relazione tra i temi del mio ultimo libro "Melanconia animale" e il filo rosso dell'idea di vita, "una" nelle sue diverse epifanie, che lega molte delle mie poesie. Tra il mio pubblico, silenziosi ma infreddoliti, i ragazzi di un Istituto Tecnico serbo che si preparano a cantare canzoni popolari della loro tradizione, Maarja Kangro, Loriano Macchiavelli, e molti altri. Sembrano gradire le mie parole, i miei versi, i grandi ippocastani, gli alberi, protagonisti di tanta mia poesia.
lunedì 9 giugno 2008
RESIDENZE ESTIVE 2008
Avrà luogo dal 4 all'8 luglio il IX Festival di poesia e Laboratorio culturale che riunisce in vita comunitaria per un attivo e vivace confronto poeti e scrittori italiani e stranieri, con particolare riferimento all'area culturale e geografica del Friuli Venezia Giulia che ospita l'evento, dell'Est e del Nord Europa.
Gabriella Musetti, ideatrice dell'evento, ha invitato poeti, scrittori e artisti a un soggiorno itinerante nell'area di Duino e del Carso, per incontri con poeti, scrittori e artisti anche della vicine Slovenia, Croazia, Albania e delle più distanti Svezia e Estonia.
Un'esperienza di cui torneremo a parlare, da Lucreziana, dopo la metà di luglio.
Trascriviamo una sintesi del progetto e del programma che Gabriella Musetti ci ha fatto pervenire:
Il Festival di poesia e Laboratorio culturale Residenze Estive attraversa varie espressioni e contaminazioni artistiche. Crea occasioni di confronto e scambio attraverso rapporti formali e informali, con poeti/e, scrittori, scrittrici e artisti/e di diverse tendenze, attraverso letture, seminari, video, esposizioni, performances. Caratteristica del progetto è la residenzialità “aperta” degli ospiti che soggiorneranno per cinque giorni a Duino (Trieste), presso l’ex Albergo austriaco Ples (Collegio del Mondo Unito) e incontreranno il pubblico e gli appassionati di letteratura in diverse occasioni e luoghi, condividendo momenti e spazi della vita quotidiana. Il progetto punta sulla riappropriazione di un tempo più disteso, nel quale l’incontro con “l’autore” non avviene solo nel momento pubblico e già organizzato dello spettacolo. Le letture si svolgono in diversi luoghi della provincia di Trieste, di Gorizia. e nella città di Parenzo (Croazia) attraverso un viaggio in nave lungo le coste dell’Istria. Tutti gli incontri sono gratuiti e aperti al pubblico.
I luoghi
La regione carsica, caratterizzata da lievi alture, si affaccia direttamente sul mare con notevoli salti di quota, con punti panoramici unici nel loro genere: ciò rende quest'area uno dei luoghi più singolari e affascinanti del paesaggio dell’Alto Adriatico.
Il Castello di Duino, dei principi di Torre e Tasso, è uno degli edifici più fascinosi e ricchi di storia del Carso triestino. Un castello che ispirò anche un poeta come Rainer Maria Rilke, che qui soggiornò tra il 1911 e 1912 e che dall'incanto di questi luoghi trasse l'ispirazione per le famose "Elegie duinesi".
Il Collegio del Mondo Unito dell'Adriatico di Duino annualmente ospita circa 200 studenti, di età compresa tra i 16 e i 19 anni, provenienti da circa 75 diversi Paesi. Sono ammessi dopo una severa selezione e accedono al Collegio esclusivamente con borsa di studio. Ciò permette di scegliere i candidati in base al merito, senza distinzione di censo, razza, lingua o religione. I Collegi del Mondo Unito sono istituzioni che si prefiggono di fornire ai giovani, prima dell’accesso all'Università, un'educazione globale in un ambiente disegnato per promuovere la comprensione internazionale, la pace e la giustizia. Nati nel 1962, con la fondazione dell'Atlantic College, nel Galles, devono la loro esistenza all'intuizione del pedagogo tedesco Kurt Hahn. Il principio di base del Collegio è impostato sulla valorizzazione delle attitudini umane con l'obiettivo di sviluppare negli allievi la comprensione internazionale attraverso l’istruzione e il lavoro comune.
Sono invitati:
Claudio Grisancich, Biancamaria Frabotta, Diego Zandel, Maarja Kangro (Estonia), Josip Osti (Slovenia), Mardena Klemadi (Albania), Bianca Garavelli, Pino Roveredo, Ragnar Strömberg (Svezia), Isabella Panfido, Elfriede Gerlst (Austria), Serena Dal Borgo, Velvet Afri, Piera Mattei, Paolo Ruffilli, Franco Insalaco, Loriano Macchiavelli, Giacomo Scotti, Laura Marchig;
Renata Caruzzi (Univ. Trieste), Elvio Guagnini (Univ. Trieste), Marzio Porro (Univ. Milano), Alberto Bertoni, (Univ. Bologna), Ellis Deghenghi (Univ. Pola), Silvio Forza (giornalista), Martina Gamboz (giornalista), Luciana Tufani (editrice)
Gabriella Musetti, ideatrice dell'evento, ha invitato poeti, scrittori e artisti a un soggiorno itinerante nell'area di Duino e del Carso, per incontri con poeti, scrittori e artisti anche della vicine Slovenia, Croazia, Albania e delle più distanti Svezia e Estonia.
Un'esperienza di cui torneremo a parlare, da Lucreziana, dopo la metà di luglio.
Trascriviamo una sintesi del progetto e del programma che Gabriella Musetti ci ha fatto pervenire:
Il Festival di poesia e Laboratorio culturale Residenze Estive attraversa varie espressioni e contaminazioni artistiche. Crea occasioni di confronto e scambio attraverso rapporti formali e informali, con poeti/e, scrittori, scrittrici e artisti/e di diverse tendenze, attraverso letture, seminari, video, esposizioni, performances. Caratteristica del progetto è la residenzialità “aperta” degli ospiti che soggiorneranno per cinque giorni a Duino (Trieste), presso l’ex Albergo austriaco Ples (Collegio del Mondo Unito) e incontreranno il pubblico e gli appassionati di letteratura in diverse occasioni e luoghi, condividendo momenti e spazi della vita quotidiana. Il progetto punta sulla riappropriazione di un tempo più disteso, nel quale l’incontro con “l’autore” non avviene solo nel momento pubblico e già organizzato dello spettacolo. Le letture si svolgono in diversi luoghi della provincia di Trieste, di Gorizia. e nella città di Parenzo (Croazia) attraverso un viaggio in nave lungo le coste dell’Istria. Tutti gli incontri sono gratuiti e aperti al pubblico.
I luoghi
La regione carsica, caratterizzata da lievi alture, si affaccia direttamente sul mare con notevoli salti di quota, con punti panoramici unici nel loro genere: ciò rende quest'area uno dei luoghi più singolari e affascinanti del paesaggio dell’Alto Adriatico.
Il Castello di Duino, dei principi di Torre e Tasso, è uno degli edifici più fascinosi e ricchi di storia del Carso triestino. Un castello che ispirò anche un poeta come Rainer Maria Rilke, che qui soggiornò tra il 1911 e 1912 e che dall'incanto di questi luoghi trasse l'ispirazione per le famose "Elegie duinesi".
Il Collegio del Mondo Unito dell'Adriatico di Duino annualmente ospita circa 200 studenti, di età compresa tra i 16 e i 19 anni, provenienti da circa 75 diversi Paesi. Sono ammessi dopo una severa selezione e accedono al Collegio esclusivamente con borsa di studio. Ciò permette di scegliere i candidati in base al merito, senza distinzione di censo, razza, lingua o religione. I Collegi del Mondo Unito sono istituzioni che si prefiggono di fornire ai giovani, prima dell’accesso all'Università, un'educazione globale in un ambiente disegnato per promuovere la comprensione internazionale, la pace e la giustizia. Nati nel 1962, con la fondazione dell'Atlantic College, nel Galles, devono la loro esistenza all'intuizione del pedagogo tedesco Kurt Hahn. Il principio di base del Collegio è impostato sulla valorizzazione delle attitudini umane con l'obiettivo di sviluppare negli allievi la comprensione internazionale attraverso l’istruzione e il lavoro comune.
Sono invitati:
Claudio Grisancich, Biancamaria Frabotta, Diego Zandel, Maarja Kangro (Estonia), Josip Osti (Slovenia), Mardena Klemadi (Albania), Bianca Garavelli, Pino Roveredo, Ragnar Strömberg (Svezia), Isabella Panfido, Elfriede Gerlst (Austria), Serena Dal Borgo, Velvet Afri, Piera Mattei, Paolo Ruffilli, Franco Insalaco, Loriano Macchiavelli, Giacomo Scotti, Laura Marchig;
Renata Caruzzi (Univ. Trieste), Elvio Guagnini (Univ. Trieste), Marzio Porro (Univ. Milano), Alberto Bertoni, (Univ. Bologna), Ellis Deghenghi (Univ. Pola), Silvio Forza (giornalista), Martina Gamboz (giornalista), Luciana Tufani (editrice)
Mercedes Parodi I GIARDINI DI MARRAKECH
Ricevo da Mercedes Parodi, che ama definirsi giardiniera, ed è in effetti una donna che ama vivere nella natura addomesticata dal suo sguardo e dal suo amore, questo breve confronto tra i giardini di Marrakech che ha da poco visitato con amici che condividono la sua stessa passione, e quelli della nativa Sanremo. Mi sembra un modo originale e elegante di comparare culture. La passione ci rende sempre "profondamente" intelligenti e ci mette in grado di comprendere anche la diversità in un modo qualitativamente diverso (p.m.).
Il Marocco... si è trattato di un'emozione, un coup-de-coeur, la durata di un'occhiata lunga una settimana. I giardini privati di Tangeri e di Marrakech sono europei, ritagliati in un contesto arabo, dal quale traggono le esperienze locali connesse al clima e all'acqua. Ma sono due realtà geografiche ben distanti l'una dall'altra perché Tangeri e le sue ville primo novecento in collina è così simile alla Liguria e alla Costa Azzurra da confondere le idee, con i tetti e la sommità dei muri di cinta coperti di tegole invetriate color acquamarina, turchesi o verdi- da cui sporgono ficus enormi, bouganvillee, bignonie,jacarande, gelsomini, dature-affacciata sul Mediterraneo,ventosa, le coste dell'Andalusia a vista di fronte a sé: non è sorella di Marrakech, pianeggiante, rossa e ocra di terra grezza nelle lunghe mura che la cingono, in cui la lotta per l'acqua é millenaria e strapparla al Sahara ha rappresentato e rappresenta il problema costante che coinvolge le amministrazioni indigene ( e estere durante i protettorati) perché quando finisce la primavera, dal deserto comincia ad arrivare quell'aria caldissima che fa salire il termometro a 50 gradi. Mohammed El Faiz che è professore di Storia Economica all'università di Marrakech ed è autore di molti studi sui problemi dell'urbanizzazione e dell'approvvigionamento della città ci ha accompagnati nella visita ai giardini imperiali dell'Agdal (XII sec.), ricostruiti secondo il progetto originario nel tracciato delle canalizzazioni che portavano l'acqua attraverso cunicoli principalmente ipogei dai monti dell'Atlante, raccogliendo anche acque sotterranee lungo il percorso per poi ridistribuirle tramite quel sistema di irrigazione per orti e punti di ristoro delle carovane che consentirono a Marrakech la definizione di città-giardino. I giardini dell'Agdal nella realtà sono un antico esempio di agricoltura razionale, un ampio territorio destinato a frutteto, uliveto e vigneto piantato a settori secondo il criterio della maggiore o minore necessità d'acqua delle colture quindi a maggiore o minore vicinanza dal bacino di raccolta d'acqua. Sia Tangeri che Marrakech sono in forte sviluppo abitativo e secondo El Faiz il sottosuolo di Marrakech che è piatto era canalizzato a 4 metri di profondità e ora le fondamenta dei nuovi condomini e dei grandi alberghi scavate ben più a fondo hanno tagliato le antiche condotte sconvolgendo i vecchi equilibri.In effetti i palmizi della città sono stenti e polverosi, le piante impoverite e prostrate.
Il giardino arabo è un elegante cortile interno alla abitazione, pavimentato di pietra o di marmo, ornato di piastrelle di ceramica o mosaici con una fontana o una vasca d'acqua, profumato da rose, gelsomini e zagare. Gli Arabi dicono che questo schema è stato esportato da noi nel medioevo, noi potremmo replicare però che i Romani lo avevano fatto prima, come per esempio Pompei con impluvi, vasche e porticati attesta chiaramente.
Ad ogni modo, si può semplificare dicendo che il giardino europeo in Marocco è un luogo di collezioni di piante non solo marocchine ma provenienti
da tutte le aree omologhe per condizioni climatiche, quindi ricchissimo di varietà differenti, mentre arabi sono arredi, lampade, stoffe, ceramiche e cibi.
Noi la fantasia e l'anarchia, loro la matematica e l'obbedienza.
Nei giardini degli europei gironzolano anche cani ben pasciuti e vezzeggiati dai padroni di casa e dai loro ospiti, mentre fuori non se ne vedono e al di là di qualche raro gatto nelle strade circolano solo molti piccoli asini strappacuore carichi di masserizie, strapazzati e malnutriti.
A Marrakech sono stati creati viali lunghissimi urbani di rose e fontane che a sera sino a notte sono gremiti di famiglie in cerca di frescura. Nell'impronta occidentale della città moderna avverti come un vuoto, manca qualcosa: sono privi di monumenti e statue, secondo il loro dettato religioso. C'è come una maggiore libertà, però,senza riferimenti obbligati, solo i segni della scrittura incisi nella pietra e la linea verticale delle moschee trattengono brevemente il pensiero.
Mercedes Parodi
domenica 25 maggio 2008
Piera Mattei - FRANCESCO COSTA – Presto ti sveglierai – Salani 2008
Può uno scrittore napoletano smettere di prendere Napoli a scenario delle sue trame? Oppure come la voce manterrà la cadenza ironica e orgogliosa di quella città, anche la fantasia continuerà a frequentare i luoghi dove, per la prima volta si accese? La Napoli di questo romanzo è Fuorigrotta, vera protagonista di questo romanzo, vero personaggio a tutto tondo, fondale di una black comedy, ritratto grottesco di una società.
Un contesto piccolo borghese: una coppia di professori di scuola media superiore, a cui per primi la cultura non dice proprio nulla. Come per molti, dietro il titolo, il ruolo presunto, ci sono il vuoto e la frustrazione. I valori sono sempre e solo il denaro e l'apparire. Anche se, la protagonista, Laura, ama i fiori e l'albero del suo giardino e, di certo, è una creatura buona. Potenzialmente, almeno agli inizi, una vittima del marito e della figlia e una creatura di cui prendersi gioco nell'ambiente di lavoro.
Napoli di Fuorigrotta è, secondo come soffia il vento, odore di monnezza o di corpi che si decompongono dal vicino cimitero, un vicino stravagante che va in giro travestito da Cristo, una madre che ne è fiera: non siamo lontani dalle atmosfere di certo surrealismo alla Totò. Ma i tempi sono cambiati, ora ciò che è vero non è soltanto quello che appare agli occhi della gente, ma quello che si vede in televisione, e il finale a sorpresa è la rivelazione di una realtà non solo napoletana.
Come in una favola, l'autore ha rinunciato a scavare psicologie, per designare archetipi, marionette, incapaci di uscire dal personaggio che il burattinaio ha ritagliato per loro. Ma il congegno è perfetto, i tasselli di una storia incredibile ma proprio per questo possibile, alla fine trovano tutti il loro incastro.
Sulla copertina si baciano, perfetti e bugiardi, una coppia di sposi da un quadro di Giovanna Picciau, che a me ricorda perché aveva curato delle esposizioni di suoi quadri, una cara amica gallerista, Sandra Gerace, anche lei una vera napoletana trapiantata a Roma, una di quelle che il loro accento e la loro arguzia partenopea, dopo anni e le esperienze più varie, non li dismettono mai.
Piera Mattei
Un contesto piccolo borghese: una coppia di professori di scuola media superiore, a cui per primi la cultura non dice proprio nulla. Come per molti, dietro il titolo, il ruolo presunto, ci sono il vuoto e la frustrazione. I valori sono sempre e solo il denaro e l'apparire. Anche se, la protagonista, Laura, ama i fiori e l'albero del suo giardino e, di certo, è una creatura buona. Potenzialmente, almeno agli inizi, una vittima del marito e della figlia e una creatura di cui prendersi gioco nell'ambiente di lavoro.
Napoli di Fuorigrotta è, secondo come soffia il vento, odore di monnezza o di corpi che si decompongono dal vicino cimitero, un vicino stravagante che va in giro travestito da Cristo, una madre che ne è fiera: non siamo lontani dalle atmosfere di certo surrealismo alla Totò. Ma i tempi sono cambiati, ora ciò che è vero non è soltanto quello che appare agli occhi della gente, ma quello che si vede in televisione, e il finale a sorpresa è la rivelazione di una realtà non solo napoletana.
Come in una favola, l'autore ha rinunciato a scavare psicologie, per designare archetipi, marionette, incapaci di uscire dal personaggio che il burattinaio ha ritagliato per loro. Ma il congegno è perfetto, i tasselli di una storia incredibile ma proprio per questo possibile, alla fine trovano tutti il loro incastro.
Sulla copertina si baciano, perfetti e bugiardi, una coppia di sposi da un quadro di Giovanna Picciau, che a me ricorda perché aveva curato delle esposizioni di suoi quadri, una cara amica gallerista, Sandra Gerace, anche lei una vera napoletana trapiantata a Roma, una di quelle che il loro accento e la loro arguzia partenopea, dopo anni e le esperienze più varie, non li dismettono mai.
Piera Mattei
Piera Mattei – FILIPPO LA PORTA – Diario di un patriota perplesso negli USA
Forse non c'è occasione più adatta che quella di un soggiorno di media durata, sei mesi, per sapersi guardare intorno con occhi vivaci, facendo confronti. E' la situazione ideale. Può significare contrarre alcune abitudini, ma senza che spuntino radici, senza che si trasformino in una sorta di necessità che impedisce di ricordare quando i gesti, i panorami, le parole intorno, erano diverse. Significa tenere sempre presente la distanza che separa dal ritorno, e cercare di fare tesoro di esperienze nuove da riutilizzare una volta tornati.
Filippo La Porta, reduce da un soggiorno, di sei mesi appunto, a New York, ha pubblicato questo agile libro "civile". Mettendo per una volta da parte l'analisi dei titoli e dei linguaggi, ha voluto portare a casa qualcosa di utile e provare a rinnovare, anche scanzonatamente ma fermamente, la coscienza di un'identità.
Dal di fuori si nota meglio: sembra che davvero i tempi siano maturi per uscire dal vezzo dell'autodenigrazione e riconoscere, quello che tutti al di fuori ci riconoscono, una sostanziale unità nei difetti, e nei pregi anche, fortunatamente. Forse di nuovo, come altre volte in tempi confusi o difficili, voci originali senza scadere nella predica e nella retorica, sapranno dirlo. La proposta di Filippo La Porta così la riassumiamo: l'importanza, forse la necessità, di un mito positivo che, con la guida di Primo Levi e dei Simpson, individua nell’"amore per la bellezza". Certo c'è bello e bello. La Divina Commedia non è una Lamborghini, la moda e il design non sono la cura e la genialità nel ridisegnare il paesaggio. E tuttavia il nostro amore per la bellezza, "resta pur sempre un'influente, suggestiva narrazione, non importa quanto ancora empiricamente fondata, diffusa nel mondo." Dipende solo da noi non disprezzare la nostra eredità, non dissiparla nella costruzione di parchi giochi per turisti di tutto il mondo.
Questo libro, semplice, agile, lo consiglio particolarmente ai giovani e giovanissimi. Non costerebbe loro un'eccessiva fatica leggerlo e forse alzerebbe loro il morale, ne trarrebbero spunti per letture e conversazioni. Potrebbero scalfire l'inclinazione a scimmiottare, a scimmiottarsi, sempre in maschera, sempre annoiati, a imporsi di fare quello che la società globale spietatamente suggerisce.
I più impegnati, perché ancora ce ne sono, avrebbero la conferma di non essere soli.
Quelli che quando viaggiano si sentono rimproverare un'identità in cui non si riconoscono, avrebbero qualche strumento in più per non inabissarsi nella vergogna.
Piera Mattei
Filippo La Porta, reduce da un soggiorno, di sei mesi appunto, a New York, ha pubblicato questo agile libro "civile". Mettendo per una volta da parte l'analisi dei titoli e dei linguaggi, ha voluto portare a casa qualcosa di utile e provare a rinnovare, anche scanzonatamente ma fermamente, la coscienza di un'identità.
Dal di fuori si nota meglio: sembra che davvero i tempi siano maturi per uscire dal vezzo dell'autodenigrazione e riconoscere, quello che tutti al di fuori ci riconoscono, una sostanziale unità nei difetti, e nei pregi anche, fortunatamente. Forse di nuovo, come altre volte in tempi confusi o difficili, voci originali senza scadere nella predica e nella retorica, sapranno dirlo. La proposta di Filippo La Porta così la riassumiamo: l'importanza, forse la necessità, di un mito positivo che, con la guida di Primo Levi e dei Simpson, individua nell’"amore per la bellezza". Certo c'è bello e bello. La Divina Commedia non è una Lamborghini, la moda e il design non sono la cura e la genialità nel ridisegnare il paesaggio. E tuttavia il nostro amore per la bellezza, "resta pur sempre un'influente, suggestiva narrazione, non importa quanto ancora empiricamente fondata, diffusa nel mondo." Dipende solo da noi non disprezzare la nostra eredità, non dissiparla nella costruzione di parchi giochi per turisti di tutto il mondo.
Questo libro, semplice, agile, lo consiglio particolarmente ai giovani e giovanissimi. Non costerebbe loro un'eccessiva fatica leggerlo e forse alzerebbe loro il morale, ne trarrebbero spunti per letture e conversazioni. Potrebbero scalfire l'inclinazione a scimmiottare, a scimmiottarsi, sempre in maschera, sempre annoiati, a imporsi di fare quello che la società globale spietatamente suggerisce.
I più impegnati, perché ancora ce ne sono, avrebbero la conferma di non essere soli.
Quelli che quando viaggiano si sentono rimproverare un'identità in cui non si riconoscono, avrebbero qualche strumento in più per non inabissarsi nella vergogna.
Piera Mattei
domenica 11 maggio 2008
Piera Mattei –Leoni per agnelli
La testimonianza di Nicola Poccia, studente di Fisica, mi ha fatto tornare in mente, per contrasto, il recente film di Robert Redford "Leoni per agnelli", che si muove, in parte almeno, sui temi dell'impegno e della guerra.
Lì un non più giovane professore, con un passato non rinnegato di contestatore, cercava di scuotere l'abulìa di uno studente bravo, ma deciso al disimpegno, di cui il junk food consumato con passivo posizionamento davanti al teleschermo, era solo indigesto simbolo.
Qui, nel caso di Nicola Poccia trovo all'opposto uno studente, un cittadino, un uomo, che non vorrebbe accomodarsi, non vorrebbe restarsene seduto a farsi invadere dalle morbose curiosità scatenate dai più insulsi (ma pervasivi) programmi TV. Potrebbe farlo per disperazione, se non troverà il modo di uscire da un sentimento di delusione e di smarrimento. Non vorrebbe neppure farsi occupare da impulsi aggressivi, da ciò che chiamiamo in senso metaforico e reale, la guerra.
Sono diversa da Redford-professore. Nonostante che da decenni io non sia più una studentessa, mi sento di somigliare di più a Nicola, in questo preciso momento. Mi sento smarrita, perplessa e delusa, anche se sto cercando di rimettermi in forze, di vaccinarmi con dosi abbondanti d'ironia. Le buone maniere sono un grande valore, certo. Ma, sono d'accordo, non possono esprimere l'intera sostanza di quanto si dice, di quanto si progetta.
Vorrei continuare con Nicola Poccia, studente di Fisica, e con molti altri, a fare chiarezza, con interventi brevi ma puntuali, sul nostro presente, su quanto riteniamo giusto, senza volere imporlo a tutti gli altri, ma cercando, senza pregiudizi quegli "altri" con cui il dibattito sia condivisibile.
Gli ambiti in cui vorrei continuare il dibattito:
I. Etica, Religioni, Chiese
II. Etica, Lingue, Letterature
Lì un non più giovane professore, con un passato non rinnegato di contestatore, cercava di scuotere l'abulìa di uno studente bravo, ma deciso al disimpegno, di cui il junk food consumato con passivo posizionamento davanti al teleschermo, era solo indigesto simbolo.
Qui, nel caso di Nicola Poccia trovo all'opposto uno studente, un cittadino, un uomo, che non vorrebbe accomodarsi, non vorrebbe restarsene seduto a farsi invadere dalle morbose curiosità scatenate dai più insulsi (ma pervasivi) programmi TV. Potrebbe farlo per disperazione, se non troverà il modo di uscire da un sentimento di delusione e di smarrimento. Non vorrebbe neppure farsi occupare da impulsi aggressivi, da ciò che chiamiamo in senso metaforico e reale, la guerra.
Sono diversa da Redford-professore. Nonostante che da decenni io non sia più una studentessa, mi sento di somigliare di più a Nicola, in questo preciso momento. Mi sento smarrita, perplessa e delusa, anche se sto cercando di rimettermi in forze, di vaccinarmi con dosi abbondanti d'ironia. Le buone maniere sono un grande valore, certo. Ma, sono d'accordo, non possono esprimere l'intera sostanza di quanto si dice, di quanto si progetta.
Vorrei continuare con Nicola Poccia, studente di Fisica, e con molti altri, a fare chiarezza, con interventi brevi ma puntuali, sul nostro presente, su quanto riteniamo giusto, senza volere imporlo a tutti gli altri, ma cercando, senza pregiudizi quegli "altri" con cui il dibattito sia condivisibile.
Gli ambiti in cui vorrei continuare il dibattito:
I. Etica, Religioni, Chiese
II. Etica, Lingue, Letterature
Un'opposizione accomodante di Nicola Poccia
Accomodante. Un amico democratico è accomodante.
“Prego si accomodi, parliamone…”
E’ un’opposizione accomodante. Una volta adagiati, lo spettacolo può cominciare.
Sento di aver bisogno d’autorità e di cose scomode.
Proviamo quindi a pensare. Studiando la scienza ho imparato a mie spese che riflettere è faticoso e spesso non conduce da nessuna parte. Anzi è un perverso trastullo delle animose proteine del cervello.
Con una filosofia che patteggia per un quieto divenire, per un’opposizione accomodante, ogni pensiero converge verso il risparmio e allora perché non chiedermi dell’ultima ragazza di un Mario del Grande Fratello o dell’ultima esternazione del vip di turno?
E’ triste vivere quando non c’è più nulla da conquistare, quando un uomo che ama la pace, sente un subdolo richiamo alla guerra. C’è solo un orizzonte piatto senza opposizioni o rugosità; è una cosa che ci accomuna alla melanconia di un cane abbandonato.
Credetemi, dopotutto, non era questa la pace che volevo.
Nicola Poccia.
“Prego si accomodi, parliamone…”
E’ un’opposizione accomodante. Una volta adagiati, lo spettacolo può cominciare.
Sento di aver bisogno d’autorità e di cose scomode.
Proviamo quindi a pensare. Studiando la scienza ho imparato a mie spese che riflettere è faticoso e spesso non conduce da nessuna parte. Anzi è un perverso trastullo delle animose proteine del cervello.
Con una filosofia che patteggia per un quieto divenire, per un’opposizione accomodante, ogni pensiero converge verso il risparmio e allora perché non chiedermi dell’ultima ragazza di un Mario del Grande Fratello o dell’ultima esternazione del vip di turno?
E’ triste vivere quando non c’è più nulla da conquistare, quando un uomo che ama la pace, sente un subdolo richiamo alla guerra. C’è solo un orizzonte piatto senza opposizioni o rugosità; è una cosa che ci accomuna alla melanconia di un cane abbandonato.
Credetemi, dopotutto, non era questa la pace che volevo.
Nicola Poccia.
lunedì 28 aprile 2008
Piera Mattei - InVerse
Dicevo appunto della versatilità di Brunella Antomarini e una prova ne è il suo svariare da un discorso filosofico sulle varie forme di conoscenza, alla scelta e presentazione di poeti – ma è una forma di conoscenza anche la loro.
Il Festival, così vorrei chiamarlo, da lei ideato e condotto con la partecipazione di vari insegnanti con l'impegno speciale di Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, ha luogo ogni anno, in primavera avanzata, nel cortile (già fiorito ma di notte spesso ancora gelido) della Cabot University, a Roma, nella prestigiosa sede di via della Lungara. E' arrivato quest'anno alla sua quarta edizione, propone poesia italiana in traduzione inglese, inVerse, appunto. Fui invitata alla prima edizione, nel 2005, e da allora non manco di essere presente tra il pubblico. Mi piace notare che, in veste di presentatrice, Brunella fa di tutto per usare l'atteggiamento disinvolto e la terminologia essenziale dei veri presentatori.
Questa volta tra i poeti invitati c'erano Iolanda Insana e Vito Riviello, questi assistito dalla sua poetica famiglia, la moglie Daniela Rampa e la figlia Lidia, già nella scelta dello scorso anno. Proprio durante la presentazione di Riviello, Brunella ha detto una frase che ha tutta la mia adesione, anche se sicuramente la traduco e la ricordo con una certa approssimazione:
"Certo ci vuole tempo perché si stabilisca quali sono i poeti che resteranno, ma credo di poter dire che tra i poeti presenti questa sera Vito Riviello e Iolanda Insana siano due di quelli".
Vorrei aggiungere che forse non sarà necessario, a chi era lì ad ascoltare, di attendere la scrematura del tempo, per rendersi conto che la statura di quei due poeti sulla scena era qualcosa di qualitativamente diverso, molto forte, che la loro personalità sopravanzava la media dei bravi poeti.
Il Festival, così vorrei chiamarlo, da lei ideato e condotto con la partecipazione di vari insegnanti con l'impegno speciale di Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, ha luogo ogni anno, in primavera avanzata, nel cortile (già fiorito ma di notte spesso ancora gelido) della Cabot University, a Roma, nella prestigiosa sede di via della Lungara. E' arrivato quest'anno alla sua quarta edizione, propone poesia italiana in traduzione inglese, inVerse, appunto. Fui invitata alla prima edizione, nel 2005, e da allora non manco di essere presente tra il pubblico. Mi piace notare che, in veste di presentatrice, Brunella fa di tutto per usare l'atteggiamento disinvolto e la terminologia essenziale dei veri presentatori.
Questa volta tra i poeti invitati c'erano Iolanda Insana e Vito Riviello, questi assistito dalla sua poetica famiglia, la moglie Daniela Rampa e la figlia Lidia, già nella scelta dello scorso anno. Proprio durante la presentazione di Riviello, Brunella ha detto una frase che ha tutta la mia adesione, anche se sicuramente la traduco e la ricordo con una certa approssimazione:
"Certo ci vuole tempo perché si stabilisca quali sono i poeti che resteranno, ma credo di poter dire che tra i poeti presenti questa sera Vito Riviello e Iolanda Insana siano due di quelli".
Vorrei aggiungere che forse non sarà necessario, a chi era lì ad ascoltare, di attendere la scrematura del tempo, per rendersi conto che la statura di quei due poeti sulla scena era qualcosa di qualitativamente diverso, molto forte, che la loro personalità sopravanzava la media dei bravi poeti.
Piera Mattei -Brunella Antomarini "L'errore del maestro"
A proposito di errori fecondi, nel 2006 Brunella Antomarini aveva pubblicato, per DeriveApprodi, "L'errore del maestro, per una lettura laica dei vangeli", dove quei testi sono visti come nati dall'esigenza dei seguaci di elaborare una sconfitta e un lutto. "Anziché abbandonare il movimento, cominciano a ricordare e costruire; arrivano a spiegare che il fallimento era previsto e quindi voluto; rielaborano la biografia del maestro in modo che appaia una predestinazione" (pag.11). Brunella Antomarini cita un'ampia biografia che dà fondamento alla sua teoria, tralasciando, a ragione forse perché il suo è discorso essenzialmente antropologico, di ricordare Sorel, che del fallimento dei cristiani fa il modello per l'azione politica di una minoranza sconfitta.
Ho ripreso in mano quel libro di Brunella in questi giorni, mi affascina l'intelligenza e la misura del discorso. Mi ridà speranza nelle forza umana del ragionamento, di quell'invisibile materia che elabora il pensiero, in questo periodo di fanatismi, di idolatria e esibizioni di corpi, vivi e anche in avanzata fase di disfacimento.
Ho ripreso in mano quel libro di Brunella in questi giorni, mi affascina l'intelligenza e la misura del discorso. Mi ridà speranza nelle forza umana del ragionamento, di quell'invisibile materia che elabora il pensiero, in questo periodo di fanatismi, di idolatria e esibizioni di corpi, vivi e anche in avanzata fase di disfacimento.
martedì 22 aprile 2008
Piera Mattei- Una proposta d'integralismo cattolico?
Ma davvero, come dice il papa lasciando gli stati uniti, tra religione e politica non può, non deve esserci separazione? Questa unità sostanziale non è quanto afferma l'integralismo islamico? Non si legge nel vangelo la seguente risposta al quesito sul tributo da pagare a cesare: "date a cesare quel che è di cesare"?
Ma da quali dubbi sono assalita!
Un papa teologo, devo supporre, ha tutta l'autorità e la cultura per proporre sostanziali reinterpretazioni e ripensamenti.
Ma da quali dubbi sono assalita!
Un papa teologo, devo supporre, ha tutta l'autorità e la cultura per proporre sostanziali reinterpretazioni e ripensamenti.
Piera Mattei- Feste di compleanno
Quando sento ribadire, succede spesso di questi tempi, che i papi, attraverso la catena dei "successori" di Cristo, sono i legittimi trasmettitori del suo messaggio in secula seculorum, mi viene in mente quel giochino divertentissimo, che facevamo da ragazzini, ma poi fino anche all'adolescenza, che si chiamava "il telefono senza fili". Ci si siede in circolo, e bisogna essere in molti (così, rispetto alla mia metafora, ogni orecchio può corrispondere a un secolo). Il primo sussurra una frase all'orecchio del vicino. Quello ripete quanto ha capito all'orecchio dell'altro suo vicino e così fino all'ultimo. La cosa divertente è che quanto arriva all'ultimo orecchio è mutato totalmente da quanto detto all'inizio.
Ho ripensato a quel gioco vedendo sui giornali la foto di Ratzinger che nel giorno del suo ottantunesimo compleanno, sorride a una torta enorme, quasi nuziale, ospite dell'uomo più potente del mondo – nello sfondo il volto commosso del bellissimo e fedele segretario. Mi sono detta: bene, come mostrarsi, di fronte all'universo mondo, più fedeli agli imperativi evangelici? Ma a qualcuno importa ancora questa coerenza?
Scrivevo a un amico che contesta le mie posizioni, che essere laica non significa ignorare i vangeli. Anzi, visto che sono tra testi alla base della nostra storia negli ultimi due millenni, occorre conoscerli profondamente e interpretarli con libertà.
Non dicono i vangeli, con misteriosa metafora, che è più facile a un cammello entrare in una cruna, che a un ricco nel regno dei cieli?
Mi chiedo quanto diverso sarebbe un mondo dove tutti quelli che si proclamano cristiani fossero veramente convinti e lo dimostrassero nei fatti del messaggio evangelico.
E intanto sento il mio amico soffiarmi nell'orecchio che un evento del genere coinciderebbe con una finale catastrofe, anche se santa. Forse ha ragione, ma siamo sicuri che gli uomini che reggono il mondo, convinti di essere nel giusto, se non di rappresentare cristo in terra, sappiamo davvero dove stiamo andando?
Ho ripensato a quel gioco vedendo sui giornali la foto di Ratzinger che nel giorno del suo ottantunesimo compleanno, sorride a una torta enorme, quasi nuziale, ospite dell'uomo più potente del mondo – nello sfondo il volto commosso del bellissimo e fedele segretario. Mi sono detta: bene, come mostrarsi, di fronte all'universo mondo, più fedeli agli imperativi evangelici? Ma a qualcuno importa ancora questa coerenza?
Scrivevo a un amico che contesta le mie posizioni, che essere laica non significa ignorare i vangeli. Anzi, visto che sono tra testi alla base della nostra storia negli ultimi due millenni, occorre conoscerli profondamente e interpretarli con libertà.
Non dicono i vangeli, con misteriosa metafora, che è più facile a un cammello entrare in una cruna, che a un ricco nel regno dei cieli?
Mi chiedo quanto diverso sarebbe un mondo dove tutti quelli che si proclamano cristiani fossero veramente convinti e lo dimostrassero nei fatti del messaggio evangelico.
E intanto sento il mio amico soffiarmi nell'orecchio che un evento del genere coinciderebbe con una finale catastrofe, anche se santa. Forse ha ragione, ma siamo sicuri che gli uomini che reggono il mondo, convinti di essere nel giusto, se non di rappresentare cristo in terra, sappiamo davvero dove stiamo andando?
Piera Mattei-pensiero ed errore
Venerdì 14 marzo, nei locali della Fondazione Basso è stato presentato il libro di Brunella Antomarini "Pensare con l'errore", Codice edizioni, Torino 2007
Accanto all'autrice, Giacomo Marramao nella funzione di moderatore, Domenico Parisi, Franco Voltaggio, Beppe Sebaste.
"Pensare con l'errore" è un libro agile che mostra la straordinaria versatilità di Brunella, la sua forza intellettuale, infine il suo ottimismo.
A ripensarla, quale l'osservavo dalla platea, con i capelli sciolti sulle spalle e la sua maglia a righe colorate, in posizione eccentrica rispetto allo schieramento di dotti signori ma protagonista della serata, mi pare proprio di dover dare ragione a Domenico Parisi. Lui ha affermato, quasi con una battuta in chiusura, che il discorso più importante si apriva sulla sfida che le donne possono lanciare a questo mondo da millenni gestito dagli uomini, perchè infine si aprano soluzioni alternative a uno sviluppo che sembra obbligato, direi coattivo.
Un libro quello di Brunella Antomarini che non svolge un pensiero metodico, ma proprio come indica l'affermazione centrale, procede lentamente verso l'obbiettivo e trova il gesto, la parola "nuova" a cui apporre la propria firma.
In tal modo il pensiero si apparenta strettamente con l'opera d'arte da un lato, con la ricerca scientifica dall'altro. Occorre restare a lungo in compagnia delle proprie conoscenze, della propria tecnica per vedere scoccare quella freccia che raggiunge il bersaglio, vero nel suo contesto e per il consenso che l'agente fortemente gli attribuisce. Non verità assoluta, né bellezza assoluta, ma un atto che riassume un'identità e allo stesso tempo la palesa agli altri. Concetto che richiama la teoria orientale, non solo zen, dell'arte, per cui una linea, tracciata con precisione e senza più ritocchi col giusto pennello sul giusto supporto, è opera d'arte.
Grazie a Brunella per aver sottolineato nel suo libro, con abbondanza di argomentazioni, che senza errore non si fa conoscenza, non si fa filosofia, non si fa arte né scienza. Su questo pienamente consentiamo: si tratta di messe a punto, giudizi agenti, o azioni che danno forma a un giudizio, in cui il pensiero, per poco almeno, si appaga, riaprendo poi al gioco, del suo proprio ricercare e di quello di altri. Filosofia, arte e scienza non hanno e non possono avere ad oggetto la verità assoluta, nè assoluti canoni del vero.
Accanto all'autrice, Giacomo Marramao nella funzione di moderatore, Domenico Parisi, Franco Voltaggio, Beppe Sebaste.
"Pensare con l'errore" è un libro agile che mostra la straordinaria versatilità di Brunella, la sua forza intellettuale, infine il suo ottimismo.
A ripensarla, quale l'osservavo dalla platea, con i capelli sciolti sulle spalle e la sua maglia a righe colorate, in posizione eccentrica rispetto allo schieramento di dotti signori ma protagonista della serata, mi pare proprio di dover dare ragione a Domenico Parisi. Lui ha affermato, quasi con una battuta in chiusura, che il discorso più importante si apriva sulla sfida che le donne possono lanciare a questo mondo da millenni gestito dagli uomini, perchè infine si aprano soluzioni alternative a uno sviluppo che sembra obbligato, direi coattivo.
Un libro quello di Brunella Antomarini che non svolge un pensiero metodico, ma proprio come indica l'affermazione centrale, procede lentamente verso l'obbiettivo e trova il gesto, la parola "nuova" a cui apporre la propria firma.
In tal modo il pensiero si apparenta strettamente con l'opera d'arte da un lato, con la ricerca scientifica dall'altro. Occorre restare a lungo in compagnia delle proprie conoscenze, della propria tecnica per vedere scoccare quella freccia che raggiunge il bersaglio, vero nel suo contesto e per il consenso che l'agente fortemente gli attribuisce. Non verità assoluta, né bellezza assoluta, ma un atto che riassume un'identità e allo stesso tempo la palesa agli altri. Concetto che richiama la teoria orientale, non solo zen, dell'arte, per cui una linea, tracciata con precisione e senza più ritocchi col giusto pennello sul giusto supporto, è opera d'arte.
Grazie a Brunella per aver sottolineato nel suo libro, con abbondanza di argomentazioni, che senza errore non si fa conoscenza, non si fa filosofia, non si fa arte né scienza. Su questo pienamente consentiamo: si tratta di messe a punto, giudizi agenti, o azioni che danno forma a un giudizio, in cui il pensiero, per poco almeno, si appaga, riaprendo poi al gioco, del suo proprio ricercare e di quello di altri. Filosofia, arte e scienza non hanno e non possono avere ad oggetto la verità assoluta, nè assoluti canoni del vero.
Piera Mattei- Io dico, seguitando
Lucreziana 2008 è stata costretta a interrompersi a causa di un terribile temporale, che, con un fulmine ben assestato, ha distrutto la scheda madre del mio Mac. Prima che trovassi la possibilità di sistemare il computer sono passate alcune settimane e altri temporali hanno prodotto spostamenti e sinistri in vari settori, ben oltre il mio "particulare" disastro (che comprendeva anche la rottura del motore di accensione della caldaia di casa e di altri utensili).
Quindi si ricomincia: Io dico, seguitando.
Alcuni critici affermano che questo inizio dell'ottavo canto dell'Inferno si riferisca alla ripresa della scrittura del poema dopo l'interruzione dovuta alle note vicende politiche di Dante, e dopo la sua condanna in contumacia. Bandito dalla sua città.
Io dico, seguitando.... superando la violenza di uno tsunami politico che ci ha travolto – noi che siamo refrattari al fascino del potere di "uno", e che vorremmo kantianamente che la massima delle nostre azioni (in etica e in politica) valesse da legge universale, non locale – con la calma consentita dalle circostanze, riprendiamo da lì dove un fulmine aveva decretato l'interruzione del discorso.
Quindi si ricomincia: Io dico, seguitando.
Alcuni critici affermano che questo inizio dell'ottavo canto dell'Inferno si riferisca alla ripresa della scrittura del poema dopo l'interruzione dovuta alle note vicende politiche di Dante, e dopo la sua condanna in contumacia. Bandito dalla sua città.
Io dico, seguitando.... superando la violenza di uno tsunami politico che ci ha travolto – noi che siamo refrattari al fascino del potere di "uno", e che vorremmo kantianamente che la massima delle nostre azioni (in etica e in politica) valesse da legge universale, non locale – con la calma consentita dalle circostanze, riprendiamo da lì dove un fulmine aveva decretato l'interruzione del discorso.
giovedì 13 marzo 2008
Piera Mattei- IL TEMPO A VENIRE 10 Marzo, La Sapienza, Sala Odeion
E' il titolo di una giornata di studio "Sulla libertà di pensiero, di ricerca e di espressione. Contro ogni discriminazione"
durante la quale tra i molti interventi, tutti interessanti, ho riconosciuto come protagonisti due poeti: Biancamaria Frabotta, docente di Letteratura Italiana Contemporanea presso quell'Ateneo e organizzatrice del convegno, e Franco Buffoni, anche lui, oltre che poeta, docente universitario e traduttore.
Vorrà dire qualcosa se i poeti, senza negare la loro identità fondamentale, dedicano tempo, energia, passione non solo a temi attinenti alla scrittura, ma ad argomenti fondanti, all'etica, alla politica, alla definizione e ridefinizione, oggi, dell'idea di libertà?
A Biancamaria va anzitutto il merito di aver contenuto i toni sul piano dello scambio intellettuale, di avere invitato relatori di varie tendenze e da vari contesti cultural-religiosi: cattolici (Lettieri), ebrei (Foa), musulmani (Zouhir Louassini).
Quest'ultimo, con il suo italiano perfetto sullo sfondo di un plurilinguismo che rimanda all'esperienza di realtà diverse, è rimprovero oggettivo al provincialismo di tanta nostra cultura accademica. Tra l'altro è stato l'unico a definirsi ateo, infrangendo così il luogo comune che considera cultura islamica come sinonimo di fanatismo religioso.
Ho ammirato anche lo stile, la pacata autorevolezza di Clotilde Pontecorvo che ci ha illustrato il suo "Percorso laico di formazione alla libertà di pensiero". Un cammino paziente che va iniziato subito, educando il bambino, non con le due ore settimanali di religione che il Concordato craxiano del 1984 impone ai bambini, a cominciare dai tre anni di età, ma esponendo i piccoli alla realtà del pluralismo, ineludibile oggi, a meno di non tornare alle società chiuse dei dogmatismi, dei totalitarismi.
Tuttavia proprio Franco Buffoni è riuscito a trovare quell'equilibrio tra parlare chiaro su temi scottanti e un'esposizione razionalmente ineccepibile, che vorremmo ritrovare più spesso anche nel mondo della politica.
I politici mediano troppo. Forse il loro mestiere lo richiede, ma dove comincia l'etichetta degli incontri a impoverire la forza di ogni convinzione?
Buffoni ha esordito citando con pacata indignazione l'opposizione (per motivi di "moralità sessuale") della rivista "Medicina e Morale"alla vaccinazione obbligatoria delle giovanissime che impedirebbe l'insorgere del cancro del collo dell'utero, di cui muoiono mille donne ogni anno, in Italia. Ha continuato citando altre ingerenze della Chiesa nel mondo dell'istruzione e richiamando idee di libertà che dovrebbero essere consolidate in ogni democrazia, apparse già nel 1859, nel saggio "Sulla libertà" di Stuart Mill.
Piera Mattei
durante la quale tra i molti interventi, tutti interessanti, ho riconosciuto come protagonisti due poeti: Biancamaria Frabotta, docente di Letteratura Italiana Contemporanea presso quell'Ateneo e organizzatrice del convegno, e Franco Buffoni, anche lui, oltre che poeta, docente universitario e traduttore.
Vorrà dire qualcosa se i poeti, senza negare la loro identità fondamentale, dedicano tempo, energia, passione non solo a temi attinenti alla scrittura, ma ad argomenti fondanti, all'etica, alla politica, alla definizione e ridefinizione, oggi, dell'idea di libertà?
A Biancamaria va anzitutto il merito di aver contenuto i toni sul piano dello scambio intellettuale, di avere invitato relatori di varie tendenze e da vari contesti cultural-religiosi: cattolici (Lettieri), ebrei (Foa), musulmani (Zouhir Louassini).
Quest'ultimo, con il suo italiano perfetto sullo sfondo di un plurilinguismo che rimanda all'esperienza di realtà diverse, è rimprovero oggettivo al provincialismo di tanta nostra cultura accademica. Tra l'altro è stato l'unico a definirsi ateo, infrangendo così il luogo comune che considera cultura islamica come sinonimo di fanatismo religioso.
Ho ammirato anche lo stile, la pacata autorevolezza di Clotilde Pontecorvo che ci ha illustrato il suo "Percorso laico di formazione alla libertà di pensiero". Un cammino paziente che va iniziato subito, educando il bambino, non con le due ore settimanali di religione che il Concordato craxiano del 1984 impone ai bambini, a cominciare dai tre anni di età, ma esponendo i piccoli alla realtà del pluralismo, ineludibile oggi, a meno di non tornare alle società chiuse dei dogmatismi, dei totalitarismi.
Tuttavia proprio Franco Buffoni è riuscito a trovare quell'equilibrio tra parlare chiaro su temi scottanti e un'esposizione razionalmente ineccepibile, che vorremmo ritrovare più spesso anche nel mondo della politica.
I politici mediano troppo. Forse il loro mestiere lo richiede, ma dove comincia l'etichetta degli incontri a impoverire la forza di ogni convinzione?
Buffoni ha esordito citando con pacata indignazione l'opposizione (per motivi di "moralità sessuale") della rivista "Medicina e Morale"alla vaccinazione obbligatoria delle giovanissime che impedirebbe l'insorgere del cancro del collo dell'utero, di cui muoiono mille donne ogni anno, in Italia. Ha continuato citando altre ingerenze della Chiesa nel mondo dell'istruzione e richiamando idee di libertà che dovrebbero essere consolidate in ogni democrazia, apparse già nel 1859, nel saggio "Sulla libertà" di Stuart Mill.
Piera Mattei
martedì 4 marzo 2008
Piera Mattei INTELLIGENZA e FEMMINILTA'
Sintesi dell'intervento a una tavola rotonda sul tema: ancora contro le donne, perché? Dicembre 2007
A questo interrogativo potremmo dare due tipi di risposte: la prima, per così dire, scientifica, la seconda, etico-storica e, in definitiva, politica.
La prima risposta è che nell'uomo al di sotto del cervello più propriamente umano, si situa, e srotola le sue spire, quel cervello rettile che conosce l'uso della forza per aggredire, una forma d'intelligenza beluina che permette di profittare di chi si presenta fisicamente più debole. I motivi per cui questa violenza si scatena sono molteplici, ma di certo, in una psicologia della forza e del possesso, percepire l'Altro come non appropriabile, non domabile, è uno dei sentimenti che scatena l'aggressione, anche collettiva, anche istituzionalizzata.
La seconda risposta la enuncio con le parole di Dostoevskij: "la civiltà ha reso l'uomo più sanguinario di quanto non lo fosse un tempo".
Qui certo il riferimento primo è alla guerra.
Si dirà cosa c'entra la guerra con la violenza sulle donne? Invece mi sembra evidente un forte legame, da quando lo scontro non è più tra forze ritenute equiparabili, ma si combattono guerre del tutto asimmetriche. Perché la natura finisce dove comincia la cultura e la guerra è un prodotto della nostra cultura e il modo di fare la guerra cambia nella storia. L'orrore, la violenza, la volontà del più forte, non che non fossero esistiti anche prima, ma sono diventati, per così dire, "culturali", sono diventati anche spettacolo, film o ripresa dal vero spesso irriconoscibili.
Sotto questo profilo la violenza che si consuma sulle donne è una variante della violenza che si consuma sull'inerme.
Siamo quindi tornati alle donne, e a quell'avverbio, "ancora". Certo la violenza la subiamo perché, almeno mediamente, "ancora" il corpo delle donne è più debole di quello dell'uomo ed è più debole anche dal punto di vista emotivo, perché, culturalmente, da millenni le donne hanno amato ma anche subito gli uomini.
Si tratta "ancora" di uno scontro fisico primordiale, ma anche culturale. Ogni volta, giustamente, c'indigniamo, ci sentiamo minacciate, ma non da ora, proprio le basi stesse della vita culturale sociale e religiosa si sono rese responsabili della violenza sulle donne. E la religione in particolare, non come sentimento e tentativo di elaborazione del mistero, ma come organizzazione culturale, per lo più maschile, è posta in causa.
Avevamo detto che i motivi che scatenano la violenza sono infiniti. Qui vorrei ricordare due casi particolari, storici, due figure emblematiche, due emblemi della forza umana e intellettuale.
Molte sono le somiglianze tra le due figure che ho scelto: Ipazia e Giovanna D'arco.
La storia di queste donne accusa come protagonisti della violenza proprio il sistema sociale, culturale e religioso nel quale – soprattutto in molte religioni e, occorre ricordarlo?, in tutte le religioni monoteiste – le donne sono in posizione subalterna, sospettate di essere inferiori e in facile combutta col maligno. Tuttavia, e questo ci interessa particolarmente, perché è controproducente sentirsi vittime, esalta in positivo un modello di femminilità che pone come valori fondamentali l'intelligenza e la sua libera espressione.
Non a caso delle due donne esemplari di cui parliamo si sottolinea la verginità, non come merito morale, ma come presupposto della dedizione a un progetto diverso dalla procreazione. Vorrei insinuare che, se anche queste donne, contro il dato storico, fossero diventate madri, lo sarebbero state senza esaurire il loro progetto umano nella funzione di riproduzione e di allevamento dei figli.
Due figure emblematiche della storia, per le quali l'accusa che le condusse a morte violenta e "orribile", fu più o meno esplicitamente, quella di aver valicato i limiti dentro i quali la cultura patriarcale allora rinchiudeva (ma oggi, anche se diversamente, ancora rinchiude) le donne.
Circa mille anni le separano.
IPAZIA E GIOVANNA LA PULZELLA
Ipazia, è figlia di un matematico che aggiunge a un suo libro note filosofiche a firma di Ipazia, "mia figlia". Ipazia è molto bella e estranea al richiamo sessuale, cioè vergine, ma vive in mezzo agli uomini. Ama uscire e discutere con tutti di filosofia per le strade, avvolta nel mantello dei filosofi.
E' importante questo dettaglio dell'abito, perché spesso la cultura ha visto con grave sospetto e accusato le donne di vestire abiti maschili, ma qui, come del resto nel caso di Giovanna la Pulzella, si tratta di abiti che corrispondono a un'attività che richiede particolare forza, intellettuale, nel caso di Ipazia, d'intelligenza e coraggio nel caso di Giovanna. Con Ipazia si era nel periodo in cui il cristianesimo s'andava imponendo come religione obbligatoria, coercitiva a tutti i cittadini dell'impero (editto di Teodosio), e questa donna libera, che continuava e approfondiva la tradizione della cultura filosofica e scientifica di Alessandria, fu presa di mira dal vescovo di quella città che gli scatenò contro una setta di fanatici. Fu trascinata da una folla di uomini in chiesa, e lì, da credenti cristiani spogliata e uccisa a colpi di tegole. L'uomo che volle, o almeno non si oppose, a quella fine ingiuriosa era e rimase il capo della religione cristiana in quella città, senza subire alcuna conseguenza dell'orrore scatenato, perché anzi fu proclamato santo e la chiesa lo onora col nome di San Cirillo d'Alessandria.
Dopo l'uccisione di Ipazia, Alessandria venne disertata dagli uomini e dalle donne di cultura. La storia d'Ipazia fu rimossa a lungo e nonostante fonti varie, anche cristiane, narrino la sua crudele storia, anche come giusta punizione, nell'Ottocento si finì addirittura per raccontare la sua fine come quella di una vergine cristiana.
Del fenomeno Giovanna d'Arco si sono date molte interpretazioni. Quella tradizionale fa di lei una pastora in tutto ispirata da voci celesti.
[...]
E tuttavia chiunque fosse Giovanna, figlia di pastori o di regina, sottoposta a interrogatorio per eresia, seppe con la sua sapienza teologica tenere testa al tribunale, ma infine dall'accusa di vestire abiti maschili non riuscì a difendersi.
In entrambi i casi, Ipazia e Giovanna, avevano valicato i limiti che la cultura (maschile) imponeva e furono, fondamentamente per questa colpa, giustiziate da uomini che si ponevano, da loro stessi, dalla parte della giustizia e della "santità".
Le loro storie sono vere, ma sono anche "miti" che aiutano a comprendere dinamiche che ancora oggi attendono di essere sciolte, modificate, nella prospettiva di un'etica più compiutamente umana.
( Piera Mattei )
A questo interrogativo potremmo dare due tipi di risposte: la prima, per così dire, scientifica, la seconda, etico-storica e, in definitiva, politica.
La prima risposta è che nell'uomo al di sotto del cervello più propriamente umano, si situa, e srotola le sue spire, quel cervello rettile che conosce l'uso della forza per aggredire, una forma d'intelligenza beluina che permette di profittare di chi si presenta fisicamente più debole. I motivi per cui questa violenza si scatena sono molteplici, ma di certo, in una psicologia della forza e del possesso, percepire l'Altro come non appropriabile, non domabile, è uno dei sentimenti che scatena l'aggressione, anche collettiva, anche istituzionalizzata.
La seconda risposta la enuncio con le parole di Dostoevskij: "la civiltà ha reso l'uomo più sanguinario di quanto non lo fosse un tempo".
Qui certo il riferimento primo è alla guerra.
Si dirà cosa c'entra la guerra con la violenza sulle donne? Invece mi sembra evidente un forte legame, da quando lo scontro non è più tra forze ritenute equiparabili, ma si combattono guerre del tutto asimmetriche. Perché la natura finisce dove comincia la cultura e la guerra è un prodotto della nostra cultura e il modo di fare la guerra cambia nella storia. L'orrore, la violenza, la volontà del più forte, non che non fossero esistiti anche prima, ma sono diventati, per così dire, "culturali", sono diventati anche spettacolo, film o ripresa dal vero spesso irriconoscibili.
Sotto questo profilo la violenza che si consuma sulle donne è una variante della violenza che si consuma sull'inerme.
Siamo quindi tornati alle donne, e a quell'avverbio, "ancora". Certo la violenza la subiamo perché, almeno mediamente, "ancora" il corpo delle donne è più debole di quello dell'uomo ed è più debole anche dal punto di vista emotivo, perché, culturalmente, da millenni le donne hanno amato ma anche subito gli uomini.
Si tratta "ancora" di uno scontro fisico primordiale, ma anche culturale. Ogni volta, giustamente, c'indigniamo, ci sentiamo minacciate, ma non da ora, proprio le basi stesse della vita culturale sociale e religiosa si sono rese responsabili della violenza sulle donne. E la religione in particolare, non come sentimento e tentativo di elaborazione del mistero, ma come organizzazione culturale, per lo più maschile, è posta in causa.
Avevamo detto che i motivi che scatenano la violenza sono infiniti. Qui vorrei ricordare due casi particolari, storici, due figure emblematiche, due emblemi della forza umana e intellettuale.
Molte sono le somiglianze tra le due figure che ho scelto: Ipazia e Giovanna D'arco.
La storia di queste donne accusa come protagonisti della violenza proprio il sistema sociale, culturale e religioso nel quale – soprattutto in molte religioni e, occorre ricordarlo?, in tutte le religioni monoteiste – le donne sono in posizione subalterna, sospettate di essere inferiori e in facile combutta col maligno. Tuttavia, e questo ci interessa particolarmente, perché è controproducente sentirsi vittime, esalta in positivo un modello di femminilità che pone come valori fondamentali l'intelligenza e la sua libera espressione.
Non a caso delle due donne esemplari di cui parliamo si sottolinea la verginità, non come merito morale, ma come presupposto della dedizione a un progetto diverso dalla procreazione. Vorrei insinuare che, se anche queste donne, contro il dato storico, fossero diventate madri, lo sarebbero state senza esaurire il loro progetto umano nella funzione di riproduzione e di allevamento dei figli.
Due figure emblematiche della storia, per le quali l'accusa che le condusse a morte violenta e "orribile", fu più o meno esplicitamente, quella di aver valicato i limiti dentro i quali la cultura patriarcale allora rinchiudeva (ma oggi, anche se diversamente, ancora rinchiude) le donne.
Circa mille anni le separano.
IPAZIA E GIOVANNA LA PULZELLA
Ipazia, è figlia di un matematico che aggiunge a un suo libro note filosofiche a firma di Ipazia, "mia figlia". Ipazia è molto bella e estranea al richiamo sessuale, cioè vergine, ma vive in mezzo agli uomini. Ama uscire e discutere con tutti di filosofia per le strade, avvolta nel mantello dei filosofi.
E' importante questo dettaglio dell'abito, perché spesso la cultura ha visto con grave sospetto e accusato le donne di vestire abiti maschili, ma qui, come del resto nel caso di Giovanna la Pulzella, si tratta di abiti che corrispondono a un'attività che richiede particolare forza, intellettuale, nel caso di Ipazia, d'intelligenza e coraggio nel caso di Giovanna. Con Ipazia si era nel periodo in cui il cristianesimo s'andava imponendo come religione obbligatoria, coercitiva a tutti i cittadini dell'impero (editto di Teodosio), e questa donna libera, che continuava e approfondiva la tradizione della cultura filosofica e scientifica di Alessandria, fu presa di mira dal vescovo di quella città che gli scatenò contro una setta di fanatici. Fu trascinata da una folla di uomini in chiesa, e lì, da credenti cristiani spogliata e uccisa a colpi di tegole. L'uomo che volle, o almeno non si oppose, a quella fine ingiuriosa era e rimase il capo della religione cristiana in quella città, senza subire alcuna conseguenza dell'orrore scatenato, perché anzi fu proclamato santo e la chiesa lo onora col nome di San Cirillo d'Alessandria.
Dopo l'uccisione di Ipazia, Alessandria venne disertata dagli uomini e dalle donne di cultura. La storia d'Ipazia fu rimossa a lungo e nonostante fonti varie, anche cristiane, narrino la sua crudele storia, anche come giusta punizione, nell'Ottocento si finì addirittura per raccontare la sua fine come quella di una vergine cristiana.
Del fenomeno Giovanna d'Arco si sono date molte interpretazioni. Quella tradizionale fa di lei una pastora in tutto ispirata da voci celesti.
[...]
E tuttavia chiunque fosse Giovanna, figlia di pastori o di regina, sottoposta a interrogatorio per eresia, seppe con la sua sapienza teologica tenere testa al tribunale, ma infine dall'accusa di vestire abiti maschili non riuscì a difendersi.
In entrambi i casi, Ipazia e Giovanna, avevano valicato i limiti che la cultura (maschile) imponeva e furono, fondamentamente per questa colpa, giustiziate da uomini che si ponevano, da loro stessi, dalla parte della giustizia e della "santità".
Le loro storie sono vere, ma sono anche "miti" che aiutano a comprendere dinamiche che ancora oggi attendono di essere sciolte, modificate, nella prospettiva di un'etica più compiutamente umana.
( Piera Mattei )
Piera Mattei-Don Mazzi e una teologia ecofemminista per la guarigione della terra
Non molto tempo fa mi sono trovata, come talvolta i personaggi dei miei racconti, in una situazione penosa, di cui non voglio tacere. Su quella pena, per riscattarla, voglio fare perno, punto di forza, fulcro di un'ulteriore riflessione.
Fatti dunque, ma narrati, come nei racconti, senza nomi propri, e la situazione riportata per dati essenziali.
Ero stata invitata a partecipare a una tavola rotonda sul tema "Ancora una volta contro le donne: perché?". Era recente l'uccisione di Giovanna Reggiani e i giornali riportavano in quei giorni la notizia che il rapporto Eures-Ansa sull'andamento degli omicidi volontari registrava un aumento dei cosiddetti "femminicidi" (perché non "donnicidi"?):181 nel 2006, uno ogni due giorni. Pertanto questo era l'interrogativo: cosa scatena l'aggressività maschile contro le donne?
Avevo accettato con la riserva che non di cronaca avrei parlato ma di figure emblematiche, anche se storiche.
Durante lo svolgimento della tavola rotonda (il mio intervento è l'ultimo) mi rendo conto che tutti, dico tutti, hanno schivato il tema. Chi ha parlato delle pari opportunità chi di un suo libro scritto da un paladino dei diritti delle donne, infine uno psicanalista, a conclusione di un discorso vago sulla sua professione termina col dire sornione che altro che invidia del pene, sono gli uomini a provare talvolta l'invidia dell'utero!
Il mio discorso, preparato nei dettagli, sembra in quel contesto del tutto fuori tono: si basa infatti sull'osservazione che "uno"dei motivi che scatena l'aggressività maschile è la volontà delle donne di uscire dal ruolo della riproduzione, vestire anche fuori di metafora abiti maschili, essere alla ricerca della propria umanità, privilegiando l'intelligenza.
Da parte dell'unico rappresentante del sesso maschile alla tavola rotonda la reazione alle mie parole è sgradevolissima, aggressiva, connotata dall'ironia sferzante che certi uomini credono di dover usare di fronte a argomentazioni che, a torto o a ragione, riconoscono come "femministe", dimostrazione immediata per me, sulla mia pelle, dell'assunto del mio discorso.
Ora un articolo scritto da don Enzo Mazzi (manifesto, 16-1-2008) alla vigilia dell'inaugurazione dell'anno accademico alla Sapienza di Roma, e pubblicato sul numero speciale di Micromega uscito in questi giorni, mi riconcilia con quel mio discorso, col femminismo (se così vogliamo chiamarlo) ineludibile di ogni volontà di mutamento. Scrive don Mazzi: "la ridefinizione della relazione uomo-donna come reciprocità, al posto della storica dipendenza gerarchica, fa tutt'uno con la ridefinizione dei rapporti fra classi-popoli-culture dominanti e dominati e con la pacificazione fra umanità e natura, tanto che ormai si parla di "ecofemminismo".
Quel mio discorso riferiva casi di persecuzioni esemplari che le donne hanno subito a causa della loro intelligenza o della loro intraprendenza, e del ruolo fondamentale che una società " per assunto maschile " come la Chiesa ha avuto in questi fatti.
Riporto quindi, di seguito, brani di quel mio discorso.
Fatti dunque, ma narrati, come nei racconti, senza nomi propri, e la situazione riportata per dati essenziali.
Ero stata invitata a partecipare a una tavola rotonda sul tema "Ancora una volta contro le donne: perché?". Era recente l'uccisione di Giovanna Reggiani e i giornali riportavano in quei giorni la notizia che il rapporto Eures-Ansa sull'andamento degli omicidi volontari registrava un aumento dei cosiddetti "femminicidi" (perché non "donnicidi"?):181 nel 2006, uno ogni due giorni. Pertanto questo era l'interrogativo: cosa scatena l'aggressività maschile contro le donne?
Avevo accettato con la riserva che non di cronaca avrei parlato ma di figure emblematiche, anche se storiche.
Durante lo svolgimento della tavola rotonda (il mio intervento è l'ultimo) mi rendo conto che tutti, dico tutti, hanno schivato il tema. Chi ha parlato delle pari opportunità chi di un suo libro scritto da un paladino dei diritti delle donne, infine uno psicanalista, a conclusione di un discorso vago sulla sua professione termina col dire sornione che altro che invidia del pene, sono gli uomini a provare talvolta l'invidia dell'utero!
Il mio discorso, preparato nei dettagli, sembra in quel contesto del tutto fuori tono: si basa infatti sull'osservazione che "uno"dei motivi che scatena l'aggressività maschile è la volontà delle donne di uscire dal ruolo della riproduzione, vestire anche fuori di metafora abiti maschili, essere alla ricerca della propria umanità, privilegiando l'intelligenza.
Da parte dell'unico rappresentante del sesso maschile alla tavola rotonda la reazione alle mie parole è sgradevolissima, aggressiva, connotata dall'ironia sferzante che certi uomini credono di dover usare di fronte a argomentazioni che, a torto o a ragione, riconoscono come "femministe", dimostrazione immediata per me, sulla mia pelle, dell'assunto del mio discorso.
Ora un articolo scritto da don Enzo Mazzi (manifesto, 16-1-2008) alla vigilia dell'inaugurazione dell'anno accademico alla Sapienza di Roma, e pubblicato sul numero speciale di Micromega uscito in questi giorni, mi riconcilia con quel mio discorso, col femminismo (se così vogliamo chiamarlo) ineludibile di ogni volontà di mutamento. Scrive don Mazzi: "la ridefinizione della relazione uomo-donna come reciprocità, al posto della storica dipendenza gerarchica, fa tutt'uno con la ridefinizione dei rapporti fra classi-popoli-culture dominanti e dominati e con la pacificazione fra umanità e natura, tanto che ormai si parla di "ecofemminismo".
Quel mio discorso riferiva casi di persecuzioni esemplari che le donne hanno subito a causa della loro intelligenza o della loro intraprendenza, e del ruolo fondamentale che una società " per assunto maschile " come la Chiesa ha avuto in questi fatti.
Riporto quindi, di seguito, brani di quel mio discorso.
venerdì 29 febbraio 2008
Piera Mattei-RICERCA E ESPRESSIONE, CONTRO OGNI DISCRIMINAZIONE
Riceviamo da Biancamaria Frabotta, ordinaria di letteratura italiana contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, il programma di un convegno da lei organizzato, presso al facoltà di Lettere di quella Università "sulla libertà di pensiero, di ricerca, di espressione e contro ogni discriminazione".
Iniziative del genere sono importantissime, perché quanto è avvenuto alla Sapienza all'inaugurazione dell' anno accademico, ha scoperto un garbuglio di incomprensioni e fraintendimenti non solo tra "laici" e "non-laici", ma anche tra cultura scientifica e cultura a cui facciamo riferimento come "umanistica". Un dialogo sulle basi stesse della ricerca, comunque "umana" (atteggiamento e attività che contraddistingue la nostra specie, la dignità e l'indagine sul senso del mondo e del nostro essere nel mondo) sembra irrinunciabile, e necessariamente fondante.
Lucreziana si propone di ospitare oltre all'annuncio di questo convegno, anche un resoconto dello stesso e di offrire la possibilità di continuare tenere aperta la volontà di dibattito.
Iniziative del genere sono importantissime, perché quanto è avvenuto alla Sapienza all'inaugurazione dell' anno accademico, ha scoperto un garbuglio di incomprensioni e fraintendimenti non solo tra "laici" e "non-laici", ma anche tra cultura scientifica e cultura a cui facciamo riferimento come "umanistica". Un dialogo sulle basi stesse della ricerca, comunque "umana" (atteggiamento e attività che contraddistingue la nostra specie, la dignità e l'indagine sul senso del mondo e del nostro essere nel mondo) sembra irrinunciabile, e necessariamente fondante.
Lucreziana si propone di ospitare oltre all'annuncio di questo convegno, anche un resoconto dello stesso e di offrire la possibilità di continuare tenere aperta la volontà di dibattito.
IL TEMPO A VENIRE giornata di studio Sulla Libertà di Pensiero, di Ricerca e di Espressione. Contro ogni discriminazione.
LUNEDÌ 10 MARZO 2008
Aula Odeion – Museo dell’Arte Classica
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università di Roma La Sapienza
"Nessuno se ne avvede, ma l’architettura del nostro tempo diviene l’architettura del tempo a venire" (Mark Strand)
Ore 9:30
Saluti del Preside Guido Pescosolido
Introduce: Bianca Maria Frabotta
Interventi di:
Marina Caffiero
Prof. di Storia moderna - Roma
Gaetano Lettieri
Prof. di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Roma
Anna Foa
Prof. di Storia moderna - Roma
Franco Buffoni
Prof. di Critica letteraria e Letteratura Comparata – Cassino
Discussione
Coordina: Renzo Bragantini Prof. di Letteratura italiana - Roma
Ore 14:30
Interventi di:
Francesco Saverio Trincia
Prof. di Filosofia Morale – Roma
Zouhir Louassini
Giornalista RAI
Clotilde Pontecorvo
Prof. di Psicologia dell’Educazione – Roma
Bianca Maria Frabotta
Prof. di Letteratura italiana contemporanea - Roma.
Discussione
Coordina: Giulio Ferroni,
Prof. di Letteratura italiana - Roma
Aula Odeion – Museo dell’Arte Classica
Facoltà di Lettere e Filosofia
Università di Roma La Sapienza
"Nessuno se ne avvede, ma l’architettura del nostro tempo diviene l’architettura del tempo a venire" (Mark Strand)
Ore 9:30
Saluti del Preside Guido Pescosolido
Introduce: Bianca Maria Frabotta
Interventi di:
Marina Caffiero
Prof. di Storia moderna - Roma
Gaetano Lettieri
Prof. di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Roma
Anna Foa
Prof. di Storia moderna - Roma
Franco Buffoni
Prof. di Critica letteraria e Letteratura Comparata – Cassino
Discussione
Coordina: Renzo Bragantini Prof. di Letteratura italiana - Roma
Ore 14:30
Interventi di:
Francesco Saverio Trincia
Prof. di Filosofia Morale – Roma
Zouhir Louassini
Giornalista RAI
Clotilde Pontecorvo
Prof. di Psicologia dell’Educazione – Roma
Bianca Maria Frabotta
Prof. di Letteratura italiana contemporanea - Roma.
Discussione
Coordina: Giulio Ferroni,
Prof. di Letteratura italiana - Roma
domenica 17 febbraio 2008
Francesca de Carolis LA VIOLENZA PACATA
Solo una breve riflessione. A proposito di toni e di parole. Di garbi formali e di sostanziali violenze. Ascoltando l’intervento di Giuliano Ferrara in apertura della puntata dell’Infedele di mercoledì 13 febbraio. A proposito del suo manifesto ‘pro-life’ con il quale mette l’aborto fra i temi della campagna elettorale.
Un tono molto pacato quello di Ferrara. Introduce, spiega, argomenta, con voce piana e calma, inanella frasi e parole modulando con garbo, sembra, finanche i respiri. Senza mai uscire dai binari di una condotta di gentilezza estrema. Anche quando gli tocca, come è normale che accada, di dover sovrastare il tentativo di qualcuno degli ospiti di intervenire. Tono pacato, certo, se per pacatezza si intende che l’accoratezza non si è trasformata in fervore, che poi non è trasceso in urla, crocefissi branditi, o intemperanze del genere…
Eppure. La pacatezza a volte sa essere agghiacciante. Se è linguaggio formale che riveste una sostanziale violenza.
E accanto alla violenza di irrompere nella campagna elettorale con una questione così dolorosa e delicata, ho avvertito, nelle parole di Ferrara, i termini di un infierire privato, per il mio sentire inaccettabile.
Come era ovvio, il discorso è andato allo sciagurato episodio del blitz nell’ospedale Federico II di Napoli. Ho trovato di grande violenza il sentire descrivere con lucida dolcezza ‘il bambino che quel feto sarebbe stato’. Come questo non fosse già il pensiero dolente di una donna che si trova di fronte alla terribile scelta di abortire. Che è pensiero e dolore intimo, che non andrebbe straziato da altri davanti a una telecamera. Con l’aggravante, nel caso, che si parlava di una persona precisa, del destino particolare del suo bambino che non è stato.
Ancora. Quante volte è stato pronunciato il nome della donna. Dieci, venti, non so… forse solo cinque volte… Era comunque un nome proprio di persona, che è rimbalzato per tutto il tempo di quell’interminabile intervento. Ma come usiamo le parole e i nomi? Come e quando siamo autorizzati a chiamare qualcun altro, che non si conosce e con cui non si abbia alcuna confidenza, con il nome di battesimo, come si farebbe con una cara amica, ad esempio… Non ho potuto fare a meno di chiedermi, se era davanti al televisore, cosa avrà provato quella donna, a sentirsi chiamare con tanta ostinata pacatezza, mentre di fatto veniva trasformata in emblema di ‘ciò che non si deve fare’.
Ho pensato alla violenza inaudita di sentire il proprio nome, pronunciato ripetutamente, ripetutamente, fin quasi a denudare la persona... L’ho sentita, su di me come su ogni persona, la violenza di una confidenza non voluta, ogni volta come una coltellata…
Davvero strideva, nella gelida pacatezza del discorso pronunciato, la parola ‘amore’, pure tante volte ripetuta.
Ma come usiamo i nomi e le parole... Non c’entra davvero nulla con questa storia, ma mi stavo al contrario giusto interrogando su un nome ‘non pronunciato’, appena un’ora prima in un’altra testata giornalistica, e c’entra forse molto con ‘accortezze’ che invece a volte ci vengono d’istinto.
Ascoltando il Tg1 delle 20,00, sempre il 13 febbraio. I titoli annunciano, fra l’altro, l’arresto di un ex assessore regionale calabrese. Questione di intrecci fra mafia e politica. Mi chiedo a che partito appartenga l’assessore, e aspetto l’annuncio del servizio. Aspetto il servizio. Ma nulla. Per conoscere quella sigla ( per la cronaca Udeur) devo andare a frugare su internet. Tutt’altra storia, certo, tutt’altro interesse, certo. A chi mai sarebbe interessato conoscere quel nome? Perché mai pronunciarlo? In fondo, solo una sigla. E poi, siamo in campagna elettorale…
Francesca de Carolis
Un tono molto pacato quello di Ferrara. Introduce, spiega, argomenta, con voce piana e calma, inanella frasi e parole modulando con garbo, sembra, finanche i respiri. Senza mai uscire dai binari di una condotta di gentilezza estrema. Anche quando gli tocca, come è normale che accada, di dover sovrastare il tentativo di qualcuno degli ospiti di intervenire. Tono pacato, certo, se per pacatezza si intende che l’accoratezza non si è trasformata in fervore, che poi non è trasceso in urla, crocefissi branditi, o intemperanze del genere…
Eppure. La pacatezza a volte sa essere agghiacciante. Se è linguaggio formale che riveste una sostanziale violenza.
E accanto alla violenza di irrompere nella campagna elettorale con una questione così dolorosa e delicata, ho avvertito, nelle parole di Ferrara, i termini di un infierire privato, per il mio sentire inaccettabile.
Come era ovvio, il discorso è andato allo sciagurato episodio del blitz nell’ospedale Federico II di Napoli. Ho trovato di grande violenza il sentire descrivere con lucida dolcezza ‘il bambino che quel feto sarebbe stato’. Come questo non fosse già il pensiero dolente di una donna che si trova di fronte alla terribile scelta di abortire. Che è pensiero e dolore intimo, che non andrebbe straziato da altri davanti a una telecamera. Con l’aggravante, nel caso, che si parlava di una persona precisa, del destino particolare del suo bambino che non è stato.
Ancora. Quante volte è stato pronunciato il nome della donna. Dieci, venti, non so… forse solo cinque volte… Era comunque un nome proprio di persona, che è rimbalzato per tutto il tempo di quell’interminabile intervento. Ma come usiamo le parole e i nomi? Come e quando siamo autorizzati a chiamare qualcun altro, che non si conosce e con cui non si abbia alcuna confidenza, con il nome di battesimo, come si farebbe con una cara amica, ad esempio… Non ho potuto fare a meno di chiedermi, se era davanti al televisore, cosa avrà provato quella donna, a sentirsi chiamare con tanta ostinata pacatezza, mentre di fatto veniva trasformata in emblema di ‘ciò che non si deve fare’.
Ho pensato alla violenza inaudita di sentire il proprio nome, pronunciato ripetutamente, ripetutamente, fin quasi a denudare la persona... L’ho sentita, su di me come su ogni persona, la violenza di una confidenza non voluta, ogni volta come una coltellata…
Davvero strideva, nella gelida pacatezza del discorso pronunciato, la parola ‘amore’, pure tante volte ripetuta.
Ma come usiamo i nomi e le parole... Non c’entra davvero nulla con questa storia, ma mi stavo al contrario giusto interrogando su un nome ‘non pronunciato’, appena un’ora prima in un’altra testata giornalistica, e c’entra forse molto con ‘accortezze’ che invece a volte ci vengono d’istinto.
Ascoltando il Tg1 delle 20,00, sempre il 13 febbraio. I titoli annunciano, fra l’altro, l’arresto di un ex assessore regionale calabrese. Questione di intrecci fra mafia e politica. Mi chiedo a che partito appartenga l’assessore, e aspetto l’annuncio del servizio. Aspetto il servizio. Ma nulla. Per conoscere quella sigla ( per la cronaca Udeur) devo andare a frugare su internet. Tutt’altra storia, certo, tutt’altro interesse, certo. A chi mai sarebbe interessato conoscere quel nome? Perché mai pronunciarlo? In fondo, solo una sigla. E poi, siamo in campagna elettorale…
Francesca de Carolis
giovedì 14 febbraio 2008
Brunella Antomarini A PROPOSITO DELL'ABORTO
La pratica dell'aborto non è una conquista moderna. Lo è il fatto che
lo si possa fare legalmente. L'aborto è una pratica antica che c'è da
quando le donne sono in grado di regolare la propria vita in modo
consapevole. Per cui l'alternativa non sarebbe abortire o non abortire
ma abortire legalmente o illegalmente, perché le donne lo faranno
sempre e comunque. L'alternativa non è se l'aborto sia giusto e quindi
legale o ingiusto e quindi illegale. L'aborto è ingiusto. Ma è più
ingiusto imporre a un corpo di contenerne un altro e di dargli la
vita. E' una violenza che solo una donna può capire. La fonte di una
delle più grandi felicità diventa una tortura. La logica qui dunque
non è binaria, ma comparativa, come Aristotele diceva delle virtù. Cè
un più e meno del giusto. Il meno giusto qui è costringere le donne a
decidere della propria vita illegalmente. Il più giusto qui è
rispettare la decisione dolorosa che una donna prende su di sé.
lo si possa fare legalmente. L'aborto è una pratica antica che c'è da
quando le donne sono in grado di regolare la propria vita in modo
consapevole. Per cui l'alternativa non sarebbe abortire o non abortire
ma abortire legalmente o illegalmente, perché le donne lo faranno
sempre e comunque. L'alternativa non è se l'aborto sia giusto e quindi
legale o ingiusto e quindi illegale. L'aborto è ingiusto. Ma è più
ingiusto imporre a un corpo di contenerne un altro e di dargli la
vita. E' una violenza che solo una donna può capire. La fonte di una
delle più grandi felicità diventa una tortura. La logica qui dunque
non è binaria, ma comparativa, come Aristotele diceva delle virtù. Cè
un più e meno del giusto. Il meno giusto qui è costringere le donne a
decidere della propria vita illegalmente. Il più giusto qui è
rispettare la decisione dolorosa che una donna prende su di sé.
giovedì 7 febbraio 2008
Piera Mattei ANCH'IO, NEL MERCOLEDI DELLE CENERI
anch'io, nel mercoledì delle ceneri
figlia di battezzati
al di qua mi trattengo
del vostro incredibile credo
anch'io sarò ebrea
per le vostre preghiere!
detentori di verità
pregherete voi oggi
anche per la mia conversione?
dalle spalle, dai globi oculari
dal cervello e le mani
strappo via quella pena
della vostra preghiera
l'ansia devota di voi santi credenti
per l'anima mia!
prego lasciatela senza
esclusa
dalla vostra insopportabile
onnipotenza
andate dunque
in pace
via
lontani
dagli sdegni miei
umani
Lucreziana 2008
Roma 6 febbraio, mercoledì delle ceneri 2008
figlia di battezzati
al di qua mi trattengo
del vostro incredibile credo
anch'io sarò ebrea
per le vostre preghiere!
detentori di verità
pregherete voi oggi
anche per la mia conversione?
dalle spalle, dai globi oculari
dal cervello e le mani
strappo via quella pena
della vostra preghiera
l'ansia devota di voi santi credenti
per l'anima mia!
prego lasciatela senza
esclusa
dalla vostra insopportabile
onnipotenza
andate dunque
in pace
via
lontani
dagli sdegni miei
umani
Lucreziana 2008
Roma 6 febbraio, mercoledì delle ceneri 2008
Flavia Zucco APPELLO DONNE E SCIENZA
Appello Associazione Donne e Scienza
I ripetuti e recenti attacchi alla 194, che fanno riferimento ad evidenze scientifiche, richiedono una chiarificazione di fondo, per quel che riguarda la scienza.
Almeno tre obiezioni vanno fatte:
1. La prima riguarda il consenso a che la scienza sia posta a fondamento dell'etica. Semplificando, la scienza ha a che fare con il vero ed ha carattere descrittivo ed esplicativo; l’etica ha a che fare con il giusto ed ha carattere normativo. Siamo di fronte a due concetti diversi, su cui varrebbe la pena di riflettere.
2. La seconda obiezione è inerente alla concezione che la scienza produce verità immutabili: è ormai noto a tutti che la scienza, nel suo progredire, può smentire precedenti dogmi, o produrre conoscenze che spostano completamente quei termini di riferimento, che si ritenevano ormai acquisiti.
3. La terza obiezione è quella di assecondare un riduzionismo scientifico, nei confronti della vita e della specie umana, che gli stessi scienziati si sono preoccupati più volte di condannare, in quanto nessuno di noi è riconducibile solo alle sue molecole od al suo essere biologico.
I neonatologi, certamente si trovano a tenere in vita feti sempre più precoci e le loro tecniche, in questa sfida, stanno migliorando enormemente. La domanda da porsi tuttavia, è se questi feti siano completamente formati ed in grado di vivere una vita autonoma (dal corpo materno o da una macchina). Di fatto no. Si pensa che, col progredire della coltura degli embrioni da un lato, e delle tecniche neonatologiche dall'altro, si potrà arrivare a coltivare il feto, passando dalla piastra di coltura per lo zigote, mano a mano a macchine più complesse, per gli stadi più avanzati dello sviluppo.
La vita biologica, intesa come divisione di cellule e loro specializzazione, è un continuum e quindi dire che un feto di 19 settimane è vivo è una ovvietà.
Esistono, però, delle tappe critiche che consistono nel compimento della formazione degli organi e della loro funzionalità, che devono avvenire nelle condizioni fisiologiche ottimali, perchè la vita umana della futura persona non sia gravemente compromessa.
Chiediamo quindi che si smetta di invocare la scienza, per rimestare le acque della politica intorno ad una legge, che rappresenta una conquista per una società civile.
Presidente
Associazione Donne e Scienza
Flavia Zucco
I ripetuti e recenti attacchi alla 194, che fanno riferimento ad evidenze scientifiche, richiedono una chiarificazione di fondo, per quel che riguarda la scienza.
Almeno tre obiezioni vanno fatte:
1. La prima riguarda il consenso a che la scienza sia posta a fondamento dell'etica. Semplificando, la scienza ha a che fare con il vero ed ha carattere descrittivo ed esplicativo; l’etica ha a che fare con il giusto ed ha carattere normativo. Siamo di fronte a due concetti diversi, su cui varrebbe la pena di riflettere.
2. La seconda obiezione è inerente alla concezione che la scienza produce verità immutabili: è ormai noto a tutti che la scienza, nel suo progredire, può smentire precedenti dogmi, o produrre conoscenze che spostano completamente quei termini di riferimento, che si ritenevano ormai acquisiti.
3. La terza obiezione è quella di assecondare un riduzionismo scientifico, nei confronti della vita e della specie umana, che gli stessi scienziati si sono preoccupati più volte di condannare, in quanto nessuno di noi è riconducibile solo alle sue molecole od al suo essere biologico.
I neonatologi, certamente si trovano a tenere in vita feti sempre più precoci e le loro tecniche, in questa sfida, stanno migliorando enormemente. La domanda da porsi tuttavia, è se questi feti siano completamente formati ed in grado di vivere una vita autonoma (dal corpo materno o da una macchina). Di fatto no. Si pensa che, col progredire della coltura degli embrioni da un lato, e delle tecniche neonatologiche dall'altro, si potrà arrivare a coltivare il feto, passando dalla piastra di coltura per lo zigote, mano a mano a macchine più complesse, per gli stadi più avanzati dello sviluppo.
La vita biologica, intesa come divisione di cellule e loro specializzazione, è un continuum e quindi dire che un feto di 19 settimane è vivo è una ovvietà.
Esistono, però, delle tappe critiche che consistono nel compimento della formazione degli organi e della loro funzionalità, che devono avvenire nelle condizioni fisiologiche ottimali, perchè la vita umana della futura persona non sia gravemente compromessa.
Chiediamo quindi che si smetta di invocare la scienza, per rimestare le acque della politica intorno ad una legge, che rappresenta una conquista per una società civile.
Presidente
Associazione Donne e Scienza
Flavia Zucco
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